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P E R S E M P R E E O L T R E
(LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR — LIBRO 5)
S O P H I E L O V E
Sophie Love
Sophie Love, autrice di best-seller, è la scrittrice della divertente serie rosa LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR, che include sei libri (più altri in arrivo) e che inizia con ORA E PER SEMPRE (LA LOCANDA DI SUSNET HARBOR – LIBRO 1).
Sophie Love è autrice anche di una nuova divertente serie rosa, CRONACHE D’AMORE, che iniziano con AMORE COSÌ (CRONACHE D’AMORE – LIBRO 1).
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Copyright © 2017 di Sophie Love. Tutti i diritti riservati. Salvo per quanto permesso dalla legge degli Stati Uniti U.S. Copyright Act del 1976, è vietato riprodurre, distribuire, diffondere e archiviare in qualsiasi database o sistema di reperimento dati questa pubblicazione in alcuna forma o con qualsiasi mezzo, senza il permesso dell’autore. Questo e-book è disponibile solo per fruizione personale. Questo e-book non può essere rivenduto né donato ad altri. Se vuole condividerlo con altre persone, è pregato di aggiungerne un’ulteriore copia per ogni beneficiario. Se sta leggendo questo e-book senza aver provveduto all’acquisto, o se l’acquisto non è stato effettuato per suo uso personale, è pregato di restituirlo e acquistare la sua copia. La ringraziamo del rispetto che dimostra nei confronti del duro lavoro dell’autore. Questa storia è opera di finzione. Nomi, personaggi, aziende, organizzazioni, luoghi, eventi e incidenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono utilizzati in modo romanzesco. Ogni riferimento a persone reali, in vita o meno, è una coincidenza. Immagine di copertina Copyright Phase4Studios, utilizzata con il permesso di Shutterstock.com.
I LIBRI DI SOPHIE LOVE
LA LOCANDA DI SUNSET HARBOR
ORA E PER SEMPRE (Libro #1)
SEMPRE E PER SEMPRE (Libro #2)
SEMPRE CON TE (Libro #3)
SE SOLO PER SEMPRE (Libro #4)
PER SEMPRE E OLTRE (Libro #5)
PER SEMPRE, PIÙ UNO (Libro #6)
CRONACHE D’AMORE
AMORE COSÌ (Libro #1)
AMORE COLÀ (Libro #2)
INDICE
CAPITOLO UNO
CAPITOLO DUE
CAPITOLO TRE
CAPITOLO QUATTRO
CAPITOLO CINQUE
CAPITOLO SEI
CAPITOLO SETTE
CAPITOLO OTTO
CAPITOLO NOVE
CAPITOLO DIECI
CAPITOLO UNDICI
CAPITOLO DODICI
CAPITOLO TREDICI
CAPITOLO QUATTORDICI
CAPITOLO QUINDICI
CAPITOLO SEDICI
CAPITOLO DICIASSETTE
CAPITOLO DICIOTTO
CAPITOLO DICIANNOVE
CAPITOLO VENTI
CAPITOLO VENTUNO
CAPITOLO VENTIDUE
CAPITOLO VENTITRÉ
CAPITOLO VENTIQUATTRO
CAPITOLO VENTICINQUE
CAPITOLO VENTISEI
CAPITOLO VENTISETTE
EPILOGO
CAPITOLO UNO
“Papà?” ripeté Emily.
Fissò l’uomo che si trovava sul suo portico, un uomo che ormai riconosceva appena. I capelli grigi, quando un tempo erano stati neri. L’ombra di una barbetta sul mento. Grinze e rughe che gli segnavano il viso. Ma non poteva sbagliarsi. Era suo padre.
Perse le parole. Non riusciva a respirare.
Le pieghe agli angoli degli occhi di Roy si fecero più profonde quando sorrise. “Emily Jane,” rispose.
Fu allora che Emily seppe che era vero. Che lui era vero. Che era suo padre.
Salì i gradini più velocemente che poteva e si buttò tra le sue braccia. Si era immaginata quel momento così tante volte, chiedendosi come si sarebbe comportata se lui fosse mai tornato da lei. Nelle sue fantasie manteneva il controllo di sé, faceva la distaccata, si dimostrava superiore e non gli faceva percepire il dolore che le aveva causato la sua scomparsa, né il profondo sollievo che provava nel sapere che stava bene. Ma ovviamente la realtà era completamente diversa. Invece di dimostrarsi fredda gli avvolse le braccia attorno al collo e lo strinse come fosse stata ancora una bambina.
Lui era caldo, solido. Lo sentiva respirare forte – ogni espansione dei polmoni tradiva le sue emozioni. Emily si mise a piangere quasi subito. In risposta, sentì le lacrime di lui bagnarle le guance e il collo.
“Sei tornato,” riuscì a dire, con la voce rotta, giovane e vulnerabile come si sentiva lei.
“Sono tornato,” rispose Roy tra profondi singhiozzi. “Mi…”
Ma si bloccò. Emily istintivamente capì che la sola parola che poteva concludere la frase era “dispiace”, ma che suo padre non era ancora pronto a gestire il torrente di emozioni che un’affermazione del genere avrebbe scatenato. Non era pronta neanche lei. Ancora non se la sentiva di affrontare tanto dolore. Voleva solo vivere quel momento. Goderselo.
Perse la cognizione del tempo mentre si abbracciavano, ma sentì un improvviso cambiamento nel modo in cui suo padre la stringeva; i suoi muscoli si tesero come se d’un tratto si sentisse a disagio. Lei si scostò e si guardò alle spalle per vedere dove Roy teneva gli occhi puntati: su Chantelle.
Era sulla porta aperta della locanda, con aria disorientata come se stesse cercando di comprendere la strana scena che aveva davanti. Emily riusciva a leggere bene tutte le domande che aveva negli occhi. Chi è quest’uomo? Perché Emily piange? Perché lui è qui? Che succede?
“Chantelle, tesoro,” disse Emily allungando un braccio. “Vieni qui.”
Emily vide nell’esitazione di Chantelle una timidezza insolita.
“Non c’è niente di cui aver paura,” aggiunse.
Chantelle fece qualche passo verso Emily. “Perché mi guarda così?” disse in un sospiro che Roy sentì perfettamente.
Emily guardò il padre. Aveva gli occhi umidi colmi di confusione. Si asciugò le ciglia.
“Hai una figlia?” balbettò alla fine, con voce grossa di emozione.
“Sì,” disse Emily andando da Chantelle e tirandosela sul fianco, in un mezzo abbraccio. “Be’, è figlia di Daniel. Ma la cresco come farebbe una madre.”
Chantelle si aggrappò a Emily. “Mi porta via?” le chiese.
“Oh, no, no, tesoro!” esclamò Emily. “Lui è mio padre. Tuo nonno.” Allora voltò lo sguardo per incontrare gli occhi di suo padre. “Nonno Roy?” suggerì.
Lui annuì immediatamente. Sembrava rapito dalla bambina – gli occhi celesti brillavano di curiosità.
“Le somiglia tantissimo,” disse.
Emily capì immediatamente quel che voleva dire. Che Chantelle somigliava a Charlotte. Per forza aveva pensato che fosse figlia di Emily; talvolta anche lei faticava a credere che non fossero le caratteristiche genetiche di Charlotte quelle che si potevano leggere su Chantelle.
“Lo vedo anch’io,” confessò.
“Assomiglio a chi?” chiese Chantelle.
Emily pensò che la risposta fosse troppo per la bambina. Voleva chiudere subito la questione. Anche se si sentiva un agnellino indifeso sapeva che doveva farsi avanti e prendere il comando.
“A qualcuno che molto tempo fa conoscevamo, tutto qui,” disse. “Vieni; nonno Roy deve conoscere papà.”
D’un tratto Chantelle si illuminò. “Lo chiamo io.” Disse raggiante tornando dentro saltellando.
Emily sospirò. Capiva perché suo padre fosse così scioccato da Chantelle, ma qualcuno che la fissasse così – come fosse un fantasma – era l’ultima cosa di cui aveva bisogno la bambina.
“Sicura che non sia tua figlia biologica?” chiese Roy nell’istante in cui Chantelle fu sparita.
Emily fece di no con la testa. “Lo so, è folle. È anche sensibile come lei. E gentile. Divertente. Creativa. Non vedo l’ora che tu la conosca.” Allora le si bloccò la voce, dall’improvviso timore che Roy non sarebbe rimasto, che fosse solo una visita rapidissima. Forse lei non doveva neanche sapere che lui sarebbe venuto. Forse aveva pianificato di evitarla del tutto, di entrare e uscire prima che lei avesse modo di accorgersi che era tornato, come con i suoi viaggetti segreti sulla vecchia auto di cui Trevor era stato testimone dalla finestra. Si massaggiò dietro l’orecchio a disagio. “Cioè, se hai tempo.”
“Ho tempo.” annuì Roy, e gli apparve un piccolo sorriso sulle labbra.
Proprio allora tornò Chantelle, trascinandosi dietro Daniel. Lui si fermò sulla soglia e osservò Roy.
“Nonno Roy?” disse sollevando le sopracciglia, evidentemente ripetendo il nome che Chantelle gli aveva innocentemente detto.
Emily vide lo sguardo che si scambiarono e si ricordò di quanto Daniel le aveva detto su quell’estate in cui era un ragazzino e aveva bisogno di un amico, e di come Roy fosse stato lì per lui, lo avesse aiutato a tornare sui binari. In quel momento Emily comprese che il ritorno di Roy a Sunset Harbor aveva per Daniel quasi lo stesso significato che aveva per lei.
Roy porse a Daniel la mano. Ma, con sorpresa di Emily, Daniel la prese per poi stringerlo in un caldo abbraccio. Emily provò una strana fitta al petto, un’emozione particolare che stava tra la gioia e il dolore.
“Credo che Daniel tu lo conosca già,” disse Emily, ancora con voce rotta.
“Sì,” rispose Roy mentre Daniel lo lasciava, prendendolo invece per le spalle. Sembrava sopraffatto dall’emozione, sul sottile confine tra le lacrime di gioia e la risata di sollievo.
“Ci sposiamo,” aggiunse Emily, in modo un po’ sciocco.
“Lo so,” disse Roy con un sorriso che andava da un orecchio all’altro. “Ho letto l’email che mi hai mandato. Sono contentissimo.”
“Entri?” chiese Daniel a Roy, piano.
“Se posso,” rispose Roy, come temendo di poter non essere riaccettato nella vita di Emily.
“Ma certo!” esclamò Emily. Gli strinse forte la mano nel tentativo di comunicargli che andava tutto bene, che lì era voluto, accettato, che il suo ritorno per lei era un’occasione gioiosa.
Il viso di Roy assunse le linee del sollievo. Si rilassò visibilmente, come se un ostacolo che aveva avuto paura di affrontare fosse stato superato.
Oltrepassando la soglia, Emily improvvisamente capì che la casa che suo padre aveva abbandonato più di vent’anni prima non somigliava per niente a quella di un tempo. Era subentrata lei, l’aveva cambiata completamente, l’aveva trasformata da una casa di famiglia a una locanda. Si sarebbe arrabbiato?
“Abbiamo fatto qualche cambiamento,” disse rapidamente.
“Emily Jane,” rispose suo padre con voce gentile e ferma, “Lo so che vivi qui. Che adesso è una locanda. Va bene. Sono contento per te.”
Emily annuì, ma si sentiva ancora ansiosa all’idea di farlo entrare. Chantelle aprì la fila, e uno alla volta entrarono nell’atrio della reception, Roy ultimo della coda, con passo più lento e rigido di quanto Emily ricordasse.
Si fermò nell’atrio e si guardò intorno a bocca aperta dalla sorpresa e dalla meraviglia. Quando vide la scrivania della reception sgranò gli occhi.
“È…?”
“La stessa che hai venduto a Rico?” disse Emily. “Sì.”
La locanda in origine era una pensione, prima che i proprietari la abbandonassero. La storia di Roy nella casa rispecchiava quella di Emily al contrario. Lui aveva voluto che diventasse una casa per una famiglia, un rifugio per le vacanze estive. Emily l’aveva ritrasformata in una pensione, in un’attività.
“Non ci credo che l’abbia tenuta per tutti questi anni,” disse sorpreso, continuando a fissare la scrivania. Poi portò lo sguardo su Emily. “Ti ricordi il giorno in cui gliel’ho venduta?”
Emily scosse la testa silenziosamente.
“Non volevi proprio che la vendessi,” disse con una risatina. “Avevi messo una Barbie in ogni cassetto. Avevi detto che era l’ospedale delle bambole.”
“Credo di ricordarmelo, in effetti,” rispose Emily con un po’ di malinconia.
“Rico è stato gentilissimo,” aggiunse Roy. “Ti ha aiutata a ‘trasferire’ le tue ‘pazienti’ in un altro posto. Credo che tu abbia scelto la credenza sotto al lavandino.” Si fece anche lui un po’ pensieroso, e distolse l’attenzione dalla reception per tornare al rinnovo dei locali. “È davvero incredibile. Hai fatto un lavoro fantastico.”
L’orgoglio che gli sentiva nella voce le diede una scossa al cuore. Quel momento era molto più di quanto si aspettasse. Era perfetto.
“Vuoi fare un giro?” chiese.
Roy annuì. Emily lo condusse prima in cucina. Lì sentirono abbaiare i cani dalla lavanderia.
“Non so di che cosa occuparmi prima,” esclamò Roy osservando la cucina rimessa completamente a nuovo, con gli elettrodomestici e le decorazioni retrò. “Della meravigliosa ristrutturazione o del fatto che hai dei cani!”
“Lei è Mogsy e lui è Rain, il suo cucciolo!” annunciò Chantelle aprendo la porta della lavanderia per permettere ai due di correre in cucina.
Si precipitarono da Roy, annusandolo e cercando di leccargli le guance. Roy rise – le sottili rughe che aveva sul viso si fecero più pronunciate – e li grattò entrambi dietro alle orecchie.
“Di solito non lasciamo che corrano per la cucina,” spiegò Emily. “Ma dato che è un’occasione speciale…”
Le si spezzò la voce quando tornò la fitta di malinconia che aveva provato prima. Essere lì con suo padre non avrebbe dovuto essere “speciale”; era così perché lui se n’era andato.
Dalla sua posizione accovacciata lui alzò lo sguardo su di lei, con espressione colma di rimorso.
Tutto in una volta Emily provò una forte rabbia. Una parte di lei seppellita in profondità stava cominciando a risalire.
“Andiamo in sala da pranzo,” disse, di fretta, volendo evitare che emergesse.
Andarono nella stanza col grande tavolo di quercia. Roy notò subito che il pesante drappo che un tempo era appeso sulla porta della sala da ballo non c’era più.
“Hai trovato la sala da ballo,” disse.
Il commento irritò Emily ulteriormente. Non stavano mica giocando a nascondino. Sentì il calore salirle alle guance.
“L’ho trovata. L’ho ristrutturata. Presto mi ci sposerò,” disse mentre percorrevano il corridoio dal basso soffitto e uscivano nell’immensa sala.
Sentì la stizza trasparirle dalla voce e fece un respiro profondo per calmarsi.
“Be’, è bellissima,” disse Roy, ignaro della crescente rabbia della figlia o ancora restio ad affrontarla. “Mi sorprende che le vetrate colorate siano in condizioni così buone dopo tutto questo tempo.”
“Le ha restaurate George, l’amico di Daniel,” spiegò Emily.
“George?” disse Roy sollevando le sopracciglia. “Mi ricordo quando era alto così.” Si portò la mano all’altezza della vita.
Emily si accorse che Sunset Harbor era una città più di suo padre che sua, che conosceva la gente del posto meglio di lei, che negli anni in cui aveva vissuto lì aveva piantato più radici di quante potesse mai sperare di piantarne lei. Una gelosia tutta nuova si fece strada strisciando nel complesso misto di sentimenti che stava già cercando di tenere a debita distanza. Fece del suo meglio per mantenere in viso un’espressione neutra.
Dopo salirono al piano superiore, ed Emily mostrò a Roy la camera padronale, la stanza che una volta era sua e di Patricia e poi, presumibilmente, sua e di Antonia, quando la donna veniva a fargli visita, prima di diventare alla fine sua e di Daniel.
“Questa è fantastica,” esclamò Roy. “I colori sono freschissimi.”
A lui piacevano molto di più i colori scuri, quelle tonalità cremisi e blu che lei aveva usato per le camere degli ospiti. Il bianco brillante e il celeste chiaro andavano molto più incontro ai colori di sua madre, ed Emily, guardando camera sua, si accorse per la prima volta che i suoi gusti erano un misto perfetto di quelli di entrambi. Il debole di Roy per le antichità – il letto enorme, il mobile della toeletta, l’ottomana – e la pulizia di Patricia nei colori bianchi. A Emily parve di guardare la sua stanza con occhi nuovi.
“Camera mia è accanto,” disse Chantelle.
Emily fu sollevata dalla distrazione. Condusse Roy fuori dalla stanza fin dentro quella di Chantelle, dove lui ammirò il delizioso mobilio inciso con immagini di animali che Emily aveva comprato alla bambina. Chantelle danzava per la stanza, esibendo con orgoglio lo scaffale con i libri, il guardaroba pieno di vestiti, la pila di adorabili giocattoli, il muro con le sue opere d’arte.
“Chantelle, hai una camera proprio carina,” disse Roy con gentilezza, ricordando a Emily quel dolce modo di fare che aveva con i bambini, la delicatezza con cui le parlava quando era ancora nella sua vita.
Chantelle sorrise di soddisfazione.
“Hai deciso di non metterla nella stanza che condividevate tu e Charlotte?” disse. “La stanza dei giochi con il mezzanino?”
Emily provò una piccola fitta di dolore al petto nel sentirlo fare riferimento alla stanza che aveva da bambina. Lui l’aveva chiusa a chiave dopo la morte di Charlotte, costringendo Emily a cambiare stanza. Quello era stato il primo segnale, capì in quel momento Emily, che suo padre non avrebbe processato la morte di Charlotte, che invece sarebbe stata lo stimolo ad abbandonarla.
“Quella è la suite matrimoniale,” spiegò Daniel prendendo il comando, dato che Emily rimaneva muta. “Il mezzanino attira clienti. E poi volevamo Chantelle vicino.”
L’emozione cominciava a essere troppa per Emily. Non aveva idea che fosse possibile provare così tante cose complesse e in conflitto tra di loro in una volta sola. Improvvisamente le venne in mente che una volta terminato il giro della casa, una volta che si fossero andati a sedere nel soggiorno faccia a faccia, avrebbe scatenato un’esplosione di rabbia contro suo padre.
D’un tratto sentì la mano del padre sul braccio, lì a fermarla, a rassicurarla. Lei guardò nei suoi occhi azzurri, ci vide dentro il dolore e il rimorso, insieme a un totale sollievo. Senza parole le stava dicendo che andava tutto bene, che comprendeva la sua rabbia. Non c’era bisogno che continuasse a nasconderla.
Si trascinarono per il resto del piano, dando un’occhiata a un paio di stanze per gli ospiti in modo che Roy potesse farsi un’idea dell’arredamento. Si fermò un attimo davanti alla porta del suo studio. L’ultima volta che era stato lì aveva vent’anni di meno, i capelli neri invece che grigi, il corpo più magro e più agile invece della leggera pancia che adesso gli appesantiva la vita.
“È rimasto uguale,” disse Emily. “Qui non ho cambiato niente.”
Lui annuì, ma non disse una parola. Emily si chiese se non stesse pensando alle miriadi di documenti che aveva chiuso a chiave nella scrivania, a quelli che adesso lei aveva letto. Alle lettere e ai segreti che lei aveva scoperto. Emily sapeva che non c’era modo di sapere cosa stesse pensando Roy. In quel momento per lei era un mistero – come era sempre stato.
Andarono al secondo piano e Roy si soffermò per un po’ davanti alle scale per il belvedere. Stava pensando alla sera di Capodanno? Emily se lo chiedeva. A quella sera in cui le aveva detto di non aver paura, di aprire gli occhi per guardare i fuochi d’artificio? Oppure si era dimenticato tutte quelle cose, come era successo anche a lei?
Chantelle correva di qua e di là, mostrandogli tutte le stanze degli ospiti vuote. Sembrava entusiasta che lui fosse lì, e orgogliosissima di mostrargli casa sua. Emily avrebbe voluto prenderla alla leggera come chiaramente faceva la bambina, ma aveva così tanto per la testa da sentirsi sull’orlo dell’ansia.
“Sono davvero colpito del lavoro che hai fatto,” disse Roy. “Non dev’essere stato facile far installare tutti i bagni.”
“Non lo è stato infatti,” rispose Emily. “E abbiamo avuto solo ventiquattr’ore di tempo, più o meno. Ma è una lunga storia.”
“Ho il tempo di sentirla.” Roy sorrise.
Emily non sapeva neanche come rispondere. Il tempo non era una cosa che poteva prendere per dovuta, con lui. Non poteva fidarsi dei suoi slanci di sentimentalismo.
“Andiamo nel soggiorno,” disse rigidamente. “Beviamo qualcosa?” Poi, accorgendosi di aver offerto dell’alcol a un alcolista, aggiunse rapidamente, “Magari un caffè.”
A ogni passo che faceva per scendere le scale, Emily sentiva la rabbia farsi ancora più forte. Odiava quella sensazione. Voleva che il momento della loro riunione fosse pieno di gioia, ma come poteva esserlo per davvero se covava tutto quel risentimento? Suo padre doveva conoscere il dolore che le aveva fatto patire.
Raggiunsero il corridoio del piano di sotto. Daniel andò in cucina per fare il caffè mentre Chantelle mostrava a Roy il soggiorno. Lui trasalì quando vide il lavoro di rinnovo, il modo in cui Emily aveva mischiato stili nuovi con stili vecchi, in cui aveva incorporato l’arte moderna e la vetreria Kandinsky.
“Quello è il mio vecchio pianoforte?” chiese.
Emily annuì. “L’ho fatto sistemare. Il ragazzo che ci ha lavorato, Owen, a volte viene qui a suonarlo. Suonerà al nostro matrimonio, a dire il vero.”
Per la prima volta, Emily provò un senso di trionfo. Dato che non viveva a Sunset Harbor da molto, Owen suo padre non l’aveva conosciuto prima di lei, né lo conosceva da più tempo di lei, né meglio di lei. C’erano persone lì che erano solo di Emily, che non erano macchiate dalla sgradevolezza di quel passato condiviso.
“Owen mi aiuta con il canto,” disse Chantelle.
“Oh, canti?” fece Roy. “Mi fai sentire qualcosa?”
“Magari dopo,” si intromise Emily. “Chantelle mi ha promesso che oggi avrebbe messo in ordine tutti i suoi giocattoli.”
“Non posso farlo dopo?” si lagnò Chantelle.
Chiaramente voleva stare ancora un po’ con nonno Roy, ed Emily non poteva fargliene una colpa. In superficie era un gigante gentile, un tipo alla Babbo Natale. Ma Emily non poteva tenersi stampato in viso un sorriso finto per sempre solo per il bene di Chantelle. Era ora che lei e suo padre affrontassero una conversazione tra adulti.
Emily fece di no con la testa. “Perché non lo fai adesso così da avere tutto il giorno per giocare con nonno Roy? Che ne dici?”
Chantelle cedette e lasciò la stanza sbattendo un po’ i piedi.
“Hai aperto il bar,” notò Roy guardando la rivendita clandestina ormai brillante. Pareva impressionato dal modo in cui Emily aveva mantenuto l’atmosfera del posto come aveva fatto lui, come un omaggio ai tempi andati. “Lo sai che è tutto originale.”
Annuì. “Lo immaginavo. Eccetto le bottiglie di liquori.”
Senza Chantelle a smorzare la situazione, tra loro nacque della tensione. Emily indicò il sofà.
“Ci sediamo?”
Roy annuì e si accomodò. Il viso aveva perso ogni colore, come se avesse percepito che era venuta l’ora di regolare i conti.
Però, prima che Emily ne avesse modo, Daniel comparve con un vassoio con caffè, crema, zucchero e tazze. Lo sistemò sul tavolino. Crebbe il silenzio mentre versava la bevanda.
Roy si schiarì la voce. “Emily Jane, se hai delle domande, puoi pormele.”
La capacità di Emily di mantenersi cortese e cordiale si ruppe. “Perché mi hai lasciata?” scoppiò.
Daniel sollevò di scatto la testa dalla sorpresa. Sgranò gli occhi. Probabilmente prima non si era accorto che la gioia che Emily aveva provato alla vista di Roy le aveva fatto emergere anche la rabbia che aveva covato per tutto il giro della casa. Allora si alzò.
“È meglio che vi lasci un po’ soli,” disse cortesemente.
Emily alzò lo sguardo su di lui. Era così in imbarazzo lì in piedi, come se avesse invaso improvvisamente una questione privata, ed Emily si sentì un po’ in colpa per aver inacidito la conversazione così velocemente in sua presenza, senza dargli la possibilità di trovare un modo un po’ più gentile di andarsene.
“Grazie,” gli disse mentre Daniel si precipitava fuori dalla stanza.
Tornò a guardare suo padre. Roy sembrava ferito dal suo evidente dolore, ma respirava con calma e la guardava con occhi gentili.
“Ero distrutto, Emily Jane,” cominciò. “Dopo la perdita di Charlotte ero un uomo distrutto. Bevevo. Avevo delle relazioni. Mi ero alienato i miei amici di New York finché non sono più riuscito a sopportare di stare lì. Io e tua madre ci siamo lasciati, anche se c’era da aspettarselo. Sono venuto qui per ricostruire la mia vita.”
“Solo che non l’hai fatto,” rispose con veemenza Emily. “Sei scappato. Mi hai lasciata.”
Sentiva le lacrime pungerle gli occhi. Anche gli occhi di suo padre si stavano facendo rossi e annebbiati. Abbassò lo sguardo, con vergogna.
“Stavo ignorando le cose,” disse con tristezza. “Pensavo di poter fingere che andasse tutto bene. Anche se erano passati anni dalla morte di Charlotte, non mi ero mai permesso di provare qualcosa. Non sono mai andato in camera vostra – ti ho trasferita in un’altra stanza, se ti ricordi.”
Emily annuì. Ricordava come fosse ieri quando suo padre aveva bloccato l’accesso a parti della casa, proibendole certe zone durante i soggiorni estivi – il belvedere, il secondo piano, i garage, il suo studio, il seminterrato – finché lei quasi non si era dimenticata tutto quanto: la loro esistenza o quel che contenevano. Si ricordava il suo comportamento sempre più eccentrico, la sua ossessione di collezionare antichità che a lei pareva non tanto un hobby quanto una compulsione, il suo accumulare tutto. Ma più di tutto si ricordava la diminuzione dei contatti, il fatto di trascorrere sempre meno tempo con lui nel Maine finché non ebbe compiuto quindici anni e, un’estate, lui non tornò più per venirla a prendere. Quella era stata l’ultima volta che l’aveva visto.
Emily voleva essere comprensiva nei confronti delle azioni del padre. Ma anche se una parte di lei capiva che si era trattato di un uomo distrutto che un giorno era crollato, al tormento che le sue azioni le avevano procurato non potevano essere date spiegazioni.
“Perché non sei venuto a dirmi addio?” disse Emily – le lacrime le scendevano per le guance in fiumi. “Come hai potuto andartene così?”
Anche Roy sembrava farsi sopraffare dall’emozione. Emily si accorse che gli tremavano le mani. Le labbra gli fremettero quando parlò. “Mi dispiace tanto. Quella decisione mi ha perseguitato.”
“Ha perseguitato te?” esclamò Emily. “Io non sapevo se eri vivo o morto! Mi hai lasciata lì a chiedermelo, senza risposta. Hai idea di come una cosa del genere riduca una persona? Tutta la mia vita era in pausa a causa tua! Perché tu sei stato troppo codardo da dirmi addio!”
Roy prese le sue parole come ripetuti pugni in viso. Aveva un’espressione così dolente che sembrava che davvero lo avesse colpito fisicamente.
“È stato imperdonabile,” disse, con appena più di un sospiro. “Quindi non cercherò di giustificarmi.”
Emily sentì il cuore battere furiosamente in petto. Era accecata dalla rabbia. Tutte le emozioni degli anni passati le esplosero fuori con la forza di uno tsunami.
“Hai almeno pensato a quanto mi avrebbe fatto soffrire?” esclamò con la voce che si alzava ulteriormente di tonalità e di volume.
Roy pareva colto dall’ansia, aveva tutto il corpo teso, la faccia contorta dal rimorso. Emily era contenta di vederlo così. Voleva che soffrisse quanto aveva sofferto lei.
“All’inizio no,” confessò. “Perché non pensavo lucidamente. Non riuscivo a pensare a niente e a nessuno tranne che a me stesso, al mio dolore. Pensavo che senza di me saresti stata meglio.”
Allora crollò, sobbalzando dai singhiozzi e tremando dall’emozione. Vederlo così fu un’accoltellata al cuore. Emily non voleva vedere suo padre crollare e andare in pezzi sotto i suoi occhi, ma lui doveva sapere. Non sarebbero andati avanti, non avrebbero riparato nulla senza tirare fuori tutto quanto.
“Quindi hai pensato che andandotene mi avresti fatto un favore?” disse brusca Emily incrociando le braccia sul petto con fare protettivo. “Ti rendi conto di quanto sia folle?”
Roy piangeva amaramente col volto coperto dalle mani. “Sì. Ero fuori di me all’epoca. Lo sono rimasto per moltissimo tempo. Quando mi sono accorto del danno che avevo fatto era passato troppo tempo. Non sapevo come tornare al passato, come riparare il dolore.”
“Non ci hai neanche provato,” lo accusò Emily.
“Sì che ci ho provato,” disse Roy – il tono lagnoso che aveva seccava Emily ancora di più. “Tantissime volte. Sono tornato nella casa in diverse occasioni, ma ogni volta il senso di colpa per quello che avevo fatto mi soffocava. C’erano troppi ricordi. Troppi fantasmi.”
“Non dirlo,” rimbeccò Emily mentre con la mente andava subito alle immagini di Charlotte nella casa. “Non ti azzardare a dirlo.”
“Scusami,” ripeté Roy trasalendo dall’ansia.
Abbassò lo sguardo sul grembo, dove teneva le mani tremanti.
Sulla tavola di fronte a loro, le tazze piene di caffè si stavano raffreddando.
Emily fece un lungo e profondo respiro. Sapeva che suo padre aveva sofferto di depressione – aveva trovato la prescrizione dei medicinali tra i suoi averi – e che non era in sé, che il dolore lo costringeva a comportarsi in modo imperdonabile. Non avrebbe dovuto fargliene una colpa, eppure non poteva farne a meno. L’aveva delusa moltissimo. L’aveva lasciata sola col suo dolore. Con sua madre. C’era così tanta rabbia a ribollirle nel cuore, anche se sapeva che non c’erano colpe.
“Cosa posso fare per sistemare le cose con te, Emily Jane?” disse Roy con le mani giunte in preghiera. “Come posso anche solo cominciare a sistemare il danno che ho causato?”
“Comincia col riempire i vuoti,” rispose Emily. “Dimmi cos’è successo. Dove sei stato. Che cos’hai fatto per tutti questi anni.”
Roy sbatté le palpebre, come sorpreso dalle domande di Emily.
“È stato il non sapere a uccidermi,” spiegò Emily con tristezza. “Se avessi saputo che stavi bene da qualche parte, avrei potuto gestire la cosa. Non hai idea di quanti scenari mi sono immaginata, di quante vite diverse ho immaginato che stessi vivendo. Ho trascorso gli anni non riuscendo a dormire. Era come se la mia testa non riuscisse a smettere di evocare opzioni finché non avessi trovato quella giusta, anche se non c’era modo di arrivarci. Era una missione impossibile e futile, ma non riuscivo a smettere. Perciò è così che puoi aiutarmi. Comincia col dirmi la verità, col dirmi quello che per tutti questi anni non ho saputo. Dove sei stato?”