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Una “scampanata„

In Romagna.

Tornavano dalla parrocchia, dopo i vesperi, frotte loquaci di donne, uomini e fanciulli e coppie amorose, sorridenti o serie nel loro bisbiglio; i dami col garofano all'occhiello.

Una gran dolcezza primaverile calava dal cielo, ove serenamente moriva il lume crepuscolare e, sensibile e ineffabile, si effondeva dalla terra ove il nuovo verde pareva velarsi a poco a poco e oscurarsi e, lontano, sparire. Come due ragazzi s'arrestarono per tirar sassate in un ricovero di passeri, nel fitto del cinguettio, il nonno d'uno di loro ammonì a voce aspra:

– Lasciateli stare, poveri animalini! – Ubbidirono; lanciarono i sassi nel fiume; e nel ricovero di fronde le piccole voci ripresero richiami, proteste, confidenze, querele, saluti.

A un punto della strada, la Faziòla e Fulgenzio, che venivano fra gli ultimi, l'uno dal lato destro, l'altra a sinistra, si videro.

– Buona sera, Fulgenzio.

– Buona sera, Faziòla.

– Il sole è calalo bene. Avremo bel tempo anche domani.

– Ce n'è bisogno.

– Dove siete a lavorare, adesso?

– Vanghiamo le vigne.

– Sarete in molti.

– Quindici o sedici.

– E han fatto «caporale» Giulio, eh?

– Giulio.

– Povero Fulgenzio! Non c'era era ragione di farvi torto.

– Chi comanda ha sempre ragione.

Dopo una pausa lei chiese:

– Ma è vero quel che dicono?

– Dicono.

La loro malignità non andava più oltre dell'accennare alla ciarla che Giulio dovesse ai meriti della moglie la nomina a capo degli operai braccianti.

– Per fortuna non avete famiglia da mantenere, voi.

– Oh! io mi contento che Dio mi lasci la salute. Ma… – E l'infelice guardò la Faziòla sorridendo in quella sua maniera di bontà ingenua per cui appariva men brutto e più triste: – … Ma se mi viene una febbre, io non ho un cane che mi porti una goccia d'acqua.

Allora, quantunque compiangesse lui, la Faziòla sospirò per sè.

– Meglio non aver nessuno, che aver dei cani, per modo di dire, che vi porterebbero via il boccone di bocca, se potessero.

– Non vi trattan bene in casa?

Essa volle attenuare.

– Capirete anche voi: le annate vanno scarse e uno di più in famiglia, aggreva.

– Ma voi lavorate.

– Questo è vero. C'è la tela da fare? Tocca a me. C'è da rappezzare la roba? Tocca a me; la sera o la mattina. Al dì, o si va alla foglia, o all'erba con le ragazze; o s'aiuta la reggitora. In ozio non ci sto; quest'è vero.

Era disgraziata anche lei, la parte sua, povera Faziòla!

Quindi Fulgenzio riprese:

– Avete fatto male a non maritarvi un'altra volta, quando eravate a tempo.

– Le vedove che non han quattrini si lascian dove sono; lo sapete pure. Piuttosto voi, Fulgenzio, perchè non avete preso moglie?

Entrambi s'erano già dimenticati d'aver riconosciuto un vantaggio in lui il non aver famiglia da mantenere; e lui tornò a sorridere.

– Chi volete che mi prendesse?

Infatti da giovane era anche più brutto e più magro, sembrava più zoppo; sembrava tirasse l'anima coi denti.

– Una ragazza non dico – la Faziòla rispose. – Le ragazze han delle pretese; ma una donna quieta…

– Trovarla una donna quieta!

Tacquero, mentre la Faziòla diceva fra sè e a occhi bassi, nel silenzio: «Oh non c'ero io?» Almeno così egli credette, perchè sorrise ed esclamò commosso:

– Ah, lo capisco il mio sbaglio! Avrei dovuto sposarvi voi, Faziòla! Voi eravate proprio la donna per me.

– E io vi avrei preso, Fulgenzio!

Mormorò l'uno:

– Adesso è fatta.

– Adesso è fatta – mormorò l'altra.

Nè parlaron più finchè furono vicini a casa.

Ma quando la Faziòla stava per augurar la buona notte, lasciar la strada e passare la siepe, Fulgenzio, fermo, si guardò attorno, raccolse il fiato e con voce tremula disse:

– Sentite: la gente può dir quel che vuole; ma io, di una donna ne ho proprio bisogno.

– Lo dico anch'io.

– Se voi mi voleste…

Alla proposta lei si mise a ridere forte.

– Ma siete matto? Ho cinquant'anni; sono vecchia…

– Mi volete?

Ridevano tutti e due, tanto la cosa era seria; tanto egli temeva un no e tal voglia aveva lei di rispondere sì.

Ma vinse la ragione.

– Bisogna pensarci su, per non pentirsi dopo.

– Pensiamoci. Domenica ne discorreremo.

– Va bene. Buona notte, Faziòla.

– Buona notte, Fulgenzio.

*

Avevano una settimana per pensarci; ed era troppo; e la settimana fu lunga. Finchè aveva sperato di migliorare un po' la sua condizione risparmiando il corpo malconcio, Fulgenzio aveva sperato anche di trovar donna non molto innanzi con gli anni la quale lo compensasse della giovinezza perduta senza amore; ma cadutagli ogni speranza e presunzione, doveva ringraziar Dio se la Faziòla lo voleva! Era una brava donna, che a opera nei campi o a tessere, guadagnerebbe tanto da non tornargli di peso; una buona donna da cui, quando Dio lo chiamasse per primo a sè, avrebbe amorevole assistenza. Davvero?.. Non seduceva la Faziòla il solo interesse? Non si era sparsa voce ch'egli aveva da parte qualche soldo? Questo sospetto lo infastidiva; ma, insomma, la donna era buona o no? Sì, era buona. E allora, via il pensiero maligno!

Quanto a lei, la Faziòla, uscir di quella casa in cui i parenti la trattavano da serva e le invidiavano il pane che mangiava; e faticar meno, e vivere in casa sua, giudicava tal fortuna che a rifiutarla le sarebbe parso d'offendere la Provvidenza. Pure un ritegno le restava. Perchè? si sentiva il coraggio di sfidare la gente, o no…

Finalmente venne la domenica a chiuder la settimana dell'attesa e dell'incertezza.

– Come la mettiamo? – chiese, al ritorno dai vesperi, Fulgenzio. E sorrideva in quel suo modo faticoso.

– Ho paura del mondo.

– Io no; non ci bado io!

– Ci faranno la «scampanata».

– E che la facciano!

Egli cercò inanimirla; e tanto disse, che lei accondiscese. Pur mentre incoraggiava, quella giusta apprensione degli scherni che turberebbero forse per anni la loro pace; quel timore dell'avversione o della condanna pubblica, toglieva ardimento a lui stesso e l'induceva, il dì dopo, a interrogare l'arciprete. – A costo di spender qualche cosa, non si potevano evitare le pubblicazioni matrimoniali? —

– Impossibile!

L'arciprete però fece coraggio a Fulgenzio: – Non badassero a rispetti umani! —

– Un po' di meraviglia in principio, eppoi smetteranno.

– È quel che dico anch'io.

Altro che meraviglia! Fu stupore, fu ilarità mal repressa per tutta la chiesa quando l'arciprete disse dall'altare:

– Si pubblica per la prima volta la domanda di matrimonio di Fulgenzio Landi con la Violante Stradelli vedova Faziòli.

E, dopo, la fidanzata non osava più uscir dalla porta di casa, avvelenata in casa dalle canzonature dei nipoti e dei pronipoti; nè il fidanzato osava cercarla. Essa ignorava in che modo resisteva lui alla tempesta. E Fulgenzio sorrideva e taceva.

«Presto o tardi smetteranno!»

Altro che smettere! Dio sapeva quel che preparavano per il dì delle nozze!

Fortunatamente l'arciprete ebbe un buon consiglio; e allorchè, nel gran giorno, la gente accorse alla prima messa per assistere allo sposalizio, apprese che da due ore gli sposi eran già fatti e che già erano a casa loro.

– Stamattina ce la siam cavata – sospirava la Faziòla. – Il peggio sarà stasera.

Ripeteva Fulgenzio:

– Non ci pensate.

Intanto si vedeva che lui ci pensava.

Attendevano, intanto, a riordinar la casa, oh senza alcuna smania di sposi novizi!: irritati, al contrario, che a loro due, così quieti e consapevoli degli anni e dei malanni che portavano addosso, il mondo attribuisse simili sciocchezze.

Molte erano le faccende. Anzitutto, il letto, primo talamo della Faziòla, da riconnettere; e i pagliericci da riempir di foglie, e i cuscini da rifare; quindi, ripulire le masserizie, riordinare e spartire la biancheria e i panni che meritavano rattoppi; e nettar la cucina in modo che non ci fosse da vergognarsi nemmeno se v'entrassero l'arciprete e il fattore.

– Ah le mani d'una donna! – diceva Fulgenzio strofinando, dentro, il paiolo.

Inoltre, si prepararono il desinare di nozze con le tagliatelle in brodo e il lesso.

– Sono dieci anni che non ho sentito un poco di manzo; da quando si maritò mia sorella – confessò Fulgenzio.

Similmente la Faziòla gustava il vino.

– Buono! Buono! Non me ne davano mai, in casa, a me!

E, d'improvviso, il vino le fece concepire l'idea mirabile, che schiarì del tutto il malumore in entrambi. Se dessero da bere agli offensori?

– Ho fatto un pensiero curioso – lei disse. – Se dessimo da bere?..

Fulgenzio ascoltava, sorridendo; approvando,

– Sì, sì! Un bel pensiero! Sicuro!.. Rideremo! – E rideva.

– Il vino dove lo mettiamo?

– In un bigoncio.

E poco dopo egli fermò il bigoncio nella carriola; e andò alla fattoria a riempirlo di quello buono.

Ma al ritorno vide la moglie desolata, pentita d'averlo indotto alla grave spesa.

– Ne avremmo tante delle spese da fare! – Infatti mancavano di questo; mancavan di quest'altro…

Allora Fulgenzio si sentì in obbligo di consolarla; di rivelarle il segreto contenuto nell'animo a fatica. Trasse dalla tasca della giacca il libercolo.

– Guardate qui! Non siamo poi disgraziati come vi credete.

– Cos'è?

– Il libretto della cassa di risparmio.

Essa aveva spalancati gli occhi; guardava; ma non sapeva leggere.

– Dice – spiegò Fulgenzio – che ci ho settecento franchi, senza i frutti.

– Ma vi fidate voi a lasciarli in mano di altri?

 

– Eh! alla cassa…

– Io no: io non mi fido di nessuno! Volete vedere dove li tengo, io?

Salirono nella camera del talamo. Ivi lei, rimestato che ebbe in fondo alla cassapanca, elevò la calza trionfale, sonante e gravida del gruzzolo; e disse, sgroppandola e riversandola sul letto:

– Contiamoli. Non so neanche quanti me ne abbia.

Il marito aveva le lagrime agli occhi men per la gioia che per il rimorso di quel suo dubbio, che la donna l'avesse sposato per interesse. In un'occhiata si vedeva che dei quattrini n'aveva più lei!

Altre lagrime, non di gioia, non di rimorso velavan gli occhi della moglie.

– Sono quei pochi – disse – che mi rimasero dopo la morte di Faziòli, e quelli che misi insieme a vendere la roba quando perdei il ragazzo.

Ma se fosse vissuto il suo figliuolo, oh no, non avrebbe pensato a rimaritarsi, a cinquant'anni!

– Povera la mia Faziòla! – esclamò, intenerito, Fulgenzio.

Per impedire ogni tenerezza e per sottrarsi alla dolorosa memoria, lei ripetè:

– Contiamoli.

Cominciarono il conto, il loro sguardo si riaccendeva mentre distinguevano le monete e le ammucchiavano sorte per sorte, ed enumeravano i biglietti di banca; mentre il vino, a cui non erano avvezzi, ferveva loro nel sangue. Così, a poco a poco, i diversi sentimenti si confusero in una gioia comune.

E il marito non potendo terminare il conto, distese le magre braccia a un timido abbraccio.

– Povera la mia donna!

Lei sorrise.

Fu un momento. In quel momento avrebbero dato fors'anche il libretto della cassa e tutte quelle monete per tornare indietro di dieci anni; ma la sposa subito tornò in sè:

– Sono vecchia, Fulgenzio!

Nè lui insistette; ebbe anche lui la coscienza della sua propria insania; e ripresero il conto.

*

… La turba frenetica avanzava avanzava. Era una gara a chi strepitasse più forte: un fracasso di secchi battuti a furia; di cassette di latta bastonate senza tregua; di coperchi picchiati l'un contro l'altro come piatti striduli; di campanacci – quelli che s'appendono al collo de' buoi per la fiera – scossi da instancabili mani; e corna di bue roboanti, e voci umane fatte bestiali: grugniti, gallicini, ragli, fischi. Un ex soldato, trombettiere, si sfiatava nel suo strumento; un cacciatore, con meno fatica, sparava a quando a quando colpi di schioppo all'aria, e due cani abbaiando e latrando s'introdussero nella compagnia.

La dimostrazione veniva solenne, memorabile. All'infernale sollazzo dava motivo e impeto l'oscura coscienza rusticana, avversa a che la vecchiaia presuma cosa da giovani, e offesa da una vedovanza interrotta. Nessuno di coloro pensava certo che invece di schernire un connubio ridevole e sozzo, scherniva l'alleanza di due povere anime e di due timorosi egoisti condotti dalla fortuna a reciproco soccorso.

Ma la Faziòla e Fulgenzio ridevano.

– Sono qui! – disse la donna. – Vado a smorzare il lume.

A posta, per far credere che erano a letto e per accrescersi il piacere dell'improvvisata, l'avevano acceso nella camera nuziale.

Quindi, al mancar di quella luce, le oscene grida e le risa superarono tutti i suoni.

– Adesso accendiamo il lanternino.

Così fecero, nascosti sotto la scala; e attesero.

– Bisogna lasciarli un po' sfogare – ammoniva Fulgenzio.

– Sentite la voce di Mauro?

– E quel della tromba chi sarà?

– È Martino dell'Argine.

– Che matti!

– Vogliamo ridere!

Ma in quel punto il cacciatore sparò due colpi.

– Anche delle schioppettate!

E la moglie:

– Non ci faran del male, eh? Quando si è matti!..

– Lasciatemi andare innanzi.

Innanzi lui, con la carriola su cui il bigoncio; dietro, andò la donna col bicchiere e il lanternino.

A quell'apparizione improvvisa, chi tacque un istante, chi sonò o soffiò con più lena; e in massa tutti s'appressarono alla porta.

Miauu…; chicchiricchì…; ohn: ohn: ohn!..; buum buum buum…; taratatà taratatà, taratatà…; cococodè!..; e, prevalenti, strazianti, i cian cian dei metalli e il dan dan dei campanacci.

– Bravi ragazzi! Bravi! Venite a bere!.. Ohe!.. gente! Chi vuol bere?

– Vino buono, vino buono! – ripeteva la Faziòla. – E di cuore, ragazzi!

Súbito porse il bicchiere pieno a colui che ebbe di fronte. Quegli lasciò cadere la secchia disarmonica per bere d'un fiato, e gridar dopo:

– Viva gli sposi!

– A voi! – disse la sposa riempiendo a sua volta il bicchiere per un altro.

Gli ultimi, di dietro, sospingevano: – Cosa c'è? – Cosa fanno?.. Dan da bere! – Un bigoncio! – Ohe! ci siamo anche noi! – Vino!

Di súbito la meraviglia, l'ammirazione e un senso quasi di gratitudine avevan còlti gli animi; di súbito, secondo avviene nella gente rude, i cuori s'erano aperti a un sentimento nuovo, opposto.

Non come altri, nella condizione loro, la Faziòla e Fulgenzio avevano gettato dalla finestra, per vendicarsi, immonde cose o inani minacce; o non avevan taciuto, essi, in una vile rassegnazione; ma passavan da bere, e vino buono! Succedevano alle grida folli e ai motti sconci, voci di gioia e motti che esprimevan benevolenza; e tutti in una volta.

– La fanno da signori, gli sposi!

– Viva gli sposi!

– Ehi! Faziòla! Il primo che nascerà voglio tenervelo io al battesimo!

– Guardatevi dai compari, Fulgenzio!

– Adesso che ha moglie, Fulgenzio diventerà caporale anche lui!

– No, no! la Faziòla non gli farà torto!

– Fulgenzio è geloso!

– Fulgenzio è pacifico!

– Viva gli sposi!

– Viva l'allegria!

Il trombettiere impose silenzio.

– Zitti! state zitti! – e avventava scapaccioni ai ragazzi più ostinati nel frastuono. – Adesso gli sposi ballano la monferina! – La proposta fu accolta da applausi; la monferina fu intonata dalla tromba, cantata e zufolata; mentre altri tentavano di convincere Fulgenzio, il quale si schermiva con ambedue le braccia.

– Ho gambe da ballare io, matti che siete? – Rideva dimenandosi fra le mani e le braccia che l'urtavano, lo spingevano.

– Avanti! Forza! – Forza, Fulgenzio!

– Lasciatemi stare! Lasciatemi andare!

Ma la Faziòla diede al marito la prima prova di abnegazione; una gran prova, anzi, di virtù. Comprendendo che per acquetarli era necessario che lei almeno accondiscendesse, tosto s'adattò al ballo con l'agilità e la disinvoltura de' suoi vent'anni e del ballerino che combinò a saltarle di contro.

Ebbene: la virtù fu premiata; Fulgenzio lasciato tranquillo; e, per emulazione più che per burla, i giovani gettarono i recipienti sonori, i campanacci e i corni; e in mancanza di donne, si misero a ballare tra loro, intanto che Fulgenzio attingeva e offriva il vino attorno con viso lieto.

– Chi ne vuole, ragazzi?.. È poco, ma volentieri… Finchè ce n'è!.. Di cuore!

Quando egli ebbe vuotato il bigoncio e il trombettiere perduto il fiato, tutti ripresero gli strumenti del baccano.

Adesso però ciascuno dava dentro nel suo con l'anima d'un inno glorioso.

… – Felice notte!

– Viva gli sposi!

– Viva l'amore!

– Viva l'allegria!

*

… E finalmente gli sposi andarono a letto, felici per il sollievo del peso che aveva preoccupato a lungo il loro animo; per il piacere d'una vittoria guadagnata, in disuguale battaglia, con l'astuzia; per la gioia d'essersi sottratti, anche in avvenire, a beffe o biasimi, meritando invece indulgenza e benevolo ricordo.

E aggiungendosi a ciò un eccitamento intimo, di reciproca gratitudine, e la certezza di giorni meno tristi, forse ebbero allora la persuasione! che avevano saputa togliere agli altri l'illusione, che a torto prima presupposta in essi, aveva indotta la terribile turba a tanto sbattere, gridare e scampanare.

Il polso

Nel settecento:
per i mariti d'oggidì.

Difficile dire se il conte La Fratta amasse più sè stesso o la marchesa Arnisio; ma poichè per acquistarsi dal mondo e dalla marchesa la lode di cavaliere perfetto e per secondare gli stimoli del cuore insisteva da un anno a servire con cura paziente e con indulgente costanza una dama così mutabile di pensiero e di animo, egli certo amava troppo sè stesso e oltre il necessario a un cavalier servente egli amava l'Arnisio.

A dire il vero, e a sua scusa, ella esercitava tuttavia su di lui l'attraenza dell'ignoto e del nuovo; la virtù quasi d'un fascino arcano; quantunque, a dire il vero, egli in un anno n'avesse conosciute molte singolarità e usanze e malizie. Già sapeva La Fratta quando fosse bene contrapporsi e quando fosse meglio accondiscendere a quello che alla dama piacesse affermare; già aveva appreso a distinguere su le sue labbra rosate tutti i gradi di sprezzante pietà e d'ironia sottile che vi segnasse il sorriso; già comprendeva tutto quanto comandasse o esprimesse dalla sua abile mano il ventaglio irrequieto: anche, tra lui e lei, quand'ella aveva l'emicrania – ed era spesso – l'esperienza e la consuetudine avevano sancita una specie di prammatica ai modi e ai discorsi d'entrambi; e a lui toccava parlare di mille cose per divagarne il pensiero doloroso e pesante, e a lei bastava rispondere, a diritto o a rovescio, no, sempre no, o sì, sempre sì.

Questo ed altro il conte sapeva della marchesa; ma una cosa non sapeva: se ella avesse il cuore o non l'avesse. «L'ha o non l'ha?» egli si chiedeva ogni giorno, e addentrandosi ogni giorno più nella ricerca dell'ignoto n'era più avvinto dal fascino; cosicchè ogni giorno più s'innamorava della dama e di sè, che con sua gloria resisteva a servirla.

Finalmente l'Arnisio, agli scatti di stizza e alle bizze nel brio e alle arie annoiate alternando gli accordi e i riposi e gli assensi, cominciò ad accarezzarlo di certe occhiate tanto lunghe e sentimentali ch'egli credette di giungere a proda: il sentimento deriva dal cuore; dunque il cuore l'aveva! Nè il cuore della marchesa doveva battere per altri che per lui, che da un anno la serviva con cura paziente e con indulgente costanza; non per altri. Ond'ecco La Fratta a studiare di quale e quanto e quanto duraturo amore fosse capace il cuore piccoletto della graziosa Arnisio. Perchè ella non aveva con lui quelle espansioni compiute, quei confidenti abbandoni e neppure quei moti meditati o spontanei di gelosia che tutte le donne amando, o fingendo d'amare, sogliono avere. E nello studio La Fratta aguzzò così i suoi occhi e il suo pensiero a leggere nel pensiero e negli occhi della dama che, ahimè!, troppo credette d'apprendervi.

Le ire e i languori; le inquietudini fanciullesche e le remissioni di donna usata alla vita; i capricci, le allegrezze, le noie traevan forse cagione non solo dall'indole bizzarra, ma da un intimo, segreto travaglio che le eccitava e tribolava lo spirito: lo sguardo di lei, spesso stanco o vagante e la voce spesso velata e mesta, dicevan forse che il suo spirito vagava dietro un inafferrabile bene, finchè, con uno sforzo mal nascosto di volontà, non le riuscisse di riaversi o mentire; e allora abbondava di cachinni e di frizzi, cattiva a un tempo e vezzosa. Anche, l'assiduo disturbo dell'emicrania, invece che la simulazione d'un malanno alla moda, poteva essere la dissimulazione di un urgente rovello; gli sdegni di lei contro lui non erano forse, come egli aveva sempre creduto, modi di civetteria sagace, ma più tosto non rattenuti impeti di sfogo sincero; e quelle carezzevoli occhiate, quelle occhiate lunghe e sentimentali, potevano non essere tardi e magri compensi alle fatiche della sua servitù, ma, tutt'al più, segni di compassione per lui in una confessione oramai manifesta: «Il cuore l'ho, oh se l'ho!; ma non per voi, povero conte!» Or bene, il conte La Fratta non disse alla marchesa Arnisio come Publio a Barce nel melodramma del Metastasio:

 
Se più felice oggetto
Occupa il tuo pensiero,
Taci, non dirmi il vero.
Lasciami nell'error!
 
 
È pena che avvelena
Un barbaro sospetto;
Ma una certezza è pena
Che opprime affatto un cor;
 

no: i due amori, l'uno della dama e l'altro di sè, che premevano l'animo del conte e vi si rafforzavano senza confondersi, lo sospingevano ad accertare la verità; l'uno, perchè chi è innamorato talora dubita a torto; l'altro, perchè, se non dubitasse a torto, egli ritraendosi a tempo non compromettesse la sua dignità e la sua fama di cavaliere di spirito.

Bel tema, è vero?, sarebbe stato per una satira il caso d'un patito che con zelante servitù e con dabbenaggine inconscia facesse riparo all'amore ignoto della sua dama!; e La Fratta aveva in odio le satire. O, dunque, la marchesa amava alcuno di quelli che le farfalleggiavano intorno, il quale, come minore del conte, ella non potesse assumere a servirla senza scapito agli occhi del mondo; o amava chi attendeva, incurante o ignaro di lei, ad altra dama della quale ella fosse gelosa. E come ella avrebbe lasciato La Fratta nel dubbio, ed egli non voleva restarci, egli interrogava il mistero, scrutava, investigava. Ma invano: tal donna era l'Arnisio che davanti a niuna persona e in niuna circostanza perdeva il predominio di sè; nè mai, appuntando i suoi sospetti su questo o su quello che a lei fosse d'intorno, il conte riusciva a sorprenderle in volto ombra alcuna di rossore o di pallore, di smarrimento o di vergogna. Il mistero per La Fratta permaneva fitto, fosco, quasi spaventevole; e il suo caso diveniva pietoso e tendeva a diventare ridicolo.

 

Ond'eccolo a richiedere di consiglio l'abate Fantelli: un abate di umore giocondo e di mente arguta, caro a tutte le dame di cui conosceva le corde più sensibili al tocco delle sue allusioni e de' suoi frizzi, nè men caro agli amici, cui giovava d'esperienza e di senno.

L'abate consigliò: – Tastale il polso.

Come La Fratta non comprendeva, quegli aggiunse:

– Nè i palpiti del cuore nè i battiti del polso si possono frenare. Allorchè ricorderai alla marchesa il tuo rivale sconosciuto, il suo cuore batterà più forte, e non potrai sentirlo, ma il suo polso batterà più in fretta e tu potrai sentirlo.

Al conte questa parve un'invenzione mirabile. L'abate continuò:

– Non si falla; ma ricordati che io confido la ricetta alla tua segretezza.

– Son cavaliere! – rispose La Fratta. E corse dalla marchesa Arnisio.

*

Essa, all'entrare del conte, era abbandonata sul canapè con la testa reclinata mollemente e la mano sinistra su gli occhi. Ai passi lievi dell'amico non si mosse; e al saluto di lui e al bacio di lui su la sua destra, rispose con un sorriso ambiguo, meno soave che doloroso.

– L'emicrania, eh? – domandò La Fratta.

– Sì – rispose ella in tono flebile.

La Fratta sospirò triste pur godendo d'un'emicrania almeno quel giorno opportuna a' suoi fini.

– Chi l'avrebbe detto ierisera? – seguitò egli, non per rammentare il tempo felice nella miseria ma per avviarsi súbito alla meta. Prima però chiese: – Desiderate un po' di melissa?

– Sì – ripetè la marchesa, perchè di prammatica quel giorno era il sì; e trasse un breve sorso dalla boccettina che l'amico le accostò alle labbra.

– Che sguardo febbrile! – disse il conte prima ch'ella riabbassasse le pálpebre; e sedutosi a lato di lei e recatosi il cedevole braccio di lei su le ginocchia, con le due prime dita ne cercò il polso attentamente.

Toc… toc… toc…: nelle arterie, che rigavano d'una trama azzurrina la bella carne bianca, il sangue perveniva dal cuore pulsando all'avambraccio in misura placida ed uguale.

– Chi l'avrebbe detto ierisera? (il conte riprendeva il cammino). Corgnani giurava di perdere a tarocchi perchè lo costringevate a guardarvi, tanto eravate leggiadra; Travasa sostenne d'avervi ravvisata a Versailles in una procace figurina di Boucher o di Fragonard; Terenzi proclamò che nessuna dama di Parigi saprebbe ballar meglio di voi il paspié. – E ristando, per prudenza: – No – disse – non avete febbre. – Pure, come più d'una volta aveva profittato dell'emicrania per tenere a lungo nelle sue una mano della dama, ritenne invece il polso, e riandando le vicende della sera innanzi, passata con lei alla conversazione di una dama illustre, e riferendone vanità e pettegolezzi, con abile arte potè nominare coloro di cui aveva maggior sospetto. Ma il polso batteva sempre uguale e placido.

«Se non è questo, se non è quello, chi sarà?» domandava intanto La Fratta a sè stesso. «Quello non può essere: proviamo quest'altro.»

Proseguì nell'esame e nella tentazione a quel polso ritmico e muto sinchè ebbe percorsa invano la via che si era proposta. Oramai retrocedeva; s'ingarbugliava in nuove ipotesi; s'imbrogliava in nuovi dubbi. Infine, s'appigliò a chi gli capitò dinanzi al pensiero:

– Il duchino, eh?, il duchino sdilinquisce per l'Arboldi; sdilinquiscono tutt'e due, il duchino e vostro marito.

Oh Dio! gli era parso che il polso affrettasse; gli era parso; ma non era possibile che il sangue di una dama come la marchesa Arnisio si commovesse al ricordo di un vagheggino quasi adolescente! Per altro, la marchesa era così strana…

– Io credo – riprese egli – che l'Arboldi non preferirà quel bamboccio a un cavaliere qual è vostro marito. – Non c'era più dubbio! La marchesa amava il duchino; amava – strana donna! – il frutto acerbo!; il polso che aveva confessato era lì pronto a ripetere la confessione. Il duchino! Per prima vendetta il conte volle discorrere e burlarsi di lui affinchè, magari, la capricciosa dama arrabbiasse o magari, piangesse, svenisse. Ma il sangue nell'arteria rifluì placido ed uguale… E solo allora, trasecolando, La Fratta ebbe un'idea, un lampo, quasi un fulmine: – il marito?.. – Parlò del marito.

E nessun dubbio: a parlare del marito e dell'Arboldi il polso precipitava, martellava, scottava! Come scottato, il conte abbandonò il braccio della dama e balzò in piedi. Stupito, stordito, non sapeva più che si dicesse. Diceva:

– Dunque, se l'abate Fantelli… No, non è possibile! – Ed era possibile!.. Appena si fu ricomposto, senza esitare, rapido, asserì: – Voi siete innamorata, marchesa! Voi siete innamorata; ditemi, non è vero?

– Sì – rispose la dama; ma poteva essere il sì di prammatica.

– Siete innamorata di… vostro marito!

La Fratta s'aspettava una risata dinegatrice. Invece la dama, la quale, meravigliata anch'essa, era per gridare – Chi ve l'ha detto? – , la dama ebbe tant'ira di scorgersi scoperta nel suo segreto, e scoperta dal conte, e sentì tant'odio per il conte, che frenò la curiosità e tacque.

– È vero? – incalzava l'altro – : di vostro marito?

– Sì! – E questo non fu il solito sì; fu un sì aspro, secco, trafiggente. L'altro continuò:

– E voi fino ad oggi avete sofferta la mia servitù solo per la moda?

– Sì!

– … e io vi ho annoiato sempre, sino ad oggi, senza accorgermene?

– Sì!

La Fratta divenne rosso. Ma era cavaliere, e si contenne.

– Dunque – conchiuse solennemente – non vi annoierò più, signora marchesa! Solo permettetemi l'ultimo consiglio: se non volete far ridere il mondo, non riferite questo nostro colloquio all'abate Fantelli. – E per un supremo sforzo di galanteria cercò di baciare la destra dal polso febbrile e loquace. Ma la marchesa ritrasse la destra; ond'egli, senza guardarla, di corsa uscì dalla camera.

La tenda era appena ricaduta dietro di lui quando la dama, alzatasi vispa e gaia come quella che da un mese non aveva avuta emicrania, con un lungo sospiro di soddisfazione esclamò: – Finalmente!

Indi si chiese: «Perchè non dir tutto all'abate Fantelli?»

Egli solo, infatti, avrebbe saputo spiegarle da che mai il conte avesse ricevuto la rivelazione improvvisa. «Gli dirò tutto – fece – ; e che egli rida e il mondo rida! Anzi!»

Infatti porgendosi vittima volontaria alla derisione del mondo, ella dava al marito una prova d'amore sublime fino al sacrificio, e, sollecitato e disposto da quella al suo amore, il marito non avrebbe più resistito – n'era certa – alle altre prove e più seducenti prove del suo amore.

*

Intanto La Fratta, di ritorno dalla dura battaglia, contemplava la gravità della propria sconfitta e cercava rimedio a quello de' suoi affetti che dolorava ferito: l'affetto di sè; giacchè l'altro pareva rimasto estinto di colpo. Rifletteva il conte che raccomandando alla dama di tacere, aveva obliato la natura di lei, e che s'ella parlasse – e parlerebbe – il mondo riderebbe di lui e non di lei, della quale, tanto era stramba, nulla poteva sorprendere. Anzi, mentre egli considerava fra sè il capriccio di lei, si stupiva di non essersene accorto prima; e si rassegnava a giudicar quel capriccio meno enorme di quanto l'aveva giudicato prima.

Il marchese Arnisio era un bel giovane, alto, pallido per sangue nobile da secoli, con modi di secolare nobiltà. Che meraviglia se la moglie, gelosa della dama la quale egli serviva, se n'era accesa a dispetto del mondo e del cavalier servente?

E l'orgoglio del conte dolorava; e l'altro affetto, quello della dama, che ancora non era spento del tutto, sussultava d'un ultimo spasimo. Peggio, assai peggio che la derisione del mondo, sarebbe la derisione della marchesa quand'ella innamorasse e seducesse il marito!

Perciò il battuto, fugato, disperato La Fratta concepì il disegno di salvare il suo decoro e la sua dignità nella stima del mondo e nella stima della marchesa.

Ond'eccolo in cerca del marchese Arnisio. Lo trovò per istrada; e al saluto di lui non fece nè parola nè cenno. L'Arnisio gliene chiese la causa, e della risposta fu così poco contento da ammonire La Fratta che non salutare chi merita rispetto e onore è villania. Ma poichè la taccia di villania a chi merita rispetto e onore è grave ingiuria, il conte trasse la spada: trasse la spada il marchese; e al terzo colpo la lama del conte segnò di rosso la destra dell'avversario.

Pronto il marchese strinse con la pezzuola di batista il taglio che non era profondo; poi domandò, senz'ira:

– Ora mi direte perchè un cavaliere come siete voi ha voluto attaccar briga con un cavaliere come sono io.

– Per provarvi – rispose La Fratta alla dimanda che s'aspettava – ; per provarvi che se da oggi in avanti non servirò più vostra moglie e non entrerò mai più nella vostra casa, la colpa è vostra.

Il marchese, udita tal spiegazione del fatto, ne capì meno di prima. Ribattè:

– Spiegatevi!

E il conte:

– Vostra moglie è sdegnata con me e infastidita della mia servitù perchè io, e non voi, ho scoperto ch'essa è innamorata di voi.

Allora l'Arnisio rimase proprio quale era rimasto La Fratta alla rivelazione del polso; fors'anche con uguale timore volse il pensiero al riso del mondo, e chiese, con tono e impeto d'incredulità e di sorpresa:

– In che modo l'avete saputo? Ne siete sicuro?

– Il modo – rispose dignitosamente La Fratta – è un segreto dell'abate Fantelli; ma di ciò sono tanto sicuro, che solo per ciò un cavaliere come sono io ha potuto attaccar briga con un cavaliere come siete voi!

A tali parole il marchese sorrise, e porgendo la mano ferita all'amico:

– Conte La Fratta – esclamò contento – , io vi ringrazio!