Za darmo

In faccia al destino

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Ricominciava in me la battaglia; e per non esser vinto m'afferrai con tutta la volontà al proposito già preso: dissimulare e parlare, quel giorno stesso, a Eugenia. Ma non sapevo come introdurmi nel discorso di Roveni. Ci voleva un pretesto; nè potevo addurre le chiacchiere della Melvi senza turbare Eugenia, se le ignorava. Mi venne in pensiero Marcella, da cui apprendere almeno se anche lei, come Anna, dubitava che io amassi Ortensia.

Con che invidia osservavo ora la quieta Marcella! I suoi dolci occhi esprimevano la fede costante in una felicità avvenire, attesa senza colpa e senza dubbio. Con che fatica mi trattenni dall'aprire a lei il mio cuore e confessarle, – Amo tua sorella. Dimmi tu: sono pazzo?

Le dissi invece: – Per fortuna le Melvi non vengon qua di giorno. Se no, mi taglierebbero i panni addosso.

– Perchè?

– Mi vedrebbero sempre con Ortensia…

– Eh! Ma tutto il mondo lo sa che Ortensia è la sua «piccola amica»! Che c'è di male? Sarebbe bella che per far piacere alle Melvi lei dovesse annoiarsi anche più di quello che si annoia! Faccia come me: non dia mai retta ad Anna, che ha poco giudizio.

Cercai anche di Guido e, trovatolo presso a casa sua, lo tenni in discorsi per condurlo al termine desiderato: a dirmi se qualcuno mormorava per la mia consuetudine con Ortensia.

– Bah! Lei potrebbe essere suo padre! – rispose Guido, beato nella faccia tonda. – Se la signora Eugenia avesse tanta fiducia in me!

Egli voleva persuadermi, con quella faccia così diversa dalla mia, che adesso era disgraziato; e parlava, parlava…

I giorni nei quali Eugenia convalescente passava le ore con noi in giardino erano trascorsi, pur troppo, e adesso egli non aveva che la sera a sua delizia; e anche di sera gli conveniva dimostrarsi molto riguardoso. Mi narrò come un tentativo perchè la signora Eugenia permettesse alle figliole un'altra passeggiata più lunga che quella delle Grotte, era fallito; che Eugenia minacciava ogni giorno di aprir gli occhi a Moser…

– Succederà un patatrac!

In conclusione, Guido aveva bisogno del mio aiuto; umilmente, con insistenza, mi pregava d'interporre, con Eugenia, una buona parola…

Perchè no? Sarebbe il pretesto ad affrontare Eugenia per il discorso che mi premeva molto di più.

– Tu abbi giudizio – (consigliavo io giudizio agli altri!) – . Non dar materia alle chiacchierone… Sai che tra di loro han già combinato il matrimonio di Roveni e Ortensia?

Guido non rise, questa volta.

– Lo dice Anna, per paura che sia vero! Lo vorrebbe lei, Roveni!

Fremevo. Con quanta più forza potei farmi, domandai:

– Ma tu credi che sia vero?..

– Per me, io credo che il padrone del mondo… punf! paf! paf! punf! (imitava l'andatura di Roveni)… finirà con l'andarsene alla Mecca senza di Anna e senza Ortensia. Furbo, l'amico!

– Perchè?

– Di Anna ne ha già avuto abbastanza!

– E Ortensia?

– Ortensia non è ragazza per lui. Con Ortensia, scusi, bisogna ubbidire, non comandare!; e lui invece: paf! punf!; punf! paf!

Anche questa ragione m'affidava poco; piuttosto le parole e la mimica di Guido giovarono a schiarirmi quello che già Anna mi aveva lasciato comprendere: dicendo, cioè, che l'ingegnere sposerebbe Ortensia, ella sperava ingelosirmi e indurmi a domandare la mano della Moser: Roveni resterebbe a lei.

Tuttavia io rifacevo la mia strada come un uomo che abbia una meta di dolore.

Quand'ecco il cavalier Fulgosi, dal suo villino, m'invocò, mellifluo:

– Dottore, ehi! Dottore! – Venne al cancello, con la mano tesa, declamando:

 
Mon amitié n'est pas semblable au baromètre
Qu'un air rude ou plus doux fait monter ou decroître!
 

Quel povero diavolo mi aveva giudicato non indegno di sposar Ortensia e io l'avevo ricompensato dandogli dello sciocco! Gli strinsi forte la mano senza dir nulla.

– L'ho disturbato? Mi perdoni! – aggiunse egli ritraendosi con nobile contegno. – Lei, vedo, medita all'aperto come me. Da quando sono in pensione ho bisogno d'aria per trovar le idee. Ora poi che ho da preparare il discorso per il 20 settembre!..

Chi gli avesse detto su che cosa meditavo io!

E affannoso e timoroso andai a cercar Eugenia.

Non era facile trovarla sola, la buona signora. Di solito non scendeva a terreno che all'ora della colazione e del desinare. Riceveva nella sua camera o la contadina o l'ortolana per i conti di compre e vendite; o aveva la tessitrice; o la cucitrice; questa o quella paesana; e Marcella quasi sempre alle costole. Quel giorno però essa, per caso, era rimasta sola.

– Le ragazze e Mino sono andati a cercarvi al convento – mi disse.

Risposi palpitando:

– Vengo dalla strada maestra… dove ho visto Guido, molto afflitto…

– Bravo, Sivori! Venite pure a difendere il vostro amicone, che presto presto mi farà scappar la pazienza.

– Per far scappare la pazienza a voi bisogna aver commesso un delitto. Che delitto ha commesso Guido?

– Abusa della mia debolezza. Dite la verità, non sono troppo debole a permettere che tutti sappiano di questi amori, fuorchè Claudio? Voi, che mi conoscete, non vi meravigliate che io permetta dei sotterfugi?

– Guido ha buone intenzioni. D'altra parte, conoscendo Claudio…

– Sì: guai a parlargliene adesso, a Claudio, di maritar le figliole! Ma avrebbe poi tutti i torti se si opponesse all'assiduità di Guido? Guido non ha ancora la laurea, e, dopo, credete che suo padre sarà disposto ad aiutarlo? Insomma, quel benedetto ragazzone dovrebbe essere più guardingo, più serio. E già che siamo in questo discorso, vi dirò che c'è un altro, qua, più serio, più prudente di lui…

Mi corse tutto il sangue al viso. Se Eugenia non avesse avuti gli occhi abbassati sul lavoro, m'avrebbe letto in faccia l'enorme segreto.

– È Roveni – io mi sforzai a dire con voce ferma.

– Ve n'ha parlato Ortensia? – Eugenia chiese con ansia.

– Ortensia non crede a quel che si dice: ecco tutto.

Tanto la signora fu sollevata dalla mia risposta quanto in me pesava il presentimento del mio inevitabile sacrificio.

Ella proseguì: – Roveni sta ai patti. Non ve n'ho mai parlato appunto perchè ho voluto che vi facciate un concetto sicuro di lui e della sua condotta. Francamente: ve ne siete accorto voi stesso che egli ha simpatia per Ortensia?

– No: forse non me ne sarei accorto se non me n'avesse avvertito il cavaliere. – E aggiunsi, per alleviarmi l'angoscia con una digressione:

– Il cavaliere è il trombettiere delle pettegole.

– Povero Fulgosi! Ma con le Melvi voi siete troppo severo. Chiacchierano, han la lingua un po' lunga… In fondo, però, non sono cattive. Io non dimenticherò mai le premure che ebbero per me quando ero ammalata…

– Anna è una civetta! – esclamai io. – Mi duole che per amor di pace non possiate allontanarla da casa vostra.

Eugenia tacque un po' e disse:

– Dovrebbe bastarmi la vostra opinione per allontanarla subito. Ma ho fiducia che le mie figliole non abbiano intenzione d'imitarla.

– Questo è giusto… – E ripresi:

– Dunque Roveni?

– Oh, è una storia molto breve. Un giorno la Melvi madre mi avvertì che parlando con l'ingegnere aveva scoperto in lui a dirittura un grande amore per Ortensia. Sapendo che la Melvi è facile a esagerare in tutto, non le credetti che poco. Anche qui, del resto, mi rassicurava il contegno di Ortensia: con Roveni si comportava come per il passato; impossibile ch'egli le facesse la corte e che essa non me l'avesse lasciato comprendere. Pure volli chiarir la cosa. L'ingegnere mi aveva già confidato che dubitava di poter restare un pezzo a Valdigorgo, e io tornai sul discorso. Ripetè che trovando un impiego migliore dovrebbe andarsene; e infine confessò d'aver molta simpatia per Ortensia, e che non disperava nell'avvenire. La sua franchezza, la sua lealtà mi piacque. Ma Ortensia è così giovane! con un carattere così strano; e io mi sentivo allora tanto male! Non volevo preoccupazioni e angustie. Ebbene, ottenni da Roveni la promessa che non turberebbe per adesso la pace mia e di Ortensia. Voi siete testimonio che ha mantenuta la parola. Ma ditemi: che ne pensate voi, di lui?

Eugenia mi strappava il cuore! Avessi potuto fuggire! scomparir in quell'istante da questa stupida scena del mondo!

Risposi che pensavo assai bene dell'ingegnere.

– La sua condotta non potrebbe essere più corretta.

Eugenia proseguì:

– Dite pure che egli è prudente anche per non compromettersi. Ma non è giusto? Il suo avvenire non sta solo in lui; è nelle mani di Dio. Dio voglia che un giorno egli renda felice mia figlia!

Se Eugenia avesse detto tutto ciò in altro modo, io avrei creduto volesse abbattere la mia insana rivalità; ma ella aveva parlato adagio, semplicemente, e il solo dubbio di tale intenzione sarebbe stato un'offesa.

– È giusto! – ripetei. (Fuggire! dovevo fuggire!)

Concluse Eugenia:

– Son contenta che mi diate ragione per Roveni e che non mi diate torto per Guido.

Con uno sforzo supremo io sorrisi; conclusi anch'io:

– Gli farò una predica all'amico. E con l'affetto che ho per tutti voi, auguro che le vostre figliole siano un giorno ugualmente felici. Lo meritano, perchè sono buone come voi, Eugenia!

Ero sincero in queste parole. Ma un nodo mi stringeva alla gola…

(Fuggire! dovevo fuggire!)

XVIII

La vittoria è dei forti! Questo almeno sapevo per scienza ed esperienza. Dunque… fuggire!; inutile competere con Roveni, forte di nervi, di mente, di animo, di fortuna! Già nel desiderio di Eugenia egli era eletto sposo di Ortensia e presto il capo biondo, che avevo visto un giorno poggiare con affettuoso abbandono sul petto materno, s'abbandonerebbe per amore su quel petto forte. Fuggire… Quando? Ah se fui debole! se fui vile! Mi affidai alla mia debolezza per ritardare quell'ora; per non correre subito al limite verso il quale il destino mi spingeva e di là dal quale non vedevo che cosa ci fosse: la tenebra; il vuoto; il nulla come un tempo: peggio che la morte! Mi raccomandai alla ragione. La mia partenza improvvisa dopo il colloquio con Eugenia avrebbe rivelato il mio segreto a Eugenia, ad Ortensia, a Claudio, a tutti! Ancora qualche giorno per nascondere il mio segreto; per distogliere ogni sospetto anche da Anna Melvi; per compiere il sacrificio che, lontano, conforterebbe forse il mio dolore, tratterrebbe forse il mio braccio dall'estrema insania contro me stesso! Ancora qualche giorno!

 

Per la mia vita infelice, per la mia triste giovinezza, per quel che avevo sofferto e avrei da soffrire resistendo a vivere, impetravo da me stesso qualche giorno ancora! – Rimasi. E intanto dissimulare, fingere, mentire! Perduta la rettitudine del procedere, dubitavo e temevo. Mi spaventava il dubbio che Ortensia s'avvedesse del mio dolore e dei miei rossori; se ne avvedessero gli altri.

Avrei voluto conoscere quel che pensassero o dicessero di me la Melvi madre, la Fulgosi e la Learchi; ma in ognuna temevo ragioni di celarmi il loro pensiero. E per tutte queste indagini e per tutti questi sospetti provavo come il disgusto di un avvilimento indegno di me e della mia passione.

Peggio; a quando a quando mi abbattevo del tutto come sotto una condanna meritata. Avevo voluto rivivere; non potevo rivivere che così miseramente… Quale un cieco che smarrito cerchi un sostegno, io cercavo adesso Ortensia. Essa era la luce dei miei occhi.

Il suo sguardo, il riflesso dei suoi capelli, l'armonia della sua voce, l'euritmia delle sue forme potevano nel mio animo sconvolto come (non esagero) il sole che fenda l'oscurità e spazzi via un nembo. «A ogni costo essa non deve soffrire!» – giuravo allora con un sentimento di pietà e di gioia, con tutta la voluttà del sacrificio.

Non so dire con che cuore in quegli ultimi giorni la vedevo tornare a me al mattino, sorridente e viva. Ella sorgeva adagio dalla scala della terrazza, e giungendo su la soglia si fermava un istante: staccata dal fondo arioso e chiaro, nella fresca e chiara veste, m'appariva immagine sorridente, vivace, palpitante. E poi diceva: – Buon giorno…

Nè so dire di quale refrigerio mi era la sua voce. Il dolce suono dell'accento paesano or si prolungava or si rinvigoriva in una particolare dolcezza di timbro; in una soavità calda e tremula nelle vocali forti, che s'acuiva a una intonazione nitida se elevava o affrettava la parola o rideva. – Parla! – le dicevo, quasi per raccogliere quell'armonia nel cuore e non perderla mai più.

Ma alla prima gioia di rivederla e di riudirla, sottentrava dopo pochi minuti il cordoglio, la disperazione. E dovevo fingere, celarmi!..

Poi ebbi una nuova perplessità.

Perchè essa non era più mattiniera come una volta; tardava tanto a discendere?

Un mattino quell'attesa fu anche più lunga.

– Dorme Ortensia? – domandai a Mino, che scendeva le scale.

Mino portò l'indice al naso, perchè tacessi; corse in tinello e tornò con due bei grappoli d'uva: uno bianco e uno rosso.

– Glieli porto… Come riderà a vederli quando si sveglia! – Si avviò; tornò indietro:

– Ne ho mangiata tanta anch'io! Ne vuoi, Sivori? – Io gli diedi un bacio. – Va, va; portali a tua sorella!

Salì infatti, per discendere poco dopo e dirmi:

– A vederli s'è svegliata!

L'immaginavo nell'atto di spiccare le dolci grane, desiosa, gioconda, senza pensiero di me che l'aspettavo triste, solo, pensando a lei; la scorgevo riabbandonare il capo al cuscino, dipartire dalla fronte i capelli e guardare la striscia di cielo per le imposte socchiuse. Ricadeva, dopo la prima allegrezza, nella pigrizia piacevole che lascia il sonno non del tutto scosso dalla frescura del mattino di settembre, e appena appena abbassando le palpebre raccoglieva ad una ad una, quasi dalla luce esterna, le idee. Erano ricordi? desideri? propositi per l'oggi? speranze lontane? Era amore?

Ah non per me, che aspettavo ansioso, da basso: ella stessa non sapeva per chi, ma non per me, fermo nel proposito di non dirle: «il tuo affetto, sorella, non mi basta più!»

Quando giunse, mi parve che i suoi occhi mi leggessero in cuore; che il mio segreto le fosse già manifesto; ch'ella stessa fosse mutata. E durante il giorno mi parve che le sue assenze per le faccende domestiche si prolungassero troppo. Forse la tratteneva Eugenia, che forse già sapeva di me…

Voglio confessare tutti quei miei affanni, quelle mie debolezze, quelle mie tristezze!

Non solo provavo vergogna dell'infingimento: quel mostrarmi allegro e disinvolto con Eugenia e con Moser; quello sforzo a padroneggiarmi e a non mutar colore se si parlava d'Ortensia ch'ella non ci fosse, o al sopravvenire improvviso di lei; quel cercarla non più franco e senza incertezza come prima, ma con desiderio irrequieto; quell'attenderla a lungo in un luogo senza parere…: non solo! La gelosia divenne in me torva quale la gelosia di un uomo in preda a un amore senile; maligna e gretta quale la gelosia di un marito vecchio per una moglie giovine. Invano a veder Roveni ballare con Ortensia, nelle ultime sere, tentai persuadermi che egli amava senza impeti e senza urti; a sorrisi di poca significazione ed a inavvertibili occhiate, quasi prendendo l'amore per un gioco tranquillo: ogni suo sguardo, ogni sorriso, ogni atto valeva per me un'ardente ed evidente espressione d'amore; nè l'avaro che vide rubarsi un tesoro patì mai tanto quanto io a seguire con l'occhio, nel ballo, Ortensia e Roveni. Se parlavano, mi avvicinavo per udirli; se ridevano, ne chiedevo, dopo, il perchè a Ortensia.

A poco a poco mi si faceva strada nell'animo il sospetto che fossero d'accordo per ingannarmi; solo per il piacere d'ingannarmi; oppure pensavo che Ortensia mentisse meco per pietà, accortasi della mia passione; o anche perchè fosse stata sua madre a pregarla d'avere misericordia di me…

A questo punto! A tal punto cresceva il mio soffrire che in certi momenti mi pensavo in diritto di confessare il mio amore.

Ma non dovevo. Per la sua felicità, non dovevo! per la pace di Claudio e di Eugenia, non dovevo! per la mia dignità e per il mio orgoglio, non dovevo! Soffrire e tacere! Vederla ignara e tacere! Vedermela portar via, e tacere!

Spiavo. Un pomeriggio Roveni venne ad attendere Moser. Io lasciai che egli si accompagnasse, per il viale del giardino, con Ortensia, allontanandomi con un pretesto. Poscia, di nascosto, li prevenni dalla parte opposta e mi nascosi dietro la macchia ch'era intorno agli abeti gemelli. Quando afferrai che parlavano di lawn-tennis ebbi tal gioia da svelarmi con un grido, come fossi là per impaurirli.

Alla gelosia ingiusta, seguiva più tormentoso il rimorso; e per purificarmi del veleno che mi sembrava avere ingoiato, avrei versato il sangue a gocce, da ferite. Che, dolcezza se avessi potuto domandar perdono a Ortensia! Per giustificarmi almeno un poco, entro di me, ebbi desiderio di narrarle i miei antichi amori; di apprenderle il disprezzo, il ribrezzo, la nausea, la cattiveria che me n'era rimasta: accrescerle così orrore della sensualità, della colpa e del tradimento; ma avrei fatto male e mi vinsi.

Eppure si sarebbe potuto credere che qualche cosa di quel che turbinava nella mia testa giungesse alla mente di Ortensia.

Uscì a dire con disgusto:

– Anna, che sguaiata! Non ha avuto il coraggio di chiedermi se l'accompagnerei ancora alla fabbrica?

– E tu?

– Io le ho risposto di no. – Perchè no? – mi ha chiesto. – Perchè no! e basta. – E lei: – Avrai da tener compagnia a Sivori. A te, che gli vuoi bene, non fa le critiche che fa a me.

– Certo che gli voglio bene a Sivori: tanto tanto! – Gliel'ho detto perchè ci ha rabbia. Ma non parliamone più, di colei. Mi fa ribrezzo!

Se non che un istante dopo aggiunse:

– Sa che Anna studia il canto?

– Per caffè-chantant è adatta – io mormorai.

– E sa che nome mi ha messo a me, per canzonarmi? «La Regina Ortensia di Valdigorgo.» Crede di farmi dispetto! Eh! perchè faccio spesso a mio modo e dico: piace a me e basta; e comando a tutti, anche a Sivori, il nome non mi sta male!

– Anche a Roveni comandi?

– Sì che anche Roveni mi ubbidirebbe! Ma non comando mai nulla, a lui.

Io ripresi, senza più sorridere, con risoluzione che sembrò improvvisa:

– Anna lasciala cantare. Quanto a me, presto la libererò del mio fastidio. Tra pochi giorni me ne vado…

A questa notizia Ortensia mi guardò incredula; balzò in piedi; venne a me, che le sedevo, di fronte, su la poltrona alla parete opposta, e severa, con un atto imperioso della mano:

– Non voglio!

– Ma io non ti riconosco per la Regina di Valdigorgo!

Con voce mutata, meno forte, seria, ella ricordò:

– Il babbo non la lascia partire prima che cada la neve. Non sono d'accordo? – E rianimandosi: – Immagini, Sivori, la prima neve quassù, che delizia! Immagini: tutto bianco… I monti, là; e il giardino tutto coperto; gli abeti, così alti, vestiti di bianco! E correre fuori, là in mezzo? – Ma dubbiosa dell'efficacia della sua descrizione, pregava con tutta la grazia degli occhi, della voce; premendomi con una mano al braccio.

– Stia qui da noi, Sivori, finchè andremo in città, a Natale.

– Impossibile!

– Io e Mino non la lasceremo partire… Pensi al dispiacere di Mino!

Ripetei: – Partirò a giorni.

– Mi getterò in ginocchio, a' suoi piedi… Lasciarmi qua sola!

Le pareva che resterebbe sola!

– Ti restano tanti: il cavaliere…; Anna…

– Zitto! Non la nomini!

– La signora Learchi…; la Fulgosi… – E in altro modo dissi: – Roveni…

– Cattivo! Cattivo! Oh com'è cattivo! Anna ha ragione quando le dice cattivo! – S'allontanava imbronciata.

Io…: ancora soffrire! ancora! ancora!

Era così dolce soffrire! Ancora ebbi pietà di me.

– Resterò due giorni di più e dirò a tutti: sono rimasto due giorni di più, non per voi, per Ortensia! Sei contenta?

Allora tornò lieta.

– Due giorni? Proprio! Qua il lunario, che le dirò io il giorno della partenza! Non ha nemmeno un calendario? Oh che uomo! – Uscì; tornò col calendario, dicendo:

– Ne abbiamo? Dodici. Dodici settembre. I Santi vengono? Al primo novembre. Dunque… Dunque Sivori dovrebbe partire il tre: va bene? Il tre per non lasciarmi sola il giorno dei Morti, con quella malinconia. Otto e tre fanno undici… È deciso!

Annunciò a voce alta, a una folla, immaginaria:

– Il dottor Sivori partirà da Valdigorgo fra due mesi, l'undici di novembre! Avete inteso, signori? Ordine mio: della Regina Ortensia di Valdigorgo!

Io pensavo ai monti e al giardino bianchi di neve. In tinello, il fuoco acceso e crepitante… Fuori, nel silenzio, fioccava; e tutti eravamo attorno al fuoco; e io a raccontar favole, che Mino ascoltava da su le ginocchia di Ortensia… Ma rialzando gli occhi…: Ortensia aveva perduto ogni segno della vivacità fanciullesca di pocanzi.

A che pensava?

XIX

Mi amava?

Al sospetto rispose in me un proposito che poteva già essere effetto di rimorso: «Ortensia non deve soffrire!»; e per i pochi giorni che resterei ancora lassù, saprei attenuare ogni espressione affettuosa, ponderare ogni parola, correggere ogni sguardo, affinchè l'affezione di lei per me non prorompesse in amore e dolore, e il mio sacrificio fosse pieno e grande.

«Non deve soffrire! Come vuole sua madre, deve viver lieta sino a quando Roveni le manifesterà le sue intenzioni. Allora amerà e andrà sposa felice».

Virtù? Sacrificio? Non eran vane parole. Ma il pensiero di perderla interamente, tardi o presto, mi dava tale spasimo da scusarmi d'ogni pensiero più insano.

«Che io mi posponga a Roveni, è giusto; ma non è giusto che io creda alla felicità di Ortensia perchè egli le darà i gaudi dell'amor materiale ed ella soggiacerà alla turpe legge dei sensi».

Ed eccomi a chiamar ribelli sublimi coloro che rifiutano di vivere nel mondo per rifiutarsi alla legge universale, bestiale e prepotente; e si mortificano e muoiono lieti d'esser sfuggiti all'inganno del piacere e d'aver servito alla sensualità. Avessi potuto rapir meco, salva da ogni cupidità e da ogni bruttura, la vergine che aveva inteso in me un bene libero da quella esperienza materiale e torbida!

Ed ecco un altro tormento. In me, ora, un involontario contatto della persona con Ortensia, sedendo vicini o passeggiando, o l'abbandono innocente e confidente della sua mano alla mia, che non la ricercava, destava un sospetto oscuro, improvviso, infrenabile, rapido come un brivido: nel mio sangue, non nella mente.

 

Il mio pensiero ripugnava da quella istintiva concitazione sensuale, mentre io la vedevo e la sentivo così fervida e giovine. La guardavo fisso, con un timore doloroso. E lei diceva:

– Perchè mi guarda così?

Alla dimanda, mi si allargava il cuore, perchè non scorgevo ne' suoi occhi nemmeno l'ombra di quel mio sospetto; perchè il suo sguardo mi cadeva limpido nell'anima quasi a purificarla subito; perchè rivelandosi ignara, fin nella voce, del motivo che io aveva avuto a guardarla così, essa non attendeva risposta nè mostrava dubitare d'altro motivo che non fosse un affettuoso e semplice indizio di tenerezza…

Ma il più lieve contatto d'altri, o un altro sguardo, avrebbe potuto proporle e insinuarle il desiderio; una differente stretta di mano avrebbe potuto darle la sensuale commozione che non le davo io… E un altro la contaminerebbe!

In confronto a questa infamia – era un medico che la chiamava un'infamia! – sembrava cessare ogni colpa nel mio amore nobile e puro; e mi dicevo che se Ortensia mi amava, mi amava allo stesso modo di me, nè proverebbe mai voluttà più grande…

… Mi amava?

Era tanto mutata!; o mi pareva. Diversa nei modi: non accorreva più come una volta, non rideva più con l'impeto di prima; diversa nello sguardo, più luminoso e profondo; e in tutta la persona di lei sembrava definirsi la gravezza di un intimo raccoglimento, d'una meraviglia deliziosa, intensa, continua; quasi d'una beatitudine meditata e riflessiva… Se pure non m'ingannavo!

La consideravo con timida gioia. Ma diveniva tosto una gioia affannosa, paurosa; e con più speranza che timore mi ripetevo:

«Forse m'inganno».

XX

O forse tutto era un inganno? Per difendermi del male che facevo e che avevo, inveii contro me stesso e rimproverai Ortensia. Innamorato, al pari di tutti gl'innamorati forse io ero uno stolto che alla donna reale aveva sostituito la creatura del suo sogno. Troppa bellezza, troppa intelligenza avevo attribuito a quella ragazza diciassettenne; e bisognava rompere l'incanto, non solo per risparmiarle soffrire, ma per risparmiarmi soffrire.

Era bella; nessuno poteva negarlo: un fiore. Beltà però facile a deperire presto, come accade di tutte le bionde.

Poi mi meravigliavo perchè adesso Ortensia non chiacchierava più come per l'addietro, e la credevo perciò innamorata? Ma taceva solo perchè tacevo io! A suggerirle argomenti, era stata loquace: da sè non trovava da dire cose notabili. Del resto, le donne molto intelligenti si dimostran tali nell'eleganza e nel buon gusto: Ortensia non aveva sempre buon gusto.

– Perchè ti sei messa questa giubba grigia, che ti sta così male?

– Comincia a far fresco, la mattina… È di flanella. Ma non la porterò più.

– Te l'ho detto un'altra volta che è un colore che ti fa parer brutta.

– È vero; non me ne sono ricordata.

E io, dopo una pausa:

– Sei infatti molto smemorata, Ortensia! Tua madre e tua sorella hanno ragione di dirtelo.

Rispose paziente, con un queto sorriso:

– Metterò giudizio, e lei non avrà più da sgridarmi.

Ahimè! I tentativi di rompere l'incanto erano vani! Essa mi guardava in un modo…

Ma a quella frase di «metter giudizio» rammentai le raccomandazioni che mi aveva fatte Eugenia e che avevo dimenticate da un pezzo. Tuttavia aspro ripigliai:

– Tua madre desidera che io ti corregga… Son gli ultimi consigli.

Essa, con un tremito nella voce (non m'ingannavo), esclamò:

– Ultimi? perchè ultimi?

– Ti ripeto che debbo partire lunedì. Sbigottita, pallida (non m'ingannavo), mi fissò dicendo:

– Non lo credo; nessuno lo sa, in casa!

– Lo sapranno oggi stesso.

– Ma perchè? che è stato?

Ed io, col cuore che palpitava come il suo:

– Nulla… L'altro dì te lo dissi pure che sarei partito a giorni.

– Io credevo scherzasse… Non mi promise…?

L'interruppi:

– Fu una promessa della tua fantasia. Eccoti un consiglio: non affidarti mai alla fantasia contro le imposizioni della realtà.

Questo le dissi, io, che avevo tentato invano di romper l'incanto!

Ma essa si strinse nervosamente le mani, a capo chino; poi mi guardò in quel modo… Non m'ingannavo! Mi sembrò di vacillare; non potei non mitigare la voce, non dire:

– In realtà… tu sei buona.

– Buona? – Sorrideva così triste!; un sorriso di amore dolente.

– Sì, buona! – proseguii fingendo di non capire e cercando pretesto a inasprirmi di nuovo. – Il mondo invece è cattivo! Che dolore sarebbe per me, un giorno, se dovessi apprendere che tu ti sei mutata all'esperienza del mondo!

A sua volta, quasi suo malgrado, ribattè fiera, aspra:

– Lei ha poca fiducia in me; ed io ne ho tanta in lei!

– Che sai di me, tu? – esclamai senza più chiaramente avvertire quel che mi dicessi. – Ricordati che ogni infamia è possibile: anche quelli che stimiamo di più ci possono mancare!

Il mio pensiero, trasportato dalle mie stesse parole, corse a Roveni. Ma indietreggiai; contenni l'impeto della gelosia, a cui stavo per abbandonarmi.

– No: esagero. Non tutti quelli che stimiamo si dimostrano indegni della nostra stima. Io di Roveni…

– Sivori! – Ortensia gridò, sdegnata, quasi minacciosa, come non l'avevo mai vista.

– Lasciami dire. Di Roveni io ho tanta stima che non posso pensare alla tua felicità senza pensare alla sua felicità.

Allora essa mormorò:

– Non credevo…; non credevo… – e fuggì via. Non credeva che io fossi spietato!

… Annunciai poco dopo a Eugenia che partirei il lunedì prossimo. Eugenia mi disse:

– Perchè non restare ancora un po' da noi? Speravamo restaste fino all'inverno!.. Volete andar laggiù, in pianura, in autunno?

Non andrei a Molinella.

– Farò come Roveni. Andrò anch'io lontano a cercar lavoro; ma con minori speranze di lui!

– Vedete che non siete guarito? – la signora mormorò notando il modo delle mie parole. Scoteva il capo; e come un giorno aveva detto: «perchè Dio non v'ha dato una sorella?», ora disse:

– Se aveste una famiglia, vostra…

Questo dovevo udir io, da sua madre, senza rompere in pianto!

A desinare, dalle occhiate bieche di Claudio mi avvidi che Eugenia l'aveva già informato della mia decisione. Mi avvidi anche che n'era informata Marcella: Ortensia arrossì, guardandomi…

Quanto mi amava!

XXI

Assistere alla commedia della vita col pianto nel cuore: anche questo è la vita!

Alla festa del XX settembre, in Valdigorgo, che avrebbe dovuto redimere il cavalier Fulgosi dal ridicolo in cui egli asseriva d'esser precipitato per colpa della moglie, anch'io risi; ma la comicità dei casi è solo nella mia memoria mentre ho vivo nel cuore il dolore che in me accompagnava la stentata ilarità. Sì gran dolore risento, da non poter indugiare nel racconto, quasi per un senso di profanazione. Tre immagini, del resto, importa solo che io rilevi dalle ricordanze di quel dì e le scorga nella lor propria luce: in luce d'amore, Ortensia; chiaramente perfida, Anna Melvi; nella penombra da lui sempre cercata, Roveni.

E mi rivedo, prima, nella sala del Municipio, rigurgitante di pubblico; con il popolo in fondo; con le file delle signore in cospetto all'oratore e, dietro, in poltrone, le autorità del Comune e del Circolo che s'inaugurava. L'oratore parlava su di un palco, davanti a un tavolino; e il discorso procedeva alla volta della pace universale, tediosamente inzeppato di frasi a doppio senso, per congiungere il tema della caccia alla politica. «Sappia l'Italia che il punto di mira dei Valdigorghesi è il bene della patria»…; e così via: col paretaio della difesa nazionale; con le poules e il bersaglio del patriottismo…

Durante il fastidio dell'enfatico sproloquio, Ortensia cercava con insistenza il mio sguardo. Mi sorrideva, e quel lieve sorriso senza circospezione, senza sospetto, nell'innocente abbandono di un bene che nulla più può contenere, mi angustiava di consolazione e di pena. Ritraevo gli occhi da lei provando l'impressione che quello sguardo mi rinnovasse l'anima; e pur conservando nella vista mentale l'amorosa immagine, non resistevo alla tentazione di tornar a guardarla e tremavo all'istantaneo riscontro dei nostri occhi. Là fra le altre essa era sovrana non solo per la bellezza, ma perchè il suo aspetto aveva perduto ai miei occhi ogni apparenza d'adolescente ignara, e io la vedevo in tutto lo splendore della giovine innamorata e orgogliosa dell'amore che le fioriva in petto. Ora temevo che gli altri ci sorprendessero; ora, in un impeto di insania, avrei voluto che tutti scorgessero come essa mi amava.