Czytaj książkę: «Relación entre los teatros español e italiano: siglos XVI-XX»
COLECCIÓN PARNASEO
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Colección dirigida por
José Luis Canet
Coordinación
Julio Alonso Asenjo
Rafael Beltrán
Marta Haro Cortés
Nel Diago Moncholí
Evangelina Rodríguez
Josep Lluís Sirera
RELACIÓN ENTRE LOS TEATROS ESPAÑOL E ITALIANO: SIGLOS XVI-XX
ACTAS DEL SIMPOSIO INTERNACIONAL
CELEBRADO EN VALENCIA
(21-22 NOVIEMBRE 2005)
Editores:
Irene Romera Pintor
Josep LLuís Sirera
©
De esta edición:
Publicacions de la Universitat de València
y los autores
Enero de 2007
I.S.B.N: 978-84-370-6668-4
Diseño de la cubierta:
Celso Hernández de la Figuera y J. L. Canet
Publicacions de la Universitat de València
publicacions@uv.es
Parnaseo
Esta edición se incluye dentro del Proyecto de Investigación del Ministerio de Educación y Ciencia, referencia HUM2005-01334, y la Acción complementaria del MEC: HUM2005-23860-E
Realización ePub: produccioneditorial.com
Relación entre los teatros español e italiano : siglos XVI-XX : actas del simposio internacional celebrado en Valencia (21-22 noviembre 2005) / editores: Irene Romera Pintor, Josep Lluís Sirera Valencia : Publicacions de la Universitat de València, 2007 180 p. ; 17 × 23,5 cm. — (Parnaseo ; 5) (corresponde a la versión impresa) Índice ISBN: 978-84-370-6668-4 1. Teatro castellano - Congresos Teatro Italiano - Congresos 821.134.2-2.09(063) España - Relaciones - Italia Italia - Relaciones - España 821.131.1-2.09(063) 2. Romera Pintor, Irene, ed. lit. y Sirera, Josep Lluís (1954- ), ed. lit. |
Presentación
Los historiadores del teatro español se han mostrado tradicionalmente poco proclives a estudiar la historia teatral hispana en su contexto europeo y, cuando lo han hecho, se han dejado llevar por las relaciones más evidentes (con el teatro francés, por ejemplo), dejando en un segundo plano otras igualmente significativas. Es verdad que la situación ha experimentado cambios importantes en las últimas décadas, pero aún así es mucho el camino que todavía hay que recorrer para llegar a un conocimiento cabal de nuestro teatro en ese marco europeo en el que siempre se movió desde sus mismos orígenes.
Un buen ejemplo de esto, es lo que sucede en el campo de las relaciones entre los teatros español e italiano: el interés que despiertan épocas muy concretas (como el siglo XVI o el primer tercio del XX), contrasta con lo poco que se ha avanzado en los últimos años en el conocimiento de esas relaciones en muchas otras: el siglo XVII, el XIX o, incluso, en la actual.
Por fortuna, el mutuo desconocimiento que reflejan esas carencias se está tratando de superar mediante iniciativas como el presente Simposio, o mediante la inclusión, en los congresos dedicados a estudiar una de las dos historias teatrales implicadas, de especialistas en la otra. Quiero destacar, a este respecto, el ejemplo de treinta congresos organizados por el Centro Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale; en efecto, desde el primer momento su director, el doctor Federico Doglio, se preocupó por confeccionar programas en los que tuviesen cabida no solo especialistas en teatro clásico e italiano, sino también en historia del arte, en musicología y, significativamente, en otros teatros: el inglés, el francés y el español muy en especial.
El Simposio, cuyas Actas ahora editamos, nació precisamente con una voluntad de avanzar en ese camino de mutuo conocimiento que encontramos en los Convegni del CSTMR, no ciñéndose —eso sí— a las épocas más transitadas y a los autores más evidentes, sino abriendo las puertas a nuevas líneas investigadoras y buscando motivos comunes de reflexión.
Tanto la Doctora Romera Pintor como yo mismo, en cuanto organizadores del Simposio y editores de las Actas, confiamos en que la iniciativa no caerá en saco roto (ni en nuestra península ni en la vecina), para poder así avanzar en el estudio conjunto de dos patrimonios teatrales (el español y el italiano) de extraordinaria riqueza, menos conocidos de lo que se merecen y con unas conexiones mayores de lo que se piensa.
Es de justicia indicar aquí, para concluir, que este Simposio, y la publicación de las correspondientes Actas, ha sido posible gracias a la ayudas recibidas del Vicerrectorado de Política Científica de la Universitat de València, de la Facultat de Filologia de dicha universidad, de sus Departamentos de Filología Española y de Filología Francesa e Italiana y de la Secretaría de Estado de Universidades e Investigación del Ministerio de Educación y Ciencia.
Josep Lluís Sirera
Universitat de València
Premessa
Per prima cosa sento il dovere di ringraziare il mio esimio collega, Professor Josep Lluís Sirera Turó, Cattedratico di Letteratura Spagnola presso l’Università di Valencia, per la squisita disponibilità e, soprattutto, per avermi dato l’opportunità di ‘co-dirigere’ questo Convegno Internazionale, il cui tema —tanto ambizioso come entusiasta— abbraccia non meno di cinque secoli di rapporti ed interscambi teatrali tra Italia e Spagna. Il Convegno ha permesso di offrire ai nostri studenti —ai quali era in particolar modo destinato, soprattutto a coloro che approfondiranno la conoscenza dell’appassionante mondo del teatro— la possibilità di essere accompagnati per mano in questo viaggio panoramico da specialisti di primo ordine.
Desidero altresí far presente che, aldilà di un grande motivo di soddisfazione personale, è stato per me un vero piacere poter collaborare con il Professor Sirera. Il risultato di tale collaborazione è che questo Convegno internazionale costituisce un ulteriore passo avanti nel porre in relazione questa ampia ed ancestrale tradizione, che lega la Spagna all’Italia, con il coinvolgimento di due dipartimenti dell’Università di Valencia.
È stato un grande privilegio poter riunire, presso la nostra Facoltà, Professori ed eminenti studiosi di diverse Università, di elevata rinomanza all’interno che all’esterno dei rispettivi paesi. Il Convegno era articolato in cinque sessioni di lavoro, ognuna delle quali dedicata ad un secolo. Ad ogni seduta hanno partecipato tre specialisti del settore: di cui uno proveniente da una Università straniera, e gli altri dal Dipartimento di Filologia Spagnola e da quello di Filologia Francese ed Italiana dell’Università di Valencia.
Il Professor Renzo Cremante, Cattedratico di Filologia Italiana presso l’Università di Pavia e Direttore del Centro di Ricerca sulla tradizione manoscritta di autori moderni e contemporanei di Pavia, ha aperto brillantemente i lavori del Convegno con un’esposizione molto erudita, e per questo apprezzata, e talvolta amena su «Esperienze di un commentatore di testi tragici italiani del Cinquecento».
Successivamente il Preside della nostra Facoltà, Professor José Luís Canet, ci ha intrattenuto con il suo ingegnoso studio sugli intrecci su «El humanismo cristiano: trasfondo de las primitivas Comedias». La mattinata di lavori è terminata con la mia relazione «Heroínas giraldianas frente a frente».
Nella sessione dedicata alla prima metà del XVII secolo, i Professori Giuseppe Mazzocchi e María Bayarri, hanno illustrato, ognuno, dalla propria ottica, i diversi aspetti di questo secolo così ricco di innovazioni e proposte teatrali. Nella seconda parte del pomeriggio, i professori Isabel Pascual e Fernando Melgosa hanno analizzato le varie forme del teatro spagnolo ed italiano del XIX e XX secolo: la prima soffermandosi sulla presenza di un tema italiano nella scrittura di una drammaturga spagnola del XIX secolo: Rosario de Acuña; ed il secondo trattando del teatro-canzone italiano della seconda metà del XX secolo.
La giornata si è conclusa con una suggestiva Tavola rotonda, che verteva sul tema: «Estado actual de las publicaciones sobre teatro español e italiano en Italia y España. Perspectivas de futuro» (Stato attuale delle pubblicazioni sul teatro spagnolo ed italiano in Italia e Spagna. Prospettive per il futuro). La Professoressa Myriam Chiabò, Direttrice del Centro di Studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, è intervenuta, parlando consapevolmente della situazione italiana per la sua ampia esperienza come responsabile dei prestigiosi convegni —che sono stati organizzati e realizzati in diverse città italiane, tutte emblematiche, come: Viterbo, Vicenza, Agnani e Roma, dal Centro di studi sul Teatro Medioevale e Rinascimentale, del quale è Presidente il Professor Federico Doglio—.
La seduta del secondo giorno è iniziata con i precisi e documentati interventi dei Professori Ricardo Rodrigo e Juli Leal, che hanno disquisito sui continui contatti tra Francia, Spagna ed Italia per tutto l’arco del XVIII secolo, concentrandosi principalmente sulle figure di Moratín e Goldoni.
Il Professor Rinaldo Froldi, per il quale non serve alcuna presentazione, né in Spagna né in Italia, ha messo al servizio di tutti la sua profonda conoscenza del teatro spagnolo svelando alcuni aspetti poco conosciuti degli interscambi teatrali tra Spagna ed Italia nel XVIII secolo: «Apuntes en torno a algunos intercambios teatrales entre España e Italia en el siglo XVIII».
Il Professor Josep Lluís Sirera con la relazione su «Otro teatro europeo sobre los escenarios españoles: Marco Praga y Roberto Bracco», due autori italiani di teatro dell’Ottocento e del Novecento, ha dato una visione completa e precisa delle attività teatrali di entrambi in Spagna.
Il Convegno si è concluso con gli interventi del Professor Manuel Gil Esteve, che ha fatto un’attenta ed intelligente disamina su «La alienación va al teatro y se hace cine: un personaje en busca de autor»; del Professor Manuel Diago, che ha presentato una divertente prospettiva dei «Gringos, tangos, cocoliches, el inmigrante italiano en el teatro argentino», e del Professor Joaquín Espinosa, che ha analizzato con arguta sottiglienza «La transposición al cine de textos pirandelianos en Questa è la vita».
Il Convegno, inoltre, è stato arricchito da vivaci dibattiti che si sono aperti sulle singole conferenze, ai quali hanno partecipato attivamente i vari specialisti presenti, sviluppando così un interessante, ma soprattutto importante, Lavoro d’insieme.
Irene Romera Pintor
Università di València
S. XVI
Humanismo cristiano, trasfondo de las primitivas comedias*
José Luis Canet
Universitat de València
Muchos son los críticos que han difundido la idea de que las primitivas comedias (me refiero a las comedias humanísticas latinas y las primeras comedias en vulgar del Cuatrocientos e inicios del Quinientos) poseen un alto contenido erótico y licencioso, lo que para ellos es síntoma de una clara relajación de costumbres, de ahí que las incluyan en el saco de un humanismo que abandona la idea de Dios para centrar su interés en el hombre.
Y, claro está, si analizamos superficialmente los temas y argumentos de dichas comedias, no es descabellado pensar que efectivamente sea así. Algunas describen el ambiente estudiantil de las grandes ciudades universitarias, en donde los criados urden argucias para engañar y conquistar meretrices para sus amos (Paulus); otras, a las que se las relaciona con las farsas goliardescas y la novelística, describen los engaños y burlas a los que son sometidos ciertos frailes y clérigos homosexuales (Janus sacerdos, De Falso Hypocrita); pero la inmensa mayoría trata el tema del amor, bien escenificando la malcasada que se lamenta de sus desdichas conyugales e intenta remediarlas con amores extraconyugales (Cauteriaria, De Cavichiolo, Fraudiphila, etc.), bien mostrando la conquista de una joven muchacha mediante argucias de criados y alcahuetas (Poliscena, Philogenia, Dolos, Poliodurus, etc.). Otro grupo posterior, correspondiente a la segunda mitad del xv, enlaza mucho más con las comedias plautinas, mostrándonos los amores de muchachos y muchachas que terminan en anagnórisis final y la consecuente realización de bodas (Epirota, Stephanium, Dolotechne, Annularia, etc.).
Pero vayamos por partes. De todos es sabido la utilización de las comedias de Terencio y Plauto en la enseñanza escolar y universitaria y su gran influjo en la literatura del Cuatrocientos y Quinientos a partir del descubrimiento del códice que contiene el comentario de Donato a Terencio hecha por Giovanni Aurispa en 1433,1 y la puesta en circulación del códice con nueve comedias de Plauto por Nicolò Cusan hacia al final del tercer decenio del Cuatrocientos. No es de extrañar que la mayoría de las comedias humanísticas latinas incluyan en su interior citas de estos autores romanos, llegando muchas veces a emular la fórmula compositiva con la inclusión de sentencias, personajes, temática, etc. Por ejemplo, en la comedia Chrysis de Eneas Silvio, hay sesenta citas de Plauto y Terencio. Pero lo mismo encontramos en la Poliscena, las siete comedias de Frulovisi, etc.
Por tanto, gran parte de la comedia humanística latina nace y se desarrolla en el ambiente escolar–universitario. Algunas son meros ejercicios escolares realizados por estudiantes en los últimos años de su licenciatura; otras escritas para festividades o regocijos del propio ambiente estudiantil. Pero el grupo mayoritario está pensado y escrito para la actividad docente, como reglas de composición y aprendizaje de la lengua latina, así como modelos de conducta ética. De ahí que la mayoría de los autores indiquen en sus prólogos que las escribieron corrigendo mores. Además, muchos de los profesores las utilizan en sus clases y crean modelos diferenciados según se van descubriendo y estudiando las retóricas. Se llega, incluso, a utilizarlas, como hará Pietro Domizi, en la enseñanza religiosa y como modelo de educación de la nobleza (fue preceptor de las familias más nobles de Firenze). Para ello, Domizi modificará sustancialmente la temática e incluso la estructura a causa de su finalidad moralizante y didáctica.2
Podríamos pensar que los autores en sus prólogos mienten descaradamente e introducen la argumentación moralizante y de corrección de costumbres para justificarse ante las autoridades civiles y religiosas (como han insistido innumerables críticos), o que realmente la educación dejaba mucho que desear en dicho periodo histórico, pues se inducía a los jóvenes a realizar el acto venéreo con muchachas inocentes y vírgenes o con mujeres casadas. Y finalmente, si estos profesores, que utilizaban las comedias latinas y humanísticas en la función docente, tenían una doble vida: por un lado escribían tratados morales y religiosos, y por otro incitaban a la juventud a contravenir todas las normativas civiles y religiosas.
Algunas de estas cuestiones intentaré responderlas en este trabajo, y para ello me centraré en dos comedias latinas: Poliscena y Poliodorus, y en La Celestina y algunas de sus continuaciones, como modelos de la evolución de la comedia humanística latina a la lengua vulgar, sin perder por ello algunas de las características que hemos venido desgranando.
La Poliscena, atribuida durante cierto tiempo a Leonardo Bruni, sin embargo pertenece a Leonardo de la Serrata y fue escrita en 1433.3 Es la comedia humanística que se nos ha transmitido con más testimonios: además de la decena de ediciones impresas a fines del siglo XV y comienzos del XVI, disponemos hoy de 34 códices.4 La comedia se inicia con el clásico argumento de la obra:
Un joven de nombre Graco —hijo de un viejo llamado Macario, que se sacrificaba trabajando en su finca—, un día que iba al templo de los dioses, vio a Poliscena, muchacha de hermosa apariencia, hija de Calpurnia, y en cuanto puso en ella sus ojos, se encendió de una súbita pasión. Pronto estaba revelándole su amor a su muy fiel sirviente Gurgulión, con cuya intervención creía que iba a poder disfrutar de los encantos de Poliscena. Pero dado que Gurgulión no obtuvo ningún resultado, Graco se acercó a una vieja a la que mantenía en su casa, llamada Taratántara, prometiéndole muchas cosas, con el propósito de que ella prestara ayuda y asistencia a su amor. Esta se dirige primero a Calpurnia y después a Poliscena, y con admirable astucia consigue llevar al fin deseado aquello que le había sido encomendado. Este es el resumen de la comedia, pero el poeta lo expande de manera admirable.5
Sin embargo, en la edición de 1478 junto a las obras de Terencio, se incluye un Prólogo moralizante:
Acuso a las madres: que no lleven a sus hijas a mirar el esplendor de los santos varones o grandiosos espectáculos, a las cuales la extravagancia y el lujo intriga para corromper.
Corrijo los hábitos de sirvientes y alcahuetas inútiles: que no permitan a los amos extraviarse tras asuntos deshonestos, o engañándoles malvadamente con palabras falsas les induzcan a vender su patrimonio para pagar a alcahuetes.
Me gustaría advertir a los padres: que no den oportunidad de que se perviertan los hijos, para que la vejez no les oprima al final, a causa de no haber sabido dirigir a sus vástagos.
Continúa leyendo. Aunque me complace ser un poeta cómico, no desdeñes creer las cosas que mi musa señala, oh lector!
A simple vista, trata sobre los amores del joven Graco por Poliscena, a quien apenas ve oculta por el velo en el templo se enciende de pasión. A partir de este momento, el galán se comporta como cualquier enamorado de las comedias, intentando convencer a su criado para que le ayude a conseguirla:
GRACO.— Acabo de encontrar, en verdad, una nueva ave que cazar, siempre que me ayudes tú, que sé que tienes una gran astucia natural para estas cosas. (...) Ayer, al salir el sol, me dirigía —como lo manda la religión— a presenciar el sagrado sacrificio; allí casualmente veo a una muchacha… ¡ah! (...) Aunque debido al velo que la cubre no puedo observarla muy bien, he aquí que, mientras la miro una y otra vez, por una abertura que por un lado deja su velo brillan a la vista de todos sus resplandecientes mejillas. (...) ¿Para qué decir más? Quiero que se me la dé como esposa, o si no tenerla por otro medio.
Como se puede comprobar, algo similar le ocurrirá a Calisto con su súbito enamoramiento por la simple visión de Melibea, e incluso con la idea de la conquista de la joven comparándola con la caza de las aves. Recordar simplemente la frase que le dedica a Melibea cuando la desnuda en el huerto: «quien quiere comer el ave, quita primero las plumas», o el primer encuentro con la joven cuando estaba cazando e iba «empos de un falcón suyo».
Pero el criado Gurgulión ve el peligro de dicha relación e intenta por todos los medios apartar a su amo de ella, puesto que:
GURGULIÓN.— [...] hay muchas trabas para llegar a poseerla: en primer lugar, tu severo padre; luego, la muchacha, que no tiene experiencia meretricia y a la que es peligroso seducir con palabras engañosas; por último, su dominante madre. Y si esto no se hace con astucia y llega a ocurrir que tu padre se entera, ¡ay!, qué de castigos caerán sobre nosotros. Por otra parte, no tienes nada que darle a la muchacha, excepto promesas de montañas de oro.
Pero también porque, como indica el propio criado:
¿Crees, en realidad, que es justo deshonrar con el estigma del estupro a una muchacha que no está unida en matrimonio con uno?
Ya tenemos definido el acto que intenta cometer el galán enamorado, el «estupro», contraviniendo así las normativas civiles y religiosas, y sin poder poner como atenuante desconocimiento de causa, lo que podía acarrearle la pena capital, según expone la madre de Poliscena:
CALPURNIA.— Le comunicaré que la ley establece que quien ha violado a una muchacha debe casarse con ella sin recibir dote; de lo contrario, como usurpador de su virginidad, es castigado con la pena capital.
El parecido con la Celestina es bastante obvio y hay muchas similitudes temáticas que podemos resumir en: amor apasionado a primera vista; justificación por parte de galán del deseo imperioso de conseguir a la dama; petición de ayuda a sus criados, los cuales arguyen en su contra mostrándoles los peligros de dicha relación; ante la obstinación del galán por seguir en su empeño, buscan una medianera que allane el camino; y finalmente, la consecución de las jóvenes muchachas porque ellas tienen tanto o más deseo que los hombres en gozar del placer y se quejan de su condición.6 Pero también son similares los debates entre criados y amos y entre muchachas y medianeras, en donde se muestra claramente que el amor descrito es puramente sexual, así como otras argumentaciones al uso sobre como nace dicha pasión (como los temas clásicos ovidianos en boca de Taratántara, la medianera: «...lo que ocurre es que con el ocio y la comida suntuosa se enciende la pasión y aumenta el deseo»). Pero sobre todo, estas comedias incluyen una serie de sentencias clásicas en boca de todos los personajes, sean de la condición que sean; se entrelazan citas terencianas y morales en boca de amos, criados de baja alcurnia, medianeras, etc., muchas veces utilizadas como argumento in contrario para satisfacer las más bajas pasiones. También se incluyen en los parlamentos críticas más o menos veladas a ciertas costumbres de los padres, causantes indirectamente de estos amores clandestinos. Se insiste, sobre todo, en que «la autoridad absoluta es a menudo la mayor imprudencia», y se critica que las madres estén continuamente fuera de casa, como dice la medianera refiriéndose a Calpurnia, madre de Poliscena, haciendo continuamente las beatas: «Sí, porque esa marimacho inútil debe de estar corriendo de acá para allá, como acostumbra, para visitar los templos de los dioses». Algo similar sucede con Melibea, cuya madre la deja sola al visitar los templos o realizar obras de caridad, lo que permite que Celestina entre en la casa y la convenza para dar el paso definitivo a la realización del deseo amoroso.
El Poliodorus de Juan de Vallata7 fue compuesta alrededor de 1445, cuyo único manuscrito conservado se encuentra en la Biblioteca Colombina de Sevilla, en donde también se hallan las únicas ediciones conservadas de Hércules Floro, otro humanista y profesor de Perpiñán, quien escribió la tragedia Galathea y una comedia, Zaphira, utilizadas en la docencia.8
La comedia se inicia con «La carta dedicatoria», que cumple la función de prólogo, dirigida a Tomás, protector suyo, quien le habría incitado a componer la obra. En esta carta, Juan de Vallata declara que su comedia no merece tal nombre por su falta de méritos literarios, incluyendo así la usual captatio benevolentiae. Como indica Antonio Arbea: «Otras piezas del género ofrecen también este motivo en sus prólogos. Antonio Barzizza, por ejemplo, en el prólogo de su Cauteriaria, pide excusas por los yerros de su obra, advirtiendo que ha debido escribirla muy apresuradamente (quanta potui celeritate rem ipsam descripsi), porque debía atender a los estudios jurídicos, por los que había ido a Bolonia». Algo parecido justifica Rojas en el «Autor a su amigo», en donde nos informa que encontró unos papeles que decidió continuar por ser «dulce en su principal ystoria o fición toda junta, pero aun de algunas sus particularidades salían delectables fontezicas de filosophía; de otras, agradables donayres; de otras, avisos y consejos contra lisonjeros y malos sirvientes y falsas mugeres hechizeras...» y justifica el «fin baxo que le pongo, no espresare el mío —mayormente que, siendo jurista yo, aunque obra discreta, es agena de mi facultad (...) antes, distraydo de los derechos, en esta nueva lavor me entremetiese. Así mismo pensarían que no quinze días de unas vacaciones (...) en acabarlo me detoviesse, como es lo cierto...»
El argumento de la obra trata de los amores de Poliodoro, joven noble y adinerado, con Climestra, una muchacha de origen humilde y pobre. Consigue el galán los servicios de Calímaca, medianera astuta, que intenta convencer a Glauca, la madre de la joven, para que acceda a dichos amores prometiéndole muchos beneficios y dineros; la madre, al fin, da su consentimiento movida por su afán de lucro y tiene lugar el encuentro de los enamorados en la propia casa de Climestra. En acción paralela, Corinto, tío paterno de la muchacha, la ha prometido en matrimonio a su cuñado, el campesino Liburno. Al enterarse la madre de Climestra, informa de ello a su hija, y piden consejo a la medianera, la cual junto con Poliodoro deciden casar a la joven con el labrador, a quien el galán le pone a trabajar en una hacienda suya y así podrá gozar de la muchacha sin problemas una vez desposados. Climestra, para aceptar casarse con el labriego, impone un plazo de ocho días para poder gozar a sus anchas con Poliodoro, terminando la obra con la celebración de las bodas. Esta temática, de las bodas de la muchacha deshonrada con un labriego, generando la figura del cornudo contento, fue también el tema central de la Philogenia de Ugolino Pisani.9
La comedia se inicia con un soliloquio de Poliodoro en el que comenta la nueva pasión amorosa que le aqueja:
POLIODORO.— Yo creía que eran patrañas esas cosas que se dicen acerca del amor, pero ahora sé muy bien, por experiencia propia, cuán agudos son los dardos de Cupido. Ayer, después de la cena, mientras paseaba, como se acostumbra, por este barrio, me topé con una muchacha que sobresalía por su belleza, pero harapienta y desaliñada. Su visión me dejó pasmado de un modo enteramente extraño a mi naturaleza, y quedé cautivo del amor. Antes yo solía reírme de los que recibían las heridas del amor, sin saber qué cosa era amar; ahora sufro una severa herida que, me temo, ha penetrado también hasta mis huesos. ¡Oh, rostro delicioso!, ¡oh, dardos inmerecidos! Soy ya hombre muerto si no veo con estos ojos a la que ayer me salió al paso.
E incluye inmediatamente las características de su estado: desidia, sufrimiento, pérdida de la razón, etc., pero todo ello no es óbice para que encuentre por la calle a Calímaca, la alcahueta, a quien decide llamar y hacer como los demás galanes:
ya que yo también estoy sufriendo las vicisitudes del amor y he padecido sus heridas, haré lo que hacen los otros enamorados. En caso de que me pregunte, le voy a contar a esta vieja —que a todas luces ofrece buenas expectativas de alcahueta— que tengo un amor en este barrio; tal vez ella le pondrá remedio a mis aflicciones. Primero la voy a saludar.
Este recurso da las claves de su enamoramiento, pues inmediatamente sabe lo que necesita, conseguir a la joven que ha divisado harapienta pero hermosa. La alcahueta escucha la propuesta del galán, sus cuitas y deseos, por lo que decide inmediatamente ayudarle:
CALÍMACA.— Ya sé quién es, y tengo al alcance de mi mano el objeto de tu pasión. No es censurable el amor al que te has sometido: amas a la más hermosa no solo, por cierto, de este barrio, sino de la ciudad; ella es la flor y la gloria de las muchachas, ella es la red en que caen presos todos los galanes. Su nombre es Climestra (...) Sé bien, por una larga experiencia práctica, cómo es el carácter de las muchachas: mientras más estrechamente vigiladas se saben, tanto más tratan de desobedecer. Tú sólo encárgate de que ella se entere de que la amas y procura ganarte su afecto. Yo me haré cargo de neutralizar cualquier acción de la madre. Es muy difícil controlar con las riendas a un caballo enloquecido y que va al galope. ¿Quién ha podido, en realidad, atajar al amor?
Resaltan en este parlamento una serie de conceptos que se repetirán hasta la saciedad en la mayoría de estas comedias: el sometimiento del hombre a la mujer, la belleza como una red con que se vale el amor para hacer prisioneros a los hombres y, finalmente, como ya habíamos comentado antes en la Poliscena, que el mantener a las muchachas constantemente vigiladas y encerradas en contra de su voluntad es caldo de cultivo para su rebeldía y para querer gozar de lo prohibido. Aspectos que podemos rastrear perfectamente en la Celestina y otras comedias españolas.
Posteriormente da Calímaca una serie de consejos ovidianos para conseguir su amor: darle regalos a ella y a su madre (Ovidio hablaba de ganarse a las criadas):
¿Qué mujer hay, en efecto, a la que no seduzcan los regalos? Pero primero, si eres listo, debes ganarte a la madre. Llénala de regalos, porque si logramos granjearnos de algún modo su simpatía, tendremos fácilmente conseguidas las demás cosas.
Otro aspecto que clarifica la postura de muchas de las heroínas enamoradas posteriores que actúan con desdén frente a sus galanes y enamorados la explicita perfectamente la joven dama:
CLIMESTRA.— ¡Qué intensamente estoy sufriendo en este momento, desdichada de mí! Amo perdidamente a ese muchacho, y como temo que mi amor quede al descubierto, me muestro severa y dura, más allá de lo que corresponde. De ese modo, no solo quedo descontenta conmigo misma, sino que también le hago pasar un mal rato a mi madre, y provoco que Poliodoro con toda razón me odie. He vivido, además, aterrorizada de mi madre, que siempre ha tenido la costumbre de vigilar y criticar todos mis actos, pero que ahora me parece que, de dura e inflexible que era, se ha vuelto condescendiente y razonable. ¡Oh, cuánto lamento no haber escuchado antes estas advertencias! (...) Hay una sola cosa que atormenta profundamente mi corazón: temo que, por culpa de mis tonterías, Poliodoro haya desestimado la posibilidad de enamorarse de mí, y considere que soy demasiado tosca e indigna de él. En parte, sin embargo, me consuela y me hace alentar alguna esperanza respecto a él la idea de que haya pensado que yo hice todo eso no por rudeza, sino por una costumbre natural de las muchachas, según la cual suelen actuar como si no amaran a aquellos de los que están enamoradas, especialmente cuando puede surgir alguna sospecha de ello, o sea cuando están delante de sus padres y parientes (...) Si él vuelve otra vez, por supuesto que voy a enmendar todo mi error anterior, es decir, mi rudeza, y seré con él afectuosa, amable, graciosa, complaciente, y, si es posible, lo abrazaré, lo besaré y saciaré todo mi amor.