Czytaj książkę: «Eva»
Eva
Eccovi una narrazione – sogno o storia poco importa – ma vera, com’è stata e come potrebbe essere, senza retorica e senza ipocrisie. Voi ci troverete qualcosa di voi, che vi appartiene, che è frutto delle vostre passioni, e se sentite di dover chiudere il libro allorché si avvicina vostra figlia – voi che non osate scoprirvi il seno dinanzi a lei se non alla presenza di duemila spettatori e alla luce del gas, o voi che, pur lacerando i guanti nell’applaudire le ballerine, avete il buon senso di supporre che ella non scorga scintillare l’ardore dei vostri desideri nelle lenti del vostro occhialetto – tanto meglio per voi, che rispettate ancora qualche cosa.
Però non maledite l’arte che è la manifestazione dei vostri gusti. I greci innamorati ci lasciarono la statua di Venere; noi lasceremo il «cancan» litografato sugli scatolini dei fiammiferi. Non discutiamo nemmeno sulle proporzioni; l’arte allora era una civiltà, oggi è un lusso: anzi, un lusso da scioperati. La civiltà è il benessere; ed in fondo ad esso, quand’è esclusivo come oggi, non ci troverete altro, se avete il coraggio e la buona fede di seguire la logica, che il godimento materiale. In tutta la serietà di cui siamo invasi, e nell’antipatia per tutto ciò che non è positivo – mettiamo pure l’arte scioperata – non c’è infine che la tavola e la donna. Viviamo in un’atmosfera di Banche e di Imprese industriali, e la febbre dei piaceri è la esuberanza di tal vita.
Non accusate l’arte, che ha il solo torto di avere più cuore di voi, e di piangere per voi i dolori dei vostri piaceri. Non predicate la moralità, voi che ne avete soltanto per chiudere gli occhi sullo spettacolo delle miserie che create, – voi che vi meravigliate come altri possa lasciare il cuore e l’onore là dove voi non lasciate che la borsa, – voi che fate scricchiolare allegramente i vostri stivalini inverniciati dove folleggiano ebbrezze amare, o gemono dolori sconosciuti, che l’arte raccoglie e che vi getta in faccia.
Avevo incontrato due volte quella donna – non era più bella di tutte le altre, né più elegante, ma non somigliava a nessun’altra. – Nei suoi occhi c’erano sguardi affascinanti, come il corruscare di un’esistenza procellosa che era piena di attrattive. – Tutti gli abissi hanno funeste attrazioni, e quelle voragini che ingoiano la giovinezza, il cuore, l’onore, si maledicono facilmente, ahimè! quando arriva la filosofia dei capelli bianchi. – Era bionda, delicata, alquanto pallida, di quel pallore diafano che lascia scorgere le vene sulle tempie e ai lati del mento come sfumature azzurrine; aveva gli occhi cerulei, grandi, a volte limpidi, quando non saettavano uno di quegli sguardi che riempiono le notti di acri sogni; aveva un sorriso che non si poteva definire – sorriso di vergine in cui lampeggiava l’imagine di un bacio. Ecco che cosa era quella donna, quale si rivelava in un baleno, fuggendovi dinanzi nella sua carrozza come una leggiadra visione, raggiante di giovinezza, di sorriso e di beltà. – In tutta la sua presenza c’era qualcosa come una confidenza fatta al vostro orecchio con labbra tiepide e palpitanti, che vi rendeva possibile il sognare le sue carezze, e farci su mille castelli in aria. Non era soltanto una bella donna – certe altezze non attraggono appunto perché sono inaccessibili. – L’ammirazione che ella destava assumeva la forma di un desiderio; c’era nei suoi occhi qualche cosa come un sorriso e una promessa che faceva discendere la dea dal suo cocchio superbo – o piuttosto vi metteva accanto a lei, e faceva correre il vostro pensiero alle cortine della sua alcova, e ai viali più ombreggiati del suo giardino.
Si chiamava Eva, o almeno si faceva chiamare così, e quel nome era forse un epigramma. Tutti conoscevano la sua vita un po’ più in là del palcoscenico della Pergola, e, forse meglio di tutti, le dame del gran mondo che parlavano di lei celandosi dietro il ventaglio. Nessuno ne sapeva più di un altro. Era l’apparizione di un astro in mezzo alla splendida società fiorentina, una febbre di giovanotto fatta donna.
L’avevo incontrata due volte, e non mi era sembrata la stessa donna, forse per le diverse disposizioni d’animo in cui mi ero trovato; e forse anche per ciò che era rimasta in me più viva e profonda l’impressione di lei. La prima volta la vidi pel Lungarno, in un elegante legnetto, e guidava una bella pariglia di cavalli inglesi; aveva il sorriso negli occhi più che nelle labbra, ed era una cert’aria graziosa ed ardita in tutta la sua persona che vedendola faceva sorridere di piacere. Io ero triste, senza saperne il perché, forse per non avere meglio da fare, e macchinalmente la seguii cogli occhi e col pensiero – e il pensiero corse lontano verso tutte le ridenti follie del cuore. Un’altra volta la incontrai alle Cascine, in uno di quei viali che nessuno frequenta. Quel mattino il mio cuore faceva festa – domeniche gioconde dei venticinque anni che non tornano più! – Il sole splendeva, ed il sorriso brillava negli occhi di Vittorina – larva di un di quei giorni in cui si prodiga tanta parte di cuore come se non dovessero tramontare giammai – fantasma di un’ora felice che si dimentica prima ancora che sia trascorsa, – nello stesso modo che ella avrà dimenticato persino il mio nome, o lo rammenterà come io adesso mi rammento del suo, a proposito di qualche cosa che allora ci passò sotto gli occhi senza che ce ne avvedessimo. Il viale era deserto, gli uccelli cinguettavano fra gli alberi, e i rami sussurravano lieve lieve, intrecciando mollemente le loro ombre in bizzarri disegni sulla ghiaia del viale. Noi non si parlava certamente dell’ultimo fascicolo dell’Antologia. Vittorina era allegra, cantava, rideva e il riso la faceva bella. Io guardavo ed ascoltavo. Quando il nostro fiacre passò accanto ad un bellissimo legno, che stava fermo in mezzo al viale, vidi, attraverso il cristallo scintillante, una testolina bionda, come una rosea visione, incorniciata dall’imbottitura di seta della carrozza. Ella ci volse uno sguardo, un solo sguardo limpido come l’azzurro dei suoi occhi, ma disattento, anzi noncurante, uno di quegli sguardi che vi affissano in volto senza vedervi, e tornò a chinare gli occhi sul libro.
Vittorina chinò il capo e ammutolì, come se quella bionda e leggiadra visione fosse sempre lì, fra di noi, seduta sui cuscini della nostra carrozza.
La rividi anche mascherata ad un veglione della Pergola. La folla si apriva sussurrante davanti a lei, e sguardi bramosi l’accompagnavano come se indovinassero la sua bellezza soltanto a quello stivalino arcuato e a tacchi alti che si posava da padrone sul tappeto. Io l’avevo vista un momento a viso scoperto, mentre discendeva da una carrozza di cui i fanali scintillavano come due stelle, sollevando arditamente la veste sul marciapiede con quella altera civetteria che non si cura dello sguardo indiscreto, o gli getta come una limosina l’onda vaporosa della battista e il lucido riflesso dello stivalino. La rividi in mezzo alla folla, accompagnata da un elegante trovatore che le dava il braccio, e seguita sempre da vicino o da lontano da un arlecchino, con tanta insistenza che tutti la notavano. Ella passava sorridente sotto la sua maschera – aveva un sorriso incantevole – e ogni volta che l’arlecchino l’incontrava le ripeteva la sciocca domanda solita: «Ti diverti, mascherina?» Ed essa rideva, rideva allegramente; e ridendo imporporava il basso delle sue guance, quel po’ che se ne poteva vedere. Una delle volte mi trovavo fra un crocchio d’amici, e si fece largo davanti a quella regina che passava.
L’arlecchino la seguiva sempre, come un cane allampanato colla coda attaccata al ventre e l’occhio bramoso intento al tozzo di pane che indovina nella tasca del padrone; e ripeteva il suo ritornello col tono afflitto di un cane che ustoli. Allora la bella mascherina, che non ne poteva più, si strinse nelle spalle con molta grazia, e gli gettò in faccia una parola sola, voltandosi dall’altra parte:
«Noioso!»
Noi ridevamo come matti. L’arlecchino si era fermato ritto, immobile, con certi occhi che gettavano fiamme da sotto la maschera; e senza badare a quelle risa, o senza accorgersene, esclamò, obliando di contraffare la sua voce:
«Ah! è lei!»
E si allontanò.
Il veglione era animatissimo. Si vedeva anche qualche domino elegante quasi smarrito in mezzo alla folla. Fra il chiasso e la calda atmosfera s’indovinava come un fiore di serra o di salone che passava, al profumo, al fruscio particolare della veste, a certe leggiadre esitazioni, al guanto grigio che si stringeva timidamente alla manica di una giubba. Però la bella mascherina e il suo trovatore non si vedevano più; erano forse partiti. Verso le due vedemmo bensì l’arlecchino tutto solo, grullo, smarrito, volgendo di qua e di là occhiate da matto. Dava e riceveva colla stessa indifferenza spintoni da orbo. Sembrava ubbriaco fradicio. Quei giovanotti, come lo videro, scoppiarono a ridere fragorosamente, gridandogli dietro:
«Uh! Noioso!»
Egli si fermò, li guardò con quell’aria stralunata, e sorrise stupidamente.
«Sì, sono noioso» disse sotto la maschera una voce che senza sapere il perché ci fece trasalire «come le tue liriche, come i tuoi drammi storici, come i tuoi quadri di genere, come il tuo spirito di buona compagnia, come le tue fiabe.»
Quest’ultimo complimento era diretto a me, sebbene non avessi aperto bocca, e i miei amici avevano preso ciascuno il suo con più o meno garbo, credendosi obbligati a ridere.
«Mi conosci?» gli dissi.
«Lo vedi.»
«Non c’è che dire, hai dello spirito.»
«Sì, delle volte, a tavola. vogliamo andare a tavola?»
«Ci offri da cena?» domandò il conte C***.
«No, vi offro di scommettere a chi la pagherà.»
«Benissimo! e che scommessa?»
«Scommetto che darò un bacio a quella mascherina accompagnata dal trovatore.»
«Eh!»
«Ti gira?»
«Una cena di mille lire», disse l’arlecchino senza scomporsi. Nessuno gli rispose. Lo credevamo matto.
«Sembra che le tue scommesse non ispirino gran fiducia», disse il poeta.
L’arlecchino lo guardò colla medesima calma, resa grottesca dall’aria impassibile della maschera, e rispose:
«Diamo in pegno il denaro.»
«A te?»
«No…» rispose senza dar retta al motteggio. Mi affissò un istante, e soggiunse: «Ecco le mie cinquecento lire.»
Quella preferenza mi sorprese. «Ti conosco?» gli domandai.
«Non so, ma mi hai conosciuto.»
«Dove?»
«A Catania.»
Cercai inutilmente di leggere sotto la sua maschera. Egli si levò il berretto con comica gravità e ci disse:
«Prima che finisca il veglione.»
«Ma s’è partita?» disse Arturo.
«Non è partita» rispose semplicemente l’arlecchino, e ci volse le spalle.
Egli era tutt’altro che stupido o ubbriaco; e l’imbarazzo del nostro silenzio lo confessava chiaramente.
Che cos’era dunque?
M’aggiravo a casaccio fra le maschere, ora spingendo, ora spinto, allorché sentii tirarmi per le falde dell’abito. Era di nuovo l’arlecchino, colla stessa aria d’imbecille. Egli mi disse:
«Vuoi venire con me?»
«Dove?»
«In palco.»
«Andiamo pure», risposi, curioso di sapere chi fosse.
Egli prese il mio braccio, mi fece salire al terz’ordine, e aprì un palco.
Entrando si tolse la maschera, mi guardò un attimo e mi domandò:
«Mi riconosci?»
Avevo visto un volto pallidissimo, assai magro, con gli occhi luccicanti, come per febbre, e incavernati in un’orbita accerchiata di livido, con certi baffetti biondi appena visibili, e le labbra pallide.
«No» risposi «Non ti riconosco.»
Egli sorrise tristemente. «Ah!» esclamò, «son molto cambiato!… Enrico Lanti.»
«Infatti… adesso mi rammento…»
«Fummo a scuola insieme. Tu avevi una giacchetta coi bottoni dorati ch’era la tua disperazione, perché tutti ti canzonavano. Io ero così grasso che mi chiamavano badduzza; ti rammenti?»
«Sì.»
«Adesso non son più badduzza!» diss’egli; e l’accento contrastava stranamente con la parola.
«È vero, sei molto cambiato.»
Egli tossì due o tre volte e non rispose.
Il silenzio si prolungava troppo; per dire qualche cosa gli domandai se egli fosse da molto tempo in Firenze.
«Da due anni» rispose.
«Sei pittore, mi sembra.»
«Sì.» mi disse, con un sorriso che non dimenticherò mai più.
E dopo un istante:
«Anche tu hai la malattia dell’arte!»
«La malattia?»
«Vuoi chiamarla follia?» diss’egli con lo stesso sorriso amaro. «Non discutiamo sulle parole: è una malattia del cervello o del cuore, non mi picco gran fatto di fisiologia – ma so ch’è un gran malanno… Vedi, non son più badduzza… ed ho la febbre.»
Si tolse il guanto e mi porse la mano, che scottava.
«Ma tanto meglio!» riprese con lo stesso tono, ridendo sempre in modo strano. «Ti ho cercato appunto per questo. Avevo bisogno di uno come te… Tu non mi riderai in faccia almeno… Ed io non voglio che si rida di me!…»
Gli occhi gli brillavano febbrilmente, e parlava concitato assai. Incominciai a temere che fosse matto sul serio.
Tutt’a un tratto egli mi domandò bruscamente:
«Andrai in Sicilia?»
«Forse.»
«Conosci la mia famiglia?»
«No»
«La conoscerai» soggiunse «son brava gente; non son signori, ma potrai stringer loro la mano francamente… e parlar di me… Non dire di cotesta scommessa però, e in caso di disgrazia non dire come sono morto… La mia povera mamma piangerebbe anche la perdita dell’anima mia… Dì che son morto di tifo, di miliare, in buona casa – ché in Sicilia l’idea dell’ospedale stringe il cuore – e che sono stato assistito dagli amici fino all’ultimo momento…»
«Ma che discorsi mi fai!»
Egli mi guardò sorpreso, come se avessi rotto il filo logico di premesse ben stabilite, e rispose tranquillamente:
«Ma io potrei anche essere ucciso invece di uccidere.»
E ne parlava con calma sinistra.
«Che?…»
«Tò! non ti rammenti della scommessa?»
Allora il vero scopo di quella follia mi balenò in mente nudo e minaccioso.
«Ti batterai?»
«Oh!!» esclamò con un sorriso indefinibile che era quasi lugubre su quel volto cadaverico.
«Odii quell’uomo?»
«Sì» mormorò coi denti stretti, «e l’ucciderò!»
«Per colei?»
«Sì!»
«L’ami!»
Egli trasalì.
«La odio! La disprezzo! Vorrei morderla, vorrei schiaffeggiarla!… vorrei pestarmela sotto i piedi!»
Tossì di nuovo e soffocò la tosse col fazzoletto. Questa volta lo sforzo fu così violento che egli chiuse gli occhi, e sulle sue guance pallidissime passarono certe fiamme di malaugurio. Allorché riaprì gli occhi mi sembrò di vedere un cadavere. Egli mi disse con voce intieramente mutata da un istante all’altro:
«Tu lo vedi, se non muoio di spada morrò di qualche altra cosa. Ma non penso a ciò che per i miei poveri genitori, e per la mia sorellina… Stringendo la tua mano mi sembra di stringermi al cuore quei poveretti che saranno tanto afflitti…Ecco perché ho voluto parlarti. Non è vero che in certi momenti, quando siamo molto lontani dalla famiglia, proviamo delle strane tenerezze per le persone che ce la rammentano, o che hanno il più lontano rapporto con essa?»
«Mio caro… tu esageri…»
«Io esagero?» rispose con lo stesso sorriso. «Va’ a chiederlo ai medici di Santa Maria Nuova se esagero… o vieni alle Cascine fra le sei e le sette…»
«Cotesto duello è dunque inevitabile?»
Egli mi guardò sorpreso.
«A meno che il conte non prenda in santa pace la scommessa.»
«Quale conte?»
«Il conte Silvani, il trovatore.»
«Ma puoi anche uscirne vincitore…»
«Perbacco!» esclamò con sinistro entusiasmo. «Lo so!»
«Ma adesso hai la febbre. Non vorrai aspettare qualche altro giorno?»
«La febbre non mi lascia mai. Ma che importa!… Anzi!… Vedi che il pugno trema!…» e lo guardava con triste soddisfazione. «Vedrai come ci starà bene la spada!»
«E la tua famiglia?»
«Povera mamma!» diss’egli passandosi il guanto sugli occhi.
«Non vorrai vederla?»
«No!… No!…» ripeté dopo un breve silenzio in tono tutto diverso e afferrandomi le mani. «Non ne ho il coraggio.»
Le lagrime gli luccicavano nell’orbita, e sentii che quelle lagrime mi toccavano il cuore.
«Se sapessi come sono fatti gli occhi della madre che ti affissano in volto in certi momenti e ti chiedono certe cose!… Se sapessi!» mormorò come parlando fra di sé.
Tutt’a un tratto sentii trasalire le sue mani nelle mie.
«Guarda!» esclamò. «La vedi?… Lei!… Non è bella?» mi domandò Enrico seguendola tra la folla con gli occhi ardenti.
«Oh!»
«Se tu la vedessi senza maschera!…»
«L’ho vista.»
«Ah! tu la conosci! Ella ti ha gettato la fiamma del suo sguardo… anche a te!.. Non è vero che farebbe commettere tutte le pazzie?…»
Essa scomparve verso la porta. Enrico era rimasto sempre con gli occhi fissi dov’ella non era più, e le scagliò dietro una parola infame come un’imprecazione.
«Ah! Ah!» sogghignò con un riso che voleva essere allegro ed era tristissimo. «Se tu sapessi che cosa ho fatto per colei!» e si torceva le mani. «Tu riderai di me, eh?»
«Oh, no! Ti compiango.»
«Non voglio della tua compassione!» mi disse bruscamente.
Poscia, come pentito, e stringendomi la mano:
«Se tu sapessi come mi sento spregevole e vile!… come mi disprezzo! Dimmi,» soggiunse dopo una breve esitazione, piantandomi in volto due occhi luccicanti come quelli di un pazzo, «voglio domandarne a te che ti occupi di coteste orribile malattie… Dimmi come possono farsi di tali cose per una donna che si disprezza, che si odia… Dimmi come pur sputandole in faccia tutto quest’odio e questo disprezzo si possa morire per lei, si possa sacrificarle l’onore, la vita, la famiglia, la giovinezza, l’arte, tutte le cose che sorridono e che si amano, per abbeverarsi del fiele dell’amore di lei… Dimmi come accada tutto ciò…E dimmi che nei miei panni tu avresti fatto come me, e saresti vile e spregevole del pari!…Oh dimmi questo!…ché mi sembra di impazzire!…Vuoi che io ti narri questa storia…vuoi?…»
«Sì!» gli dissi sentendomi invadere dalla sua commozione.
«Ma bisogna che ti dica quello che ero per farti comprendere quel che sono diventato. Ero un genio in erba, una speranza dell’arte italiana, coi capelli lunghi e il cappellaccio alla Rubens; abitavo all’ultimo piano di una vecchia casa in Santo Spirito che il vento, d’inverno, sembrava far traballare sulle fondamenta, e desinavo a cinquantacinque lire al mese. Però in tutte coteste cose ci mettevo, direi, tanta buona fede, che le rendevo quasi rispettabili. Il mio paese mi pagava una pensione, allo scopo di aumentare il numero dei suoi grandi uomini. I miei professori ed i miei colleghi mi tenevano in gran conto, – è vero che c’era poco da fidarsi di loro che avevano in corpo le stesse magagne, ma chi ci avrebbe rinunciato? – Il pubblico ed i giornali mi bruciavano sotto il naso tutti gli stimolanti della vanagloria. Ebbene, chi sarebbe stato più forte di me scagli la prima pietra… Io battezzai pomposamente la mia vanità; la chiamai amore dell’arte, e presi sul serio i miei capelli lunghi e tutte le altre belle cose. Ero contento di passeggiare per le vie di Firenze, come se andassi a braccetto con Raffaello o con Michelangelo. Mi pareva di respirare l’arte a pieni polmoni; e avevo in cuore tutti gli entusiasmi, le antipatie, gli affetti della mia illusione. Vivevo come in un’atmosfera del Cinquecento che mi rendeva idolatra dei palazzi anneriti dal tempo, delle gronde sporgenti e malinconiche, e delle acque torbide dell’Arno… In fede mia!» aggiunse con un ghigno amarissimo «non avevo ancora pensato all’ospedale e al camposanto…»
Tacque e si passò a più riprese la mano sulla fronte, come per scacciarne molesti pensieri o la commozione che lo vinceva.
«Follie! si!» mormorò dopo qualche istante quasi parlasse fra di sé.
«Sei certo di non sbagliarti giudicando così dei sentimenti umani?»
«Oh, no…Nessuno potrebbe avere cotesta sicurezza… poiché non ci sono sentimenti veri.»
«Eh?!»
«Quistione d’ottica, mio caro. Io chiamo follie quelli che tu chiami nobili affetti,» rispose con cinismo amarissimo «perché… perché mi hanno ridotto quale mi vedi… – Quanto guadagni con la tua arte?» soggiunse dopo un breve silenzio, appoggiando l’accento in modo ironico sull’ultima parola.
La domanda era così brusca e brutale che lo guardai sorpreso. Egli scoppiò a ridere. «Lo vedi,» mi disse, «ti vergogni a dirlo! Adunque sei un pazzo vanitoso, il peggiore.»
Ero disgustato da quell’affettazione, e gli risposi secco secco:
«Io mi contento di non mischiare del danaro in certe idee.»
«Bella frase!» disse senza scomporsi. «Un tempo mi sarebbe parsa anche una nobile risposta. Ma, amico mio, in un’epoca in cui le più vive ambizioni dell’uomo, ed i più seri sforzi della sua attività hanno uno scopo positivo – arricchire – la logica ha il difetto di non prestarsi alle ipocrisie, – confesserai anche tu che le tue idee, nelle quali non vuoi mischiare del danaro, non valgono nulla…Cioè… no!… Valgono a gettarti fra i piedi di cotesta gente, laboriosa perché è assetata di donne e di vino. – E cotesta gente, che si affretta verso la Borsa, riderà di te, ubbriaco in pieno giorno delle sue passioni. – ché anche tu vivi nella medesima atmosfera, e la bevi avidamente, perché il tuo cervello e i tuoi nervi sono in uno stato di esaltazione morbosa. – E la folla ti schernirà, finché arriva una pietosa guardia urbana che ti conduce in prigione in nome della moralità, o ti chiude nel manicomio.»
Egli si tacque per esaminare trionfante l’effetto della sua eloquenza da pessimista.
«Che cosa mi rispondi?» domandò sorpreso del mio silenzio.
«Che hai veramente il cuore ammalato.»
«Sarà anche vero. Già te l’ho detto che è quistione d’ottica, ed io non pretendo all’infallibilità.»
«E ti credo molto sventurato.»
«Sì! Sì!» accennò col capo, e sembrava commosso; indi soggiunse: «È pure una gran sventura quella di perdere certe illusioni… certe follie… care follie che riempivano di rosei sogni la mia cameretta al terzo piano!…E poi, che resta quando esse son svanite?…»
«Tu lo vedi!»
«Sì! ci dev’esser qualcosa di vero in coteste illusioni che spalancano il cuore a due battenti verso tutto quello che è nobile e bello!…» esclamò lasciandosi dominare dalla commozione. E poscia come pentitosi, rifacendosi scuro in volto: «Ma è poi vero che sia nobile e bello ciò che mi è parso anche ridicolo un giorno?…»
«Un giorno di febbre o di sconforto!..»
«Potresti assicurarmi quali sieno i giorni di sereno, per giudicare con esattezza dei sentimenti, tu che hai amato e odiato la stessa cosa, che ne hai pianto e riso nel medesimo giorno?» domandò con quel sorriso che voleva sembrar cinico ed era una contrazione dolorosa del suo cuore. E lasciando più libero varco alla sua amarezza mormorò: «Non c’è altro di vero che la modificazione dei nostri nervi o la temperatura del nostro sangue».
«La tua scienza è desolante! È la scienza del nulla!»
«È vero!»
«Non hai ma pensato alla tua famiglia?»
Egli trasalì e si fece pallido; accennò due o tre volte a voler parlare, e le labbra gli tremavano.
«Io l’ho abbandonata per correre dietro a quelle larve!» mormorò con voce soffocata. «E allora ho dovuto chiedermi quale di cotesti due affetti fosse il vero, se il più forte o il più puro…È stato un gran dolore!…Ma il dolore è una debolezza, non è una verità…e dei due affetti sai quale ha vinto…nel mio cuore entusiasta e vergine?… ha vinto il più turpe; ha vinto il sensuale nella mia anima che viveva in un mondo ideale…Ora dimmi tu le tue frasi sonore; io ti getterò fra i piedi i fatti eloquenti.»
Io non avevo mai amato, o almeno cotesto sentimento che era sparso in tutto il mio essere non si era incarnato in una figura di donna. Ero superbo della mia arte, superbo di me che la sentivo degnamente, e ciò mi rendeva quasi geloso di me medesimo. I miei sogni erotici non erano mai scesi più giù di una duchessa, cui prestavo gratuitamente tutti i miei entusiasmi, e piedi che non si erano mai posati sul lastrico delle vie, e mani che nessuno aveva mai visto senza guanti, all’infuori di me. E aspettando la duchessa che non veniva, io facevo all’amore coi miei quadri, sognavo i capelli biondi della cameriera che spolverava le tende della finestra di faccia alla mia – i soli capelli – o le linee graziose degli omeri della modista che vedevo tutti i giorni dietro la vetrina in via Rondinelli. Nella comprensione dell’arte c’è una squisita sensualità; la bellezza plastica che compenetravasi nel bello ideale aveva per me certi affascinamenti, ancora verginali ma potentissimi.
La mia vita scorreva serenamente in un mondo che m’ero creato colla mia fantasia. Non avevo mai rivolto un solo sguardo di desiderio su quei piaceri di una grande città che mi passavano sotto gli occhi, sebbene ad una certa distanza, e come in una nube; oppure se ne avevo provata la curiosità, con un amaro sentimento di privazione, m’ero rifugiato nella mia arte come nelle braccia di un’amante. Il mio più grande divertimento era quello di andare a teatro la domenica. Avrei preferito, è vero, quegli spettacoli che parlano più vivamente all’immaginazione, come l’opera in musica ed il ballo; ma erano spettacoli che costavano cari, e in ciascun mese ci son quattro o cinque domeniche – troppo lusso per un bilancio di centocinquanta lire.
Ora se ti dirò che senza fare un buco nel mio bilancio io non avrei fatto uno strappo nel mio cuore, che se una domenica non fossi andato alla Posta per riscuotere un vaglia non avrei visto forse il cartellone della Pergola; e se non avessi finito il giorno innanzi un lavoro di cui ero soddisfattissimo, e il sole di quella domenica non mi fosse perciò sembrato in festa come il mio cuore, io avrei visto il cartellone senza pensare a fare un buco nel mio bilancio, tu mi darai del fatalista… Farai come tutti gli altri, ti sbarazzerai con una parola di un esame increscioso.
Andai dunque alla Pergola di buon’ora per trovare un posto in platea; e lì, nella semi-oscurità, col mio paletò piegato sulla spalliera, l’ombrello fra le gambe, il cappello sull’ombrello, l’occhio intento, stavo a godermi il mio biglietto d’ingresso esaminando tutto, le dorature dei palchi, il leggio del suggeritore, i lumi della ribalta, e soprattutto l’ora che segnava l’orologio.
I palchetti si andavano popolando di belle signore, – almeno avevano indosso tanti fiori, e gemme, e nastri, e bianco, e rosso, che nella mezza luce sembravano tutte belle. Degli uomini poi ce n’erano così ben vestiti e così ben rasi, e colle testine così ben pettinate, ricciutelle e lucide, che quelle belle donne dovevano al certo guardarli con tanto d’occhi spalancati, come io guardavo loro, e istintivamente mi nascondevo le mani nude sotto il cappotto.
Squillò un campanello; un’onda di luce invase quella splendida sala, e incominciò la rappresentazione. Io ascoltavo, guardavo, tutto commosso e rimpicciolito nel mio cantuccio; il mio entusiasmo non si manifestava altrimenti che come una gran soddisfazione di aver ben impiegato le mie tre lire. Avevo comprato per tre sole lire un tesoro di emozioni. Costruivo un paradiso di matte aspirazioni, di sogni e ne cercavo il riflesso negli occhi scintillanti di quelle belle dame. – E quando le vedevo parlare e ridere sbadatamente, agitando il ventaglio o aggiustando il fisciù, provavo una molesta sensazione, e mi scuotevo bruscamente, come se m’avessero svegliato di soprassalto da un sogno delizioso.
Vedi, mio caro, quante belle cose ci sono in tre lire per uno spettatore novizio?
Alcuni istanti prima del ballo corse per la folla un mormorio di aspettazione. Io sentivo come allargarmisi il cuore, e aggiustavo macchinalmente il mio cappello sull’ombrello. Improvvisamente apparve una scena incantata, riboccante di suoni, di luce, di veli e di larve seducenti che turbinavano nelle ridde più voluttuose – come una fantasmagoria di sorrisi affascinanti, di forme leggiadre, di occhi lucenti e di capelli sciolti. Poi, quando quella musica fu più delirante, quando tutti gli occhi erano più intenti, e tutti gli occhialetti si affissavano bramosi sulla scena, corse un nuovo susurrio: «Eva! Eva!» e in mezzo a un nembo di fiori, di luce elettrica, e di applausi, apparve una donna splendente di bellezza e di nudità, corruscante febbrili desideri dal sorriso impudico, dagli occhi arditi, dai veli che gettavano ombre irritanti sulle forme seminude, dai procaci pudori, dagli omeri sparsi di biondi capelli, dai brillanti falsi, dalle pagliuzze dorate, dai fiori artificiali. Diffondeva un profumo di acri voluttà e di bramosie penose. Guardavo stupefatto, colla testa in fiamme e vertiginosa. Provavo mostruosi desideri, e invidie, e scoramenti, e alterezze per la mia arte che sentivo abbassarsi sino ai miei desideri, e pel mio ingegno che mi pareva si elevasse sino a guardarla a faccia a faccia, l’arte; e in fondo a tutto questo, un amaro rammarico di trovarmi in quel meschino posto di platea e senza guanti. Poi tutta quella visione scomparve in un lampo di luce e in un’onda di musica. Tutto tornò buio. Rimasi ancora sognando, con quei suoni negli orecchi e quelle larve davanti agli occhi. Mi alzai quando gli altri si alzavano; uscii barcollando, urtando nel vestibolo tante belle signore, e calpestando tante code, rischiando venti volte di gettarmi sotto i piedi dei cavalli in istrada. Quella notte non potei dormire; mi sentivo come se avessi tutti i nervi agitati; avevo bisogno di sfogarmi in qualche modo delle mie impressioni, e giacché mi parve che il pennello non avrebbe potuto esprimerle tutte, mi misi a scrivere… un vero delirio, un sogno da febbricitante, però senza pretese, e senza altro scopo che quello di accenderne il fuoco quando avrei avuto freddo.
Ahimè! la stagione era mite; il caldo del cuore durava ancora troppo per lasciar sentire il freddo alle membra, – ecco perché quello scritto che non raggiunse il suo scopo di comunicare la fiamma alle fascine del caminetto arse il mio cuore e consunse la mia vita.
Un mio amico, appendicista molto conosciuto, veniva spesso a trovarmi – eravamo giovani, artisti, entusiasti, matti del pari – Si fumava spesso la pipa insieme e digerivamo la gloria di là da venire. Il mio cuore, o piuttosto la mia immaginazione, aveva bisogno di espandersi. Gli parlai delle impressioni ricevute con tanto calore che egli volle leggere il mio scritto e lo trovò bello. «Dammelo,» mi disse «voglio farti amare da quella donna.»
«Eh?!» risposi come sbalordito da quell’enormità.