Za darmo

In faccia al destino

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Quello stesso giorno, tornato all'albergo per attendervi Claudio, pensavo che dovrei riprendere subito la via dell'esilio, ove cercar maggior guadagno che per il passato, e partirei forse senza rivedere Ortensia, quand'ecco mi sovvenne di certe parole udite dal Biondo, laggiù, allorchè mi preparavo a dargli il gran colpo. A quel ricordo s'accompagnò un'idea curiosa, ridicola dapprima, quindi sempre meno strana, sempre più opportuna e lusinghiera. M'aveva detto il Biondo che a Molinella era richiesto un altro medico… Perchè no? Io ero certo che sarei bene accetto al paese e a quell'amministrazione comunale. Il dottor Sivori ridursi medico in risaia! – rimbrottava in me l'orgoglio. – Per guadagnar più che per il passato! – ghignava l'interesse. – Fine degna di un filosofo! – notava la coscienza a cui non sfuggiva la nuova contraddizione.

Infatti la mia vecchia casa, che adesso mi pareva di amare più di quel che l'avessi amata mai, poteva scusarmi del ricercare un magro stipendio là dove non possedevo più quasi nulla e di dove ero partito coll'indefinibile proposito di rifarmi, lontano, una fortuna; poteva scusarmi sin la filosofia, che consiglia di abbandonare ogni ambizione e d'essere contento del poco; ma io non speravo più nulla del mio amore. A che restare in Italia? Non solo: la minaccia di Roveni non mi intimoriva a patto che io andassi lontano da Ortensia.

Tuttavia accolsi con fretta quell'idea stramba. Scrissi subito al sindaco di Molinella proponendogli l'opera mia… Sì, una contraddizione! Ma pensate: i miei affetti più forti eran qui, nella terra delle memorie e dei rimorsi; qui in patria avevo ripreso a vivere col proposito di umiliarmi in una attività non più inutile; qui avevo conosciuto la gioia, prima ignota, del sacrificio; qui mi tornerebbe cara la solitudine per amare e soffrire; qui un giorno Ortensia mi rivedrebbe lieto del suo perdono.

Ecco tutto ciò che desideravo. Non troppo, è vero? E bastava perchè all'antico pessimista sorridesse, ora, la vita!

La speranza però non mi rifioriva in cuore senza spine. Di quella più acuta mi fece sentire le punture l'amico Fulgosi; il cui ritorno precedette di poco quello di Moser.

Più di una volta, a guardarlo bene nella faccetta sbiadita e nella personcina arida, io, dentro di me, avevo paragonato il cavaliere a un limone spremuto; ma nessuno, che si sforzasse a spremere qualche goccia da una buccia di limone, faticò mai più di quanto faticassi io a spremere dal cavaliere ricordi che non fossero alla sola superficie della sua memoria quando giunse da Valdigorgo. Cominciò la relazione dicendo:

– Sempre loro, sempre uguali, quelle care signore; così gentili! così buone! Si figuri che accoglienza mi hanno fatta! Quanti complimenti! Troppi in confronto al mio merito. Ma ho avuto il piacere di vederle sorridere, per qualche barzelletta. Son proprio felice di aver fatta questa visitina! In viaggio poi me la son passata benissimo. Buon menu al restaurant… A Novara è salita nel mio vagone una signora… ehm!..

L'interruppi: – Mi parli di Eugenia; mi dica come l'ha trovata…

– Abbastanza bene, poverina! Davvero, credevo di trovarla peggio! È inutile dire che i ringraziamenti per lei, per il suo telegramma, per tutte le sue premure, sono stati infiniti, come infiniti gli elogi, ben giusti!, a tutte le qualità di mente e di animo dell'amico Sivori…

Ripetei impaziente: – Mi parli delle signore, non d'altro! Che impressione ha ricevuto di Ortensia?

A questa domanda il cavaliere lentamente spalancò le braccia ed elevò gli occhi con mossa così tragica che mi spaventò.

– Che cos'è stato? Mi dica!; mi dica tutto!..

– Vuol che le dica tutto, tutto in due parole?

– Sì!

– Ortensia… è troppo bella!

L'avrei accoppato! Egli continuò scioccamente:

– Ah se io fossi mio figlio… quando sarà capitano!

– Ma perchè «troppo bella?»

– Perchè una creatura simile non dovrebbe soffrire! È un'ingiustizia esporre tanto charme alle traversie della vita! Questa almeno è la mia opinione.

– Dunque Ortensia le è parsa molto deperita? È eccitata?

– Infatti… si è adirata anche con me!.. Per colpa mia, però; ne ho fatta una grossa e me ne confesso umilmente.

Era il suo destino.

– Racconti tutto! andiamo!

Sospirò:

– Io ignoravo che tra Ortensia e Anna Melvi ci fossero state divergenze…

– Ma eran momenti quelli da rammentar la Melvi?

– Non mi mortifichi, illustre amico!

Il pover'uomo aveva tanta paura di pericolare!

– … Che dovevo dire per distrar le signore? I progressi di Anna nel canto potevano, in qualche modo, prestare argomento a discorrere…

– Ebbene?

– Questa è la premessa; la pregiudiziale. Io non sapevo…

– Ho capito. Eppoi?

– Quando sono stato per partire, Ortensia mi ha ringraziato con effusione; mi ha commosso… Quasi che alla famiglia Moser non resti altro amico che me! Come era mio dovere, ho protestato: «La famiglia Moser, signorina, ha un amico al cui confronto io debbo scomparire: il dottor Sivori». E la signorina…

– Avanti!

– …È sembrata quasi offesa. S'è adirata e mi ha detto: «Lei dovrebbe sapere che Sivori non è un amico; è come uno della nostra famiglia! Lo dica, lo dica alla Melvi che per me Sivori è un fratello. Ha capito? Un fratello! Glielo dica!»

Meno male! borbottai. Ma al compiacimento in me sottentrò timore subito dopo.

– Faccia a mio modo, cavaliere. Con Anna, con Roveni, non parli mai più nè di me nè dei Moser. Sarà meglio per tutti. Le vipere sono sempre pericolose.

Egli si ritrasse e mi guardò sbigottito, quasi a sentirsi mordere; poi inchinandosi:

– Mi rimetto al suo consiglio!

… L'ambasciata che Ortensia mandava ad Anna non pareva una risposta a qualche malignità?

Era possibile che Ortensia non fosse del tutto ignara della calunnia. A Valdigorgo, nella mia visita recente, non avevo scorto in lei qualche segno come di avversione per me; quale uno sforzo a vincere un sentimento ostile? Si era rialzata così pallida dal seno della madre! E quella sua eccitazione non seguiva forse a un'intima lotta, più fiera di quante aveva sostenute e sosteneva per la sventura del padre? Aveva chiesto il mio consiglio forse per trovare nuove ragioni di confidare nella purità della mia amicizia; per accertarsi che se non l'esortavo a cedere a Roveni io, per me, non avevo da temere Roveni in nulla…

Ancora la fantasia mi tormentava. Era un sospetto assurdo! Ma se questo era assurdo, non mi pareva più tale il sospetto del dì innanzi.

A Roveni, per togliermi l'affetto di Ortensia, bisognava e bastava gettare nell'animo di lei un'ombra sinistra di sua madre e di me. Avevo creduto inverosimile che Ortensia potesse mai dubitare di sua madre. Ma la serena anima di un tempo, caduta per colpa mia in una tristezza d'amore, era stata sconvolta da una subitanea e turbinosa esperienza di male. Sua madre stessa me l'aveva detto: – Ortensia non aveva più fiducia in nessuno, in nulla. – Ed io avevo visto Ortensia in preda all'ossessione di questo pensiero: che la vita è una lotta contro il male.

In tal condizione ella era predisposta ad accogliere per vera qualsiasi interpretazione più obliqua di due fatti che male si spiegavano altrimenti. Perchè amandola io l'avevo abbandonata?

E perchè io sacrificavo quanto possedevo a pro dell'amico, allorchè tutti gli altri amici e sin i congiunti disertavano o tradivano? Per pura amicizia?

Se a queste dimande arrivasse in risposta la calunnia di Roveni e di Anna Melvi, la colpa attribuita ad Eugenia e a me non poteva essere assurda neanche per Ortensia…

Così mi tormentavo!

XV

E seguì il ritorno di Moser, l'incontro atteso da me e da lui con desiderio protratto ma con aspettazione timida. In lui, insieme col pudore dei suoi errori e della sua disgrazia, era il torto di non avermi confessato in quali condizioni si trovava da tempo: troppe cose io gli avevo celate e dovrei celargli ancora!; nè egli saprebbe mai quanto male io avevo fatto a lui, che aveva il cuore pieno di gratitudine per me.

«Cuor dei cuori» posso giustamente ripetere per Claudio Moser. A rammentare quel periodo angoscioso della sua vita provo un sentimento profondo e misto di tenerezza, di pietà, di ammirazione.

A che prezzo aveva scontato i suoi difetti!, primi la soverchia fiducia in sè stesso e l'ostinazione. Era ostinato. Ma nel periodo di fortuna favorevole questo difetto era pur stato la virtù per cui Moser aveva potuto dare incremento a una industria, ed egli era potuto divenire uno degli ingegneri più noti dell'Italia superiore. Al contrario e più gli aveva nociuto una virtù vera: la generosità. Valdigorgo, prima che egli aprisse la fabbrica, aveva la miseria dei piccoli paesi che le ferrovie correnti tra città e città lasciarono in disparte; e la fabbrica Moser ridiede la vita a Valdigorgo. Se non che quei primi entusiasmi di pubblica riconoscenza appagarono il benefattore, e quanti ne approfittarono! Quanti si rimpannucciarono a sue spese!

E mentre s'appagava d'essere benvoluto, egli veniva trascinato nella lotta della concorrenza. Che vita la sua in quegli anni! Audacie non impedite da affannose riflessioni; coraggio lungamente meditato ad uscir dalle incertezze; tentativi ora prudenti ora arditi, eppur vani; sconfitte saviamente dissimulate con rare vittorie. Poi le angustie dei pagamenti; le ripulse di aiuti esosi; la resistenza inconcussa a ogni slealtà; il disdegno dei birbanti fortunati; gli sforzi inani; le lusinghe delle speranze e i ritegni dell'esperienza; la lenta struggente apprensione di un'inevitabile rovina. Ma nessuno avrebbe immaginato tutto ciò quando, nelle ore di tregua, Claudio attingeva da sè stesso tanta giocondità e serbava tanta serenità nell'animo; nessuno, neppur di noi che lo conoscevamo intimamente, avrebbe indovinato così intensa fatica del suo cervello e dei suoi nervi quando lo vedevamo gioire alle semplici cure del giardino, all'umile distrazione di un giuoco alle bocce. E quel suo sorriso? Era il sorriso di un gran cuore, ma consapevole; d'uomo che guarda alle cose e agli uomini con bontà intelligente.

 

Avvenuta la catastrofe di tutte le speranze e le illusioni, la rovina di una fortuna composta con tanti sudori, egli patì strazi di martire.

Aveva voluto il bene dei suoi cari, e anche negli occhi de' suoi cari temeva scorgere il rimprovero; aveva creduto meritarsi la gratitudine e la stima degli amici e gli amici (ben lo sapeva Ortensia!) lo compassionavano chiamandolo «tre volte buono», o lo canzonavano: «che bravomo!»; aveva accarezzato il segreto orgoglio di trarre dalla miseria gran numero di operai, e gli operai lo maledicevano o dicevano: «gli sta bene!». Egli conobbe gli affronti indegni e gli scherni mal celati da conforti ambigui; provò l'amarezza d'impensati inganni; le punture velenose della mala fede; le umiliazioni dinanzi agli umili di ieri e dinanzi alla possente viltà dell'oggi; le insidie e la certezza del tradimento. Tutto questo Moser conobbe e provò, ma non perdè il suo nobile sorriso. Avvilito, affranto, fu visto sorridere e ristorarsi a una parola buona di un buono, riconfortarsi come ricuperasse sè stesso alla stretta di mano d'un galantuomo. Io lo vidi sorridere così, quando egli aveva lo strazio nel cuore, la voce tremula e il tremito nelle labbra per la passione e per lo sforzo di trattenere le lagrime…

Sorrise staccandosi dalle mie braccia e mormorando con espressione d'immenso affetto per me:

– Vecchio mio! – Ma egli, egli era tanto invecchiato!: incanutito; quasi del tutto aveva bianchi anche i baffi; la barba, non rasa da più giorni, rendeva più smorte le guance flosce.

Dubitosi a vicenda, di non contenere abbastanza la nostra commozione, cercavamo una frase per cui attaccar discorso, e tacevamo. Alla fine io dissi con aria di chi perdonando un torto ricevuto vuol passare ad altro:

– Ebbene?

E allora lui con l'aria di chi domanda schiarimento di una colpa, benchè già perdonata:

– Come hai fatto, tu, a trovar quella somma?

La bugia era pronta da un pezzo:

– Un prestito…; un mutuo col Biondo.

Claudio si mise a sedere, abbassò gli occhi. Quanto più grande sarebbe stato il suo dolore se gli avessi detta la verità: che avevo preferito vendere il podere!

– Hai ipotecato il fondo? a che frutto?

– Al cinque.

– E hai pensato che io non avrò più di quindici anni di lavoro utile davanti a me? I frutti ti saranno pagati puntualmente ogni anno; ma il capitale? Farò in tempo a renderlo?

– Sì – risposi scuotendo le spalle. – Non mi sembra una gran somma!

A poco a poco, per i miei modi bruschi, egli si rianimava; nè tacqui il rimprovero:

– Però debbo dirti che ci saremmo risparmiate molte pene, tutti, se mi avessi avvertito a tempo…

– Hai ragione – mormorò ancora a capo basso. Ma d'un tratto balzò in piedi (io avevo ottenuto l'intento!): – No, hai torto! Che gli altri mi giudicassero male, mi dessero dell'imbecille, pazienza! Ma tu, no! Non volevo!

Ribattei: – Sapendo che io ero qua, potevi almeno avvertirmi che non ti credevi sicuro.

– Perchè tu mi persuadessi a rimanere, a lasciarmi arrestare? Ti giuro, perdio! che non mi sarei lasciato prendere vivo, mai! La mia vita era legata a un filo; intendi? La mia difesa, la difesa della mia innocenza non mi avrebbe salvato. Dunque? Sono un galantuomo! – aggiunse con un grido di rabbia.

La commozione lo stringeva alla gola; e si mise a percorrere la camera su e giù: il suo sguardo pareva misurare un abisso.

Io non trovavo più alcun rimprovero che potesse impedire la crise. Finchè egli ridendo come non l'avevo mai sentito ridere, esclamò:

– Il costruttore Moser dovrà assistere alla sua completa distruzione!

– Sì – dissi io freddamente – : ma per ricostruire dopo. È necessario, mi pare!

Altro silenzio; altri passi concitati. Eppoi affrontandomi:

– Voglio sapere una cosa che tu devi sapere!

– Quale?

– Il perchè del voltafaccia di quell'assassino!

Continuò violento:

– Roveni, Roveni arrivar a questo punto? Perchè? Che cosa gli ho fatto io di male? Era appena uscito dal Politecnico; me lo raccomandarono…; aveva patita la fame; trovargli subito un buon impiego non era facile. Lo presi con me, lo trattai come un figliolo. No? E perchè dunque questa parte di Giuda? C'è un mistero! Non ha tradito, lui, per trenta denari: ci ha rimesso duemila lire, a tradirmi! Perchè? Tu ne sai qualche cosa! Parla una volta!

Mentire ancora e del tutto era inutile, oramai.

Risposi: – La spiegazione è facile. Immagina che Ortensia da qualche anno non sia più una bambina; immagina che Roveni ne fosse innamorato…

Claudio spalancò gli occhi come alla cosa più inverosimile di questo mondo; ne parve atterrito.

– Immagina – proseguii – che Ortensia abbia risposto un bel no, uno dei tuoi no, a tutte le speranze, a tutte le richieste, a tutte le insistenze di Roveni, e che Roveni, dopo aver tentata invano la via buona, abbia mutato strada… per piegarla…

Claudio intravide in confuso un eroismo nella fierezza e nella fermezza della figliola…

– Ortensia! – fece a voce strozzata, e coprendosi il volto con le mani scoppiò in singhiozzi.

Fu uno sfogo non breve. Ma si riscosse con l'impeto dell'antica energia, sorrise, mi prese e strinse forte la mano. Riapparve il Moser di una volta mentre diceva:

– Hai ragione, Carlo! Per Ortensia; per la mia famiglia; per te ho ancora molto da fare! Lavoreremo!

PARTE TERZA

I

All'uscio di cucina il Biondo aveva attaccato il Lunario del Campagnolo: Sant'Antonio in rozza stampa, lunga barba, col pastorale e il campanello; il porco a destra e a sinistra, in terra, il sacro libro e una gran fiamma; ai lati, l'ordine dei mesi con le insegne zodiacali, e, sotto, la leggenda che rammentava i mali dell'anno già caduto «nel numero dei più» promettendo migliore l'anno nuovo.

«Nel nuovo anno gli uomini fatti savi dall'esperienza, che è la miglior maestra della vita; abbandonate le malsane idee, che per un momento poterono turbare le menti umane sotto l'influsso di false massime, vivranno fra loro nella maggior concordia. Tutte il male non vien per nuocere. Avanziamoci fiduciosi incontro all'avvenire, e le nostre speranze non saranno deluse; dopo la scarsità, avremo l'abbondanza…»

E sebbene non ancora a mezzo di quest'anno nuovo il Biondo si dolesse delle stagioni avverse all'abbondanza e del socialismo avverso alla concordia, io m'attenevo alla profezia e umilmente la rileggevo ogni dì: fatto savio ormai dall'esperienza; abbandonate ormai le malsane idee e le false massime, e quasi fiducioso nell'avvenire, io mi sentiva in bastevole concordia col mio più fiero nemico e padrone: con me medesimo.

Concordia, intendiamoci, non era tranquillità, e di pensieri ne avevo anche troppi.

Ma senza dubbio il mutamento in me, da un pezzo incominciato, era grande; era divenuto così grande che non mi perdevo nemmeno a indagarne le cause. Quali esse fossero mi chiedo ora. Forse a riscuoter tutte le mie forze, accidiate da tanto tempo; a darmi resistenza per le fatiche del nuovo ufficio che esercitavo in campagne solitarie e lontane; a tenermi desto la notte dopo giornate laboriose per studiar quanto di medicina pratica o avevo disimparato o ignoravo; a ringiovanire insomma nella vita attiva senza sforzo di volontà, forse mi bastò il consiglio di Claudio, il dì della mia partenza per Molinella: – Lavoriamo! – ? Generoso esempio di un uomo la cui fibra non era stata infranta da tante batoste e dolori, la cui riconoscenza per me non era limitata dall'intenzione di sdebitarsi meco!

Ma la virtù che mi rianimava doveva esser ben altra che quella dell'esempio; ben altra che il beneficio dell'attività!

E veramente nell'esercizio e negli obblighi di una professione gravosa, ingloriosa, angusta, molte volte sentii e vidi, al letto de' miei squallidi malati, che il compito assunto per necessità era più importante, più attraente, più umano, più nobile che quello di tendere alle cose inafferrabili. Se non che mi accompagnava per tutto un sentore di lezzo, un'impressione di miseria avvilita e non domata, un'eco di minacce segrete e di odî già palesi.

Piuttosto m'eccitava dunque a una vita forte e utile la virtù del sacrificio da me compiuto a pro dell'amicizia?

Via! Contro le pene che mi dava il ricordo dei Moser, poco valeva la soddisfazione del servigio reso a Claudio. Per Claudio era già venuto il dì dell'ultimo strappo: dell'addio alla villa. Che cuore era stato il suo in quel giorno? E Ortensia, che era rimasta con lui fino all'ultimo momento?.. Poi sapevo come Claudio, dopo aver trasferito la famiglia a Milano con la speranza di trovarvi subito impiego, consumava la smania di operare in una triste vicenda d'illusioni e delusioni.

Intanto Ortensia e Eugenia dimoravano a Milano, col pericolo d'imbattersi in Roveni o d'esserne insidiate. Senza dirle quale vendetta egli forse meditava, io, partendo, avevo scritto a Eugenia affinchè stesse in guardia; invigilasse soprattutto alla posta e sottraesse qualsiasi lettera indirizzata a Ortensia: dubitavo di una lettera anonima. Eugenia mi aveva risposto che seguirebbe attentamente il consiglio. Ma quel dubbio della lettera anonima mi era, in certi giorni, un'ossessione; mi affliggeva anche il timore che Eugenia potesse scoprire la calunnia incombente su di lei; e avevo un bel dirmi: «avvenga che può, coscienza ci assicura».

Ortensia non l'avevo più riveduta. Per ripugnanza che io assistessi più oltre alla sua distruzione, Claudio non aveva insistito che l'accompagnassi a Valdigorgo, e io non avevo osato andar con lui, quasi a raccogliere riconoscenza. Così non potevo raffigurarmi Ortensia che con le attitudini e le parole dell'ultima volta che l'avevo vista, l'unica volta dopo tre anni; e mi ripetevo: «Quel giorno, lassù, pur nel momento in cui mi confidò il conflitto tragico dell'animo suo, pur quando disperata invocò il mio consiglio, qualche cosa di misterioso s'interpose a quella espansione».

Era stato l'ultimo rancore del male che le avevo fatto? Era stato l'orgoglio ferito dal soccorso che io promettevo alla sua famiglia o dallo stesso consiglio ch'ella si sentiva costretta a chiedermi? O quali altri sospetti ottenebravano l'anima dolorosa mentre l'agitava lo spavento del disonore paterno?

Questo, questo, il mio maggior tormento nelle tregue dalle fatiche quotidiane, o nelle notti insonni!

E quando non ne potei più, sapete che feci? Scrissi a Ortensia, col pretesto d'aver da lei notizie della famiglia. Per poco non mi rimproveravo di soverchia audacia! Ella rispose subito. A leggere e rileggere quelle poche righe – la prima lettera di Ortensia che io ricevevo! – facevo rabbia a me stesso; tentavo esprimere da poche parole un significato che non avevano; non sapevo persuadermi che dopo tanto amore e con tanto amore io dovessi rassegnarmi a una letterina di stile perfettamente amichevole. Stanco di me e della lettera, la stracciai; mi pentii d'averla stracciata. Affettuosamente – e a me pareva in modo freddo – Ortensia mi dava notizie di tutti: del padre sempre in speranze; della madre sempre fidente in giorni migliori; di sè che stava «discretamente». Aggiungeva:

Si parla ogni giorno di voi, Sivori; se ne parla non solo come di un benefattore ma come di uno di noi, della nostra famiglia che sia lontano.

«Già, un fratello! – io gridavo a me stesso: – Ortensia vuol dire che non mi ama più e che non mi amerà mai più!»

E con tutto ciò, con tutti questi contrasti, io… non me la prendevo con Sant'Antonio! Ne consultavo il lunario e senza ironia me ne ripetevo le parole: «Tutto il male non viene per nuocere. Bisogna aver fiducia nell'avvenire».

Quali dunque le cause o la causa del mio mutamento? Forse all'intendimento della vita e all'elevazione dell'animo il dolore può anche più dell'amore? E una notte feci questo sogno:

Nella vecchia chiesa del paese, ove fanciullo io avevo pregato a fianco di mia madre, si celebravano nozze solenni. Il Biondo gongolava; la Rita piangeva di gioia… Poi la chiesa con tutta la gente scomparve, e vidi una nota camera: Ortensia, con me, entrava pallida e arridente sposa nella camera dove mia madre era morta.

II

Verso la fine d'aprile ricevei una lettera di Claudio per la quale mi convinsi sempre più che la fortuna lusingava e confermava le mie speranze.

Mi giungeva quella lettera in un giorno così luminoso di primavera! Leggendola su la porta di casa, con avanti a me il prato pieno di fiori, mi balzava il cuore quasi a un portento.

 

Claudio mi pregava d'informarmi, con prudenza, se davvero si era costituito in Bologna un consorzio delle fabbriche di laterizi poste su le rive del Reno, e se davvero cercavano un direttore. Solo nel caso che queste notizie, da lui avute in segreto da un antico cliente, fossero certe, io avrei dovuto presentarmi al proprietario d'una delle fabbriche, che egli mi nominava, e fare il suo nome.

Come se tutto ciò fosse più che sicuro, e Moser già prescelto all'ufficio desiderato, pensai che i Moser verrebbero a dimorare vicino a me, a un'ora e mezza di viaggio. Figurarsi con che fretta corsi a Bologna!

Le notizie non erano del tutto conformi al vero. La concorrenza, che aveva rovinato Moser, angustiava anche nell'Emilia gli industriali in laterizi, e tra essi era corso il progetto di un concordato.

Ma due o tre dei più potenti non avevano ancora acconsentito e non parevano ben disposti. Perciò quelli che avevano fabbriche presso Bologna vagheggiavano una società fra loro. Le cose erano solo a questo punto quando io con un biglietto di presentazione, prudentemente richiesto ad un amico, mi recai dall'industriale nominato da Moser. Ma non ero un diplomatico, io, quale il cavalier Fulgosi; e dovendo dar ragione della mia visita, sostituii l'audacia alla prudenza e dissi a dirittura che l'ingegner Moser non sdegnerebbe assumere la direzione tecnica della nuova società, se si costituisse.

– Moser? – esclamò il mio interlocutore – Moser che aveva la fabbrica a Valdigorgo? Quello che ha perfezionati i forni Hoffman?

Avevo fatto colpo. Subito dopo, l'altro cercò di attenuare in me l'impressione della sua meraviglia osservando, con bel garbo, che il fallimento del mio amico non lo raccomandava troppo… Opposi che Moser non si raccomandava quale amministratore, sebbene io sapessi che la colpa della sua sventura economica non era tutta di lui: si raccomandava come tecnico; e non dubitavo che qualche industriale di Lombardia o Piemonte non tarderebbe ad approfittare dell'opera sua. L'interlocutore fece una smorfia. In conclusione, dopo la visita e l'inchiesta, potei scrivere a Claudio un modesto: «Chi sa?». Ma non potevo credere che il nome e l'offerta di Moser dovessero affrettare la costituzionale della società anonima: Fabbriche di laterizi in Valrenana.

Un telegramma mi richiamava a Bologna pochi giorni di poi. Si voleva sapere da me se mai… se nel caso poco probabile, del resto, che si componesse la società… l'ingegner Moser avanzerebbe pretese molto alte…: quale direttore tecnico… solo tecnico… Una domanda quasi per semplice curiosità: senza impegno! senza impegno!

Risposi che se la intendessero con lui; e s'intenderebbero forse… (io almeno lo credevo… speravo…) s'intenderebbero facilmente.

Passarono alcuni altri giorni senza che sapessi più nulla in proposito; finchè una cartolina di Claudio mi annunciava che egli veniva a Bologna a concluder l'affare.

Chi l'avrebbe mai detto? Costì, di dove partii per cominciare a far soldi, ci vengo par ricominciare!

Ma io non potei andar a Bologna nè egli recarsi a Molinella; non ci vedemmo.

Altro silenzio; un silenzio tuttavia pieno di questa attesa: «verranno tutti a Bologna!»

Per un po' di tempo parve invece che Claudio volesse stabilirsi a Bologna solo, ed Eugenia, Ortensia e Mino dovessero far famiglia con Guido e Marcella. Finchè Eugenia mi scrisse:

Ortensia non vuol restar lontano da suo padre. Non le importa affatto di abitare in città anche d'inverno. Aiutate Claudio a trovar una villetta per noi, in un sobborgo vicino al luogo dove Claudio avrà l'ufficio.

Feci subito ricercare un'abitazione, che convenisse, nel suburbio a destra del Reno.

E non trovai. Ma Claudio, nei pochi giorni che precorsero alla sua assunzione all'impiego, cercò e trovò: una, villa – egli mi scriveva – a poco più di un chilometro dalla fabbrica ove risiedeva l'ufficio principale. Neanche distava molto dal sobborgo, ove Mino andrebbe a scuola; ed era prossima alla ferrovia, alla strada carrozzabile, alle botteghe, alla chiesa; e, quel che più importava, in bella e buona posizione, quantunque in pianura, e tutta rimessa a nuovo. Sembrava l'avessero fatta a posta per lui! Si chiamava nientemeno che la Ca' rossa!

E come Dio volle, cioè ai primi di maggio, mi fu annunciata la partenza dei Moser da Milano.

Ortensia a Bologna! Potrei vederla! rivederla di frequente!.. – E Roveni? – Ah che la mia consolazione era tale da lenirmi la spina che avevo nel cuore!

Non ero esente da ogni timore, ma la mia gioia era tanta da rappresentarmi il pericolo di Roveni come sempre più dubbio.

Quando Ortensia fosse vicina a me la difenderei meglio e mi difenderei meglio!

Mi giustificava, in ciò, la passione, m'illudeva la speranza d'aver abbastanza sofferto per mitigare il mio destino; l'energia ricuperata mi pareva bastevole a superar il destino, se mai mi tornasse avverso!

III

La prima domenica di maggio vidi la Ca' Rossa nella realtà, priva della poesia con cui me l'aveva descritta Moser. Di lontano, dalla strada, appariva quale una vecchia casa di campagna messa a uso di villeggiatura e ritinta, se non di rosso, di gialliccio. Vi piombai inatteso durante l'intervallo fra due corse del tram a vapore. A scorgermi dal cancello – un cancello di legno – Mino, che giuocava alle bocce con un operaio, gridò: – C'è Sivori! c'è Sivori! – ; e Claudio, che assisteva alla partita, fumando, mi corse incontro anche lui; mi furono addosso, con abbracci soffocanti.

– Un saluto in fretta… – rispondevo a quell'aggressione gioiosa. – Ho un malato grave laggiù… Non posso trattenermi…

– Eugenia! Ortensia! Correte!; se no, scappa! – urlava Claudio.

– C'è Sivori! Sivori! – urlava Mino correndo intorno e tornando ad abbracciarmi.

Non ci eravamo visti da tanto tempo, noi due! Com'era cresciuto, il piccolo Mino! La commozione della nostra amicizia scusava il turbamento con cui mi presentavo a Eugenia ed Ortensia.

Erano uscite per la loggia, da una camera a terreno, ove scorgevasi della biancheria distesa su una tavola: Eugenia con un oh! di grata meraviglia; Ortensia pallida… Nulla dell'impeto mal represso con cui era venuta a me a Valdigorgo; era pallida, quasi stanca, e mesto il sorriso.

– Come state, Sivori?

– Sapete che non vuol restar da noi oggi? – riprendeva Claudio. Ed Eugenia e Ortensia a una voce:

– Perchè?

– Perchè, perchè un povero diavolo laggiù ha bisogno del suo permesso per andare all'altro mondo! Gli credete? a costui?

– Sì – rispose, naturalmente, Ortensia.

– Non insistiamo – disse Eugenia – , se ci promettete di tornar presto.

Avrei voluto indugiarmi a discorrere con le signore; ma Claudio mi trascinò seco.

– Andiamo dunque! presto! a dare il tuo giudizio della Ca' Rossa, che ho scoperta io e non tu! Cominciamo, signor critico, dall'esterno.

Intanto Mino aveva ripresa la partita; e madre e figlia ci accompagnarono un tratto ma ristettero dinanzi a pochi meschini vasi di gerani al sole.

– Il panorama non è molto vario – ammetteva Claudio. A levante erano la strada e l'ingresso; a mezzodì, di là dal prato, che una siepe di biancospino in fiore limitava, si estendeva la vigna: tra questa e l'orto, spaziante a ponente e a settentrione, scendeva una carraia…

– La carraia passa da quella casupola laggiù, dove sta l'ortolano vignaiuolo: colui, là, che gioca con Mino. E la carraia prosegue sino al fiume, e di là un sentiero lungo la riva mi conduce, in due passi, alla fabbrica. Potevo essere più fortunato di così?

Io osservavo il solo albero del prato: un lazzeruolo a rami nodosi e involti.

– Fronte indietro!

Claudio ora m'indicava la disposizione degli ambienti.

– A terreno, loggia, salotto, camera da desinare, cucina; di sopra, a mezzogiorno, la camera di noi vecchi; quella di Mino, a ponente; quella di Ortensia, a levante; quella dei forestieri, a nord. Va bene? Passiamo all'interno!

Su la porta l'ortolano trattenne Claudio per avvertirlo di non so che cosa, ed Eugenia, ch'era rientrata con Ortensia a continuar la faccenda della biancheria, colse il momento e mi disse, con commozione: