Za darmo

In faccia al destino

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Proseguiva:

– Ho lottato sempre e non dispero di vincere. – Aggiunse: – Lei è di quelli che credono vile la conquista del denaro? Non credono che il denaro, la ricchezza sia un elemento di felicità?

– Felicità è possedere la forza di volontà che lei dimostra – risposi.

– La forza di volontà non basta! – ripigliò il giovane. – Bisogna ben determinare il campo d'azione; saper limitarlo secondo le proprie forze; segnarvi la via diritta da percorrere, e correre, correre, correre! La vita moderna è una corsa. Ma non basta. Vede? Moser corre. Però dissipa qua e là le sue forze: architetto, costruttore, appaltatore e fabbricatore di laterizi. Troppo! Ma criticare è facile. Io riuscirò dove voglio?

Interrogava l'avvenire.

– Lei riuscirà – dissi con amarezza, pensando a me stesso più che a Moser, quantunque la parte del discorso che gli si riferiva avrebbe dovuto raccogliere la mia attenzione. – Lei sa misurare gli ostacoli e li abbatterà.

– Non basta! non basta! La vita moderna pretende che abbattiamo anche intorno a noi, non solo davanti a noi! I concorrenti bisogna abbattere che mirano al nostro scopo e al nostro posto, e son tanti! Ma non è facile. Mai come in questi tempi bisognò armarsi di prudenza per colpire poi a spada tratta…

Mentre Roveni diceva così io ripensavo a me; già mi sentivo ricadere in me stesso.

E gli altri, tutti insieme, ci affrontarono rimproverando la gravità dei nostri discorsi e la lentezza dei nostri passi.

– Oggi non rideremo come l'anno scorso, quando andammo a Monfalco – disse Ortensia.

Presero a raccontarmi della gita dell'anno innanzi, ch'era stata interrotta da un nebbione formidabile.

– Dovemmo pernottare in una capanna.

– Merito tuo e del babbo, che vi ostinaste a salire – disse Marcella a Ortensia.

Pieruccio affermò:

– Ma io e Roveni ci arrivammo, alla vetta!

– Non è vero! – gridò Guido. – Vi nascondeste nella nebbia, vicino alla capanna, per paura di perdervi.

– Ci arrivammo!

– Storie!

Roveni taceva quasi non valesse la pena di sostenere la verità di così piccola impresa.

– Oh che notte, là dentro! Che notte! – ripeteva Marcella. Raccontava Ortensia:

– Immagini che fummo costretti a gettarci nella paglia per riposare un poco. Che freddo!.. Io e la signora Fulgosi avevamo uno scialle in due! Bene: stavamo tutti zitti, e il cavaliere sospirò e si lamentò che non ci fosse nemmeno un po' di tè. Allora chi si mise a sospirare perchè non aveva la cuffia da notte; chi brontolava perchè non aveva le pantofole; chi voleva l'acqua di Vichy. Anna piangeva perchè non le portavano due guanciali!

Ma Anna, sogguardando a Roveni come per un richiamo a un loro particolare ricordo:

– Nemmeno l'ingegnere chiuse occhio in tutta notte.

L'ingegner Roveni sorrise appena e disse: – Lei non dovrebbe saperlo se io chiusi o non chiusi gli occhi. Eravamo al buio.

Ortensia sola rideva ingenuamente e con più vivacità di ogni altro, perchè aveva più viva degli altri nella memoria la rappresentazione del fatto e la comicità delle persone. Però quella sua giocondità, alla quale io non partecipavo, e quelle rimembranze estranee alla mia memoria aumentavano il mio turbamento. Avevo nell'anima il crollo di una grande speranza. Ora, come l'anno prima nell'altra gita, Ortensia era lontana da me, lieta senza di me.

Correva innanzi, adesso, a chiamare il cane di Guido, che impazzava a levar passeri, o ristava per dire qualche cosa a ragazzi o a vecchi che vedeva nei campi o nella strada, o ascoltava me e Roveni e borbottava: – Noiosi! – , e s'accompagnava per breve tratto a Pieruccio e ad Anna.

Per divertirsi di più, ottenne da Guido, il quale aveva una naturale attitudine a contraffar il prossimo, che imitasse Roveni: persona eretta, mosse risolute, passi lunghi, gambe svelte e solide. Poi, la studiata andatura di Pieruccio. Risate. Quindi imitazione della mia voce e alcune attitudini mie. E applausi. Ancora: gallicinii e qua qua. Gli disse Pieruccio:

– Fa l'asino, che ci riesci così bene!

Tranquillamente Guido si mise a ragliare; e da una cascina un cane accorse abbaiando; e il cane di Guido gli s'avventò contro: ne nacque una zuffa, aizzata dal terzo cane, ch'era Guido, e dalle grida delle ragazze.

Tra queste pur Marcella mi spiaceva e mi pareva perdesse quella soavità di spirito che le dava una beltà così gentile; ma per Ortensia sempre più provavo il senso doloroso di un intimo distacco e lo strappo di un'illusione necessaria.

Ahimè! bastavano quelle poche distrazioni, cui ella acconsentiva, per persuadermi che l'affezione di lei, per quanto sincera, scemerebbe a poco a poco nel mutare delle circostanze della nostra vita.

Mi chiedevo ora se avrei osato confessare ad altri, pur ad Eugenia, che io avevo creduto sul serio di sopperire a un affetto naturale con un affetto che non doveva in realtà superare i limiti dell'amicizia.

Non mi riderebbero in viso gl'innamorati (Guido e Marcella); i desiderosi d'amore (Pieruccio e Anna); la gente positiva (Roveni), se io chiamassi Ortensia, per uso, col nome di sorella? Dunque la mia speranza era insana! Ortensia stessa doveva comprendere d'aver ceduto a un'ingenuità puerile promettendomi il suo affetto, se una breve interruzione della nostra consuetudine quotidiana e l'uscir fuori dei soliti luoghi, in cui restavamo insieme, potevano così distoglierla da me.

Intanto Anna, indispettita perchè l'ingegnere rimaneva al mio fianco, sfogava il suo rovello impedendo a Pieruccio di rimaner con Ortensia. Chi più disgraziato dei due: io o Pieruccio? Chi più ridicolo?

Povero ragazzo, che forse aveva riposte tante speranze anche lui in quella passeggiata!

Aveva il binocolo a tracolla, e poichè non poteva servirsene a mirar Ortensia o ad ammirar sè stesso, come suo padre faceva con lo specchietto, ogni punto di vista gli era buono perchè traesse l'arnese dalla busta e ristesse a osservare il paesaggio.

– Signor dottore: vuole? – mi chiedeva con un inchino. Ma Ortensia e Anna accorrevano.

Ortensia, che poco prima aveva rifiutato il binocolo, ora insisteva:

– Voglio veder io! voglio vedere!

Ma da Ortensia il cannocchiale passava ad Anna; e cominciava la guerra per ricuperarlo. Anna fuggiva ridendo e sperando d'esser rincorsa anche da Roveni. E risate e grida.

Io mi servii di Pieruccio per sfogare il mio tedio.

– Oh l'infelicità del primo amore! – dissi con l'ingegnere. – Che fatiche! che sacrifizi! L'adolescente innamorato patisce un appetito formidabile e rifiuta il cibo; casca di sonno e si sforza a vegliare; con tutto il pensiero cerca l'immagine adorata, che dovrebbe specchiarsi chiara e netta alla sua mente, ma col naso divino, gli occhi divini, la bocca divina, che la mente gli delinea, non riesce mai a comporre la faccia divina, e invece gli balzan dinanzi le facce più estranee e più antipatiche. E questo è nulla! Vagheggiare qualche eroica impresa; o salvar da un pericolo mortale la bella per meritarne l'amore, o sfidare e ferire a morte il rivale, e sudar intanto nelle scarpe troppo strette o troppo larghe, e fare e rifare il nodo della cravatta, or sperando or disperando che parta da essa il colpo della vittoria! E questo è nulla! Proporsi di esser spiritoso e irresistibile, e non riuscir a trovar motto che non sia stupido e a trovar un gesto che non sia goffo.

Questa volta Roveni rise sgangheratamente; troppo. Non rise Ortensia; mi fissò e disse:

– Brutto giorno, oggi! – e via!

A un punto la perdei di vista; finchè, ella ricomparve con Anna, su di un poggiòlo in mezzo a una fratta. Di là ci chiamavano, urlavano i nostri nomi.

Disse Roveni: – Che bella voce ha Anna! – E forte: – Canti, signorina Melvi!

Allora la monellaccia, con voce squillante:

 
L'amore è una catena!
L'amore è una catena
che non si spezza…
 

… Quando arrivammo a Rivalta, il villaggio dei tagliapietra, a più che due terzi del cammino,, era già tardi, e noi assetati e affamati. Or mentre io guardavo ai tagliapietre e agli scalpellini che quadravano e appianavano i massi – e schegge e lapilli balzavano diffusi ai colpi dei martelli, e i birocciai davano voce ai muli, e rintronavano da lungi le mine – le ragazze avvertirono, entro una porta, un magnifico cesto di pere, e si misero a mangiarne ingorde, invitando noi a pagarne il prezzo.

Allora, nel veder mordere i grossi frutti dalle polpe succose, come io invidiai la gioia di vivere!

Non bastavano quelle belle frutta a dimostrare la provvidenziale disposizione della natura alla gioia umana? Non erano destinate a gioie umane quelle labbra rosse, che sui pericarpi color d'oro secondavano il taglio avido dei denti?

E mi volsi a cominciar solo la salita dell'ardua costa montana.

Da un lato s'ergeva la costa a perpendicolo, tutta di massi grigi e neri sovrapposti come per un gigantesco assalto alla vetta; dall'altro lato precipitava la rovina sino al fiume, sul greto del quale il sole batteva irradiato dalla scarsa corrente.

Io non guardavo là dove il sole splendeva: a un passo più scosceso una nera croce di legno ammoniva che di là un viandante era precipitato e morto. Morire così!

Ma mi raggiunsero i giovani; mi raggiunse la vita, e sempre più incresciosa. Anche ora risento di quell'uggia; e non riferirei più oltre di quella gita se non fossero state gravi le conseguenze che ebbe.

… Come entrammo nelle grotte, avanzarono per primi Ortensia, Marcella e Guido; seguimmo io e Pieruccio e gli altri due. Roveni, senza opposizione, reggeva la candela rifiutata da Pieruccio.

Intanto il cane si precipitava fin dove giungeva l'ultimo riverbero e s'arrestava abbaiando alle tenebre; poi facendo l'occhio all'oscurità, o scorgendo altro barlume, procedeva ancora e si perdeva, e impaurito a non udir le nostre voci o a udirle lontane, latrava e guaiva, finchè riusciva a trovarci, per riprendere quel nuovo sollazzo subito dopo. Acute strida seguivano a fremiti veri o immaginari di pipistrelli. E veramente ogni volta che si rinnovava l'oscurità, perchè o aria o ala di pipistrello od altro spegnesse la candela, la tenebra gravava su di noi; il freddo umido penetrava le ossa e l'attesa della nuova luce pareva eterna a chi frattanto non facesse qualche cosa.

 

Che facesse Anna non sapevo; ma insospettito, quando la candela fu riaccesa la quarta o quinta volta, mi ritrassi da parte per lasciar l'adito a lei e Roveni; e sorpresi Anna nell'atto di soffiare alla fiammella.

Finalmente usciti di là e superata l'ultima costa, tornammo nel prato, a far la colazione che un servo aveva predisposta.

Di lassù spaziava la vista della valle, ove le case apparivano frequenti come un gregge bianco in parte diffuso e in altre parti raccolto: verdi di boschi erano i monti prossimi, e tra il verde, or cupo or diverso per mezzi toni o sfumature ai riflessi di luce, casupole e ville; giù, candido il fiume, e i monti anteriori eran brulli e scuri, e azzurrine o già nebulose le estreme vette.

D'improvviso un suono di campane, multiplo e confuso dagli echi, ruppe quel sensibile silenzio; il silenzio quasi fervido della conca sonora: l'Angelus vibrò nell'aria.

Esultavano i miei compagni, mangiando, senza badare a quei rintocchi tardi e fiochi. Stranamente, dall'immagine ancor viva dei tagliapietre, che mi pareva veder deporre martelli e scalpelli ed entrare alle case per la zuppa fumante, ma non lieti e stancati dai duri macigni, io corsi all'immagine dell'operaio al mio paese: deponeva la vanga e traeva dalla bisaccia pane e cipolla; questa schiacciava col pugno e ogni scoglio, che toccava al cartoccio del sale, accompagnava di un morso di pan nero. Non gli zampillava vicina alcuna sorgente giuliva e fresca… Infelici i poveri!

Ma forse la felicità era in quelle ville di contro a noi?

– Qual è la villa De Mol? – chiesi. Me l'accennarono.

– Perchè? – mi domandò Ortensia, quasi indovinasse il mio pensiero.

Non risposi. Sapevo che là era morta anni addietro una giovinetta… Come dovè esser bello a vederlo, di là dove eravamo, il corteo funebre!

Morì etica. Bella, dicevano, anche morta. Ricchissima, la portarono giù di giorno, in una carrozza nera; e una fila lunga lunga di bambine e ragazze vestite di bianco l'accompagnava; e gli alberi del viale, per cui ella aveva corso fanciulletta, tagliavano a tratti la vista del corteo. O la felicità era d'intorno a me?

Che cosa dicevano i miei compagni? perchè ridevano?

Ascoltai… Anna e Ortensia, alla fabbrica Moser, erano entrate furtivamente nella dimora, nella camera di Roveni.

– Quando? – chiesi.

– L'altro ieri.

– A far che?

– Non ha sentito? – Ortensia proseguiva. – Tutto sossopra! Abiti, biancheria, cravatte… Ma Anna non ha fatto in tempo, come me, a scappar via, e Roveni s'è vendicato!

– In che modo?

– A pizzicotti.

Io guardavo, stupito, l'ingegnere. Egli, indifferente, corresse:

– Non è stata vendetta, ma legittima difesa… Ecco la vita! Quei due avevan già forse contaminata l'anima d'Ortensia!

Dissi aspramente: – Ogni malesempio vien da Anna.

Ma senza temere e ridente Anna mi chiese:

– Cosa può dire, lei, di me?

Risposi: – Niente, io…

Ella si alzò, mi si avvicinò minacciosa tendendo le mani:

– Se lei pensa male di me le cavo gli occhi!

– Troppo! – le susurrai – : basta spegnere la candela.

– Ah infame! – Dica subito cosa ha pensato… Subito!

All'orecchio le dissi (ecco la vita!):

– Ho pensato che si può spegnere una candela per infiammare un uomo.

La ragazzaccia protestò:

– Maligno! Perfido! Non è vero!.. – ; poi, a vedermi un sincero disprezzo negli occhi, mi volse le spalle mentre diceva forte: – Me ne infischio!

… E il ritorno fu triste. Roveni, silenzioso e come dolente del tempo perduto, andava innanzi tagliando a colpi di giunco le vette che sopravvanzavano alla siepe; Marcella e Guido, a braccetto, procedevano poco loquaci, come marito e moglie; Anna conversava sul serio con Pieruccio, forse perchè discorreva di me; e Ortensia mi faceva indugiare a nominarle piante e fiori, per affrettarmi dopo. Ma anche lei era molto diversa del mattino; era stanca, si vedeva, di sè stessa. Mormorò:

– Povero Sivori! S'è annoiato, eh?

Invece di rispondere le domandai:

– Dov'ero io, l'altro ieri, quando siete andate da Roveni?

Non si confuse.

– Dov'era? E chi lo sa? Lo cercammo da per tutto; in casa; nel giardino… Anna diceva che si era nascosto per non accompagnarci. Ma dopo me ne dispiacque, davvero! E quando tornammo a casa non le dissi della scappata: se no, guai! Non voglio rimproveri, io, da lei!

– Oh – feci scotendo le spalle – : per me, che tu vada a raccoglier ciclami con Mino o accompagni Anna a prender pizzicotti, dovrebbe essere lo stesso: non deve importarmene; nè forse importerà a te che io abbia molta stima dell'ingegner Roveni e nessuna stima di Anna Melvi. Tu non sai ancora che un uomo non ci perde se una donna leggera si contiene con lui come fa Anna…

Non badò nemmeno a quest'ultime parole.

– Non ci andrò più con Anna – disse d'impeto, per togliermi subito il rammarico. – Glielo prometto!

Poi, riflettendo alle ragioni della promessa, ripetè:

– Ha ragione. Non ci andrò più!

La Melvi, ci avesse o no uditi, venne a noi e pregò Ortensia di lasciarla sola meco.

– Debbo parlare al dottor Sivori.

Fu allora, per quel solo tratto, che Ortensia si accompagnò a Roveni; e nel mentre discorrevamo io e la Melvi, li guardavo; e respingevo ancora l'idea che l'ingegnere e Ortensia fossero adatti ad amarsi, sebbene a vederli sparisse ogni ripugnanza di persona e di età.

Anna diceva:

– Lei, signor dottore, mi giudica troppo male; lei dà troppo peso a cose innocenti.

– Forse.

– Non me ne rincresce per me: me ne rincresce per lei.

– Per me?

– Un uomo come lei preoccuparsi delle nostre ragazzate! Eppoi, io e lei dovremmo essere amici; e non so perchè siamo nemici.

– Perchè dovremmo essere amici?

La mia domanda fu così pacata, mi dimostrò così indifferente, che vidi Anna abbandonare la risposta che le correva alle labbra. Ebbene: se adesso non mi meraviglio che al mattino io non avvertissi in Roveni la sagacia di sospendere e nascondere un pensiero improvviso, mi meraviglio che avvertendo una dissimulazione in Anna, non cercassi di scoprirla. Non solo! Io non attesi affatto alle parole che ella sostituì al primo pensiero.

Io ascoltai come fossero dette candidamente queste parole:

– Dovremmo essere amici – disse Anna – , se non per altro, perchè ci conosciamo da tanto tempo!

Tacque un istante, per riprendere con disinvoltura:

– Che pelle buggerona ero io a sei o sette anni! Ricorda? Io mi ricordo quando lei venne la prima volta quassù. E mi par di vedere Ortensia piccola piccola in braccio a sua madre. Che bellezza era allora la signora Eugenia! Una Madonna! Bambina com'ero, la paragonavo a una Madonna. Mi ricordo anche che quando lei e la signora Eugenia andavano incontro a Moser, io e Marcella correvamo innanzi; e se qualcuno ci domandava chi era lei, non sapevamo cosa rispondere: rispondevamo: – Un signore tanto bravo… – quando ci dava dei dolci!

Avrebbe forse detto di più se il solito Pieruccio non fosse sopravvenuto col solito cannocchiale. Guardassi di là alla fabbrica Moser: si scorgevano gli operai. Io scorsi invece l'espressione di malcontento con cui Roveni, restituendo a sua volta il cannocchiale, scosse il capo.

Quasi a un presentimento istantaneo di un lontano soffrire, mi tornò a mente il giudizio che la mattina l'ingegnere mi aveva dato di Moser; e non badai più affatto alla Melvi. Mi distolsi da Anna per interrogar Roveni senza essere udito.

– Ingegnere – gli chiesi – , lei è malcontento della fabbrica? Forse Moser per attendere a troppe cose non se ne cura abbastanza?

– Tutt'altro! Se ne cura troppo. Oramai gli converrebbe diminuire la produzione.

– Come? Ma non è stata la fabbrica la fortuna di Claudio? Non gli rende molto?

– In altri tempi. Oggi la bontà del materiale non basta più a vincere la concorrenza; e aumenta ogni giorno il prezzo della mano d'opera. Moser dovrebbe almeno licenziare degli operai; ma è troppo buono, e ostinato.

Dunque la fortuna di Claudio non era quella che io mi credevo?

… Dopo Rivalta, Ortensia, sempre più quieta, si riaccompagnò a me. Disse:

– Sarebbe state meglio che noi due ce ne fossimo restati a casa. Adesso non la vedrei così. Non voglio vederla così!

Anche per Ortensia il ritorno era triste. Sola Anna Melvi rideva forte, perchè, finalmente, poteva parlare a Roveni, sottovoce.

XI

Ortensia non osava più, adesso, varcare il limite del cancello senza avvertirmene.

Risento il piacere di quando, o dalla sala a terreno o dalla terrazza, l'udivo chiedere alla madre o ad altri: – Dov'è Sivori? – . Impaziente gridava forte: – Sivori! – , come chiamando Mino; come si chiama un fratello. E se non mi trovava a terreno saliva di corsa alla mia camera.

Toc toc.

– Che c'è?

– Mi accompagna alla bottega? – Era una botteguccia sulla via maestra, in cui vendevano un po' di tutto. – Andiamo a comperar aghi e cotone…

Oppure: – Vado all'orto per la frutta. Chi mi accompagna, lei o Mino?

– Tutt'e due!

Con maggiore attraenza andavamo alla cascina, non solo perchè c'era il lattonzolo da riverire, le faraone e le anitre in attesa di becchime e la massaia ridanciana; ma perchè la viottola che vi conduceva, al di là dell'antico convento, era deliziosa per querce e per radure che svelavano a tratti cielo e terra.

Quando poi aveva da cucire, Ortensia non restava più chiusa nella sua stanza; cercava ne ammirassi ora la voglia di lavorare, la pazienza fin a proseguire il ricamo di Marcella. Spesso diceva:

– Sono buona?

Buona, compiacevasi di udirselo ripetere, appunto perchè consapevole della energia di volontà che, come le faceva parer bella talvolta la ribellione, ora la conteneva in tanta sommissione con me.

Ripeteva: – Non mi sgriderà più: è vero? Mai più!

Per poco io non rimproveravo me stesso dell'aver dato soverchia importanza a scappatelle; e pur temendo il malesempio di Anna, ripensavo di Ortensia: «Il male è giunto al suo orecchio e alla sua mente, ma senza contaminarla».

E pareva che questo pensiero mi facesse bene.

Anche con Mino, che avevo indegnamente tradito andando alle Grotte senza di lui, avevo fatto la pace; ed egli interveniva ai miei colloqui con la sorella, e pretendeva lo aiutassi a incollare o ingommare. Saldo su le gambe, sicuro nel grembialone come in una corazza, col pennello in resta, guai a non ubbidirgli!

Ma pur troppo io ero solo con me la mattina presto, allorchè mi pareva più difficile riprendere la vita.

– Poltrone! – dicevo a Mino. – Ed egli:

– Più poltrona Ortensia! Diglielo a lei, che si alzi prima; lei è più grande.

Non glielo dissi a Ortensia; ma essa ci udì, e diventò mattiniera.

Ai primi albori, dalla finestra spalancata della mia camera, io vedevo ogni giorno un chiarore tenue, come di neve lontana nella notte profonda. E più sollecita di ogni altro alato, una capinera mandava il primo richiamo da lungi. Di dove mai? Nessuno rispondeva: essa ripeteva più forte. Nessuno; e ripeteva più forte, approssimando. D'improvviso, dal tetto o da un abete, sorgeva nitida, vigorosa, breve, la risposta.

Si ritrovavano così le piccole creature, e sol due, risvegliate nel mondo immenso quando ancora tutti dormivano e tutto dormiva, e forse rabbrividendo alla frescura sogguardavano con gli occhietti pavidi al cielo, fuorchè da una parte, ancora notturno. Nelle loro voci era un'ansietà di letizia non consentita a pieno, una trepidazione, uno smarrimento quasi di paura. Piccole, innocenti creature, sol due nel mondo immenso! Il giorno volevano; la luce, il sole! Quanto tardava!

Ma ecco il suono delle campane mattutine… Nell'aria quieta e densa i rintocchi suscitavan copiose onde vibranti, sì che tutta l'aria sembrava agitata da un tremito metallico… Poi il sole sormontando suscitava innumerevoli specchi dalle foglie del platano e del cedro aperte a rifletterlo, e crivellava di punti vividi i sempreverdi, e indorava le ragnatele tra gli aghi degli abeti. Un brivido scorreva per tutte le fronde, e tutte le piante parevano adergersi in una nuova intensione di vita verso il cielo e verso il sole.

 

Infine, i rumori della strada…

Io risentivo fuori di me, per tal modo, l'armonia del giorno; ma tuttavia mi chiedevo che cosa me ne avesse escluso, m'impedisse ancora di parteciparvi con tutta l'anima. Quale colpa? qual destino?

A lungo attendevo, così. Quindi mi richiamava la bella voce: – Buon giorno, Sivori!

Appena alzata Ortensia veniva sotto la mia finestra a salutarmi con un lieve inchino, sorridente, il sole nei capelli.

«Dimenticare me stesso!» E scendevo.

… Nè tacerò di un altro conforto che ebbi in quei giorni.

Pieruccio Fulgosi, dopo la gita alle Grotte, spasimò a dirittura e visibilmente per Ortensia. Alle canzonature di Anna, alle contraffazioni di Guido, ai miei sorrisi pietosi, agl'incitamenti di Roveni, che battendogli una mano sulla spalla gli diceva: – Coraggio, giovinotto! – , e sopra tutto all'incuranza di Ortensia, egli la sera, durante i ballonzoli e i giochi, opponeva una faccia patibolare, un silenzio patetico, un colletto sempre più angusto.

Quando, un pomeriggio, la signora Fulgosi, adducendo con Eugenia non so che pretesto, venne da me per parlarmi in segreto. Aveva gli occhi fuor del capo, come spesso; il viso pallido come sempre, e più del solito il tic delle palpebre e le raggricciature del naso. Sobbalzando con le parole dietro le idee precipitose, quelle sue smorfie rappresentavano gli sforzi per trattenere il filo delle idee e la furia delle parole, mentre accrescevano l'espressione dell'aspetto tragico.

– Ah dottore, dottore! – cominciò affannosa e tremando – . Mi aiuti lei! mi consigli!

Dubitai che in un accesso isterico avesse sofferto di qualche nuovo malanno, e stavo per ricordarle che non esercitavo la medicina. Ma ella esclamò: – Pieruccio! – ; e recò le mani alla fronte, contro i capelli, disperatamente.

– Che passione! Il mio Pieruccio… questa notte… – proseguiva piano per aumentar l'enormità del fatto – , questa notte è uscito di casa! Fuori di casa, la notte! Me ne sono accorta io!.. Mi son gettato uno scialle indosso e l'ho seguito. Immagini una povera madre, di notte, per la strada, a quel modo, rasentando la siepe per non esser vista… Si è fermato qua, di fronte alla villa, proprio dove sta Giovannin il cieco, e pareva aspettasse… Immagini, dottore, immagini la mia angustia! Pensavo che la finestra s'aprisse; che Ortensia gettasse le chiavi del cancello… Che scandalo! Sarebbe stata una sciagura per tutti!..

– Ma la finestra è rimasta chiusa, – feci io sorridendo, certo.

– Sì… Avrò avuto torto di pensar male della ragazza… Ma troppa libertà! troppa libertà, dottore! Le ragazze in Inghilterra godono di molta libertà, ma si educano in altro modo… E intanto Ortensia mi ha innamorato Pieruccio… Capisce? Per esserle più vicino col pensiero viene qua di notte! Poverino! È una passione terribile! A diciassette anni… Che passione!

Io contenevo a stento un commento sarcastico. Ella proseguiva:

– A vederlo immobile là, sotto la finestra di Ortensia, non mi è rimasta una goccia di sangue nelle vene. Meditava il suicidio?.. Gli ho detto, accostandomi a poco a poco: «Torna a casa con la tua mamma»; e lui, poverino, mi ha seguita come un agnello.

Colsi la pausa, che la commozione imponeva, per suggerire:

– Lo allontani… Guarirà presto.

Ma la signora m'investì quasi a un affronto:

– Guarirà presto?! Presto?! Ah lei non sa che cosa ha fatto appena a casa!.. Una frenesia! un orrore! È nervoso come me… Improperii, bestemmie, maledizioni: anche a lei, dottore!..

(… Poco male!)

– … Maledizioni a tutti: Anna, Roveni, Guido, Moser. Non riuscivo a quetarlo! Ha fracassato le seggiole, ha rovesciato il tavolino, ed è andato in terra, in frantumi, il portafiori!: un portafiori di Boemia, stupendo, magnifico!, dono di mia zia, la De Mol… Ha minacciato fin suo padre, che è accorso…; e anche la cameriera!

(… Come non ridere?)

– Allontanarlo, lei dice? È la mia idea. Subito! Domani! Lo manderò da suo zio, mio fratello, il colonnello De Mol, a Varezze… Bel sito, Varezze! Ci son molti villeggianti e ci si divertono. Ma mandarlo con chi, Pieruccio? Con suo padre?

– Con suo padre.

Non l'avessi mai detto! La signora gridò:

– Il cavaliere… mio marito, a Varezze, in mezzo alla società, alle donne? Non tornerebbe più a casa! – E spalancò le braccia come se il cavaliere le fosse fuggito allora di seno. – … Ah dottore!, i misteri delle famiglie! Mio marito ha colpa di tutto! È lui la pietra dello scandalo! Fulgosi è un uomo… che non invecchia, un seduttore, un gentleman traviato che non esiterebbe, se potesse, se io non tenessi sopra tutto al mio decoro… non esiterebbe a disonorarmi, a tradirmi fin con donne vili! Ma io sono una gentildonna, una De Mol, parente dei De Mol che han la villa a Rivalta! Maria, la povera Maria, che morì etica – un angiolo! – era mia seconda cugina…

– L'accompagni lei, Pieruccio…

– Peggio! Lasciarlo a casa con la cameriera, mio marito?.. Non mi fido! Capisce?

– Capisco… – (Il cavaliere cominciava a diventarmi simpatico). – Dunque, lo lasci andar solo, Pieruccio…

– Solo, no. Temo, dottore… L'avesse visto ierisera! Oggi dorme: gli ho data tanta camomilla! Ma la passione… Se si getta sotto il treno?

A queste parole la povera donna contrasse la faccia in modo da far rabbrividire. Se non che io ero sordo e cieco alla pietà, anche perchè avevo compreso ch'essa voleva l'accompagnassi io, il suo Pieruccio, a quel paese.

Spietato a dirittura mormorai: – Se l'accompagnasse la cameriera?

– Oooh! – La signora non dubitò che io scherzassi, ma si meravigliò non tenessi suo figlio per più che un ragazzo. La passione lo ingigantiva agli occhi materni; la passione… e la lettura dei giornali.

– Sempre suicidi d'amore! Per me, io non voglio armi in casa. Pieruccio desiderava lo schioppo per andar a caccia con Guido Learchi. Niente! Gli ho regalato invece il binocolo…

Ah! il binocolo fu la mia salvezza.

– Stupendo binocolo! – esclamai; e assunta tutta la gravità possibile parlai a lungo, da sapiente consigliero. – Nei giovani, signora, l'ambizione di primeggiare supera ogni altra passione; vince, se soddisfatta, ogni altro desiderio, ogni male. Il binocolo che lei ha regalato al suo figliolo è davvero invidiabile in un luogo come Varezze per scrutar il mare, la riviera, l'orizzonte, le signore e le signorine. I giovinotti invidieranno Pieruccio. Le signore e le signorine se lo contenderanno… – (il binocolo se non Pieruccio) – Ed è questo il mio consiglio: che lei lasci travedere al suo figliolo il piacere che troverà laggiù; l'invidia che vi susciterà. Conosco i giovani: son certo ch'egli partirà volentieri…

Io avevo corso il rischio d'infuriare la gentildonna e d'esser assalito come capitava al cavaliere. Ma per fortuna anche stavolta la mia serietà non la lasciò nel dubbio di una canzonatura; e la mia esperienza nella medicina delle passioni dovè convincerla.

Infatti il giorno dopo Pieruccio partiva, accompagnato dal binocolo invece che da me o dalla cameriera.

Anna Melvi ne fu dolente, chè perdeva chi le serviva da contraccolpo alle chiassose lusinghe con cui tentava Roveni. Quanto a Ortensia, ella trasse un sospiro di soddisfazione; disse: – buon viaggio! – e non ne parlò più.

Ma chi lo crederebbe? La mia soddisfazione fu assai più grande!

Già più volte io avevo chiesto a me stesso: «Se il mio affetto non è assurdo e insano, che farò quando, presto o tardi, saprò Ortensia fidanzata? quando andrà sposa?» E avevo risposto con animo tranquillo: «Farò come un fratello. Ne godrò».

Ebbene, il godimento che provavo per l'allontanamento di Pieruccio non era forse quello di una gelosia cessata? Non avrei osato confessarlo, ma mi aveva tenuto inquieto a lungo quello scimunito, che ricercava invano lo sguardo di Ortensia; mi aveva turbato quel meschino ragazzo che si era ridotto a vagheggiare il suo amore di notte, attraverso la finestra chiusa e dal sito ove Giovannin il cieco stirava dall'organetto l'«addio mia bella, addio»! Senza mai confessarlo a me stesso, io avevo temuto che vagheggiata da Pieruccio Fulgosi, Ortensia riflettesse come ella poteva già essere amata, più virilmente, da altri; oscuramente io avevo temuto che questo solo pensiero in Ortensia mi carpisse parte del suo affetto per me!