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Poesie scelte
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RITRATTO FISICO DELL’AUTORE

 
Alto e giusto di forme, e brun di volto;
Nero di ciglia; intento occhio che splende;
Fronte mobile ed ampia; il crin mi scende
Giù per le spalle abbandonato e folto.
Sotto i mustacchi impallida o s’accende
Il labbro; agil la voce, il piede ho sciolto;
Pronti i gesti; talor l’abito incolto;
Ecco il visibil che di me si rende.
I pochi o i tanti che non m’han veduto,
Come leggendo suol crear l’affetto,
Mi fingono sottil, macro e sparuto;
Ma in viso il fior della salute io mostro.
Che importa mai? Si scrive carmi; e il petto
Fuor manda sangue a colorar l’inchiostro!
 

RITRATTO MORALE

 
Or che pinto è il di fuor, l’intimo sguardo
Tenti l’intima vita, e tragga il vero.
Son uom; dunque ier prode, oggi codardo;
Guato il mondo, al ciel penso e di là spero.
Mesto e gaio in brev’ ora; umile e altero;
Subitano al concetto, all’opra tardo;
Vago di lode, indocile d’impero;
Soave, e un po’ talor brusco e beffardo.
Ma simulato mai. Credo al ben; tento
Di farlo; amo chi il fa; spregio la ingrata
Genìa de’ vili; ardite cose io sento.
E come sento, arditamente dico.
Che val s’io batterò via sconsolata?
Son più del ver che di me stesso amico.
 

LA MIA CRONACA DI POETA

Ognun ha il suo diavolo all’uscio.

Prov.

 
Uno stess’orto germina
L’arancio e la cipolla,
Stampa uno stesso artefice
Il vaso illustre e l’olla;
E incido anch’io, poeta,
Nel marmo o nella creta
Febo con Marsia, e Cesare
Da lato a Calandrin.
Ma è sogno da nottambuli
Piacere al mondo. Or odi,
Savio lettor, la cronaca
Del tuo poeta. E godi,
Godi, chè Dio ti fece
Per la viuzza, invece
Che sotto a’ nembi avvolgerti
Su pel dirceo cammin.
La libreria dell’avolo
Là nella mia Dasindo
Mi cominciò gli oracoli
A bisbigliar di Pindo;
Ma l’irto pedagogo
Gittommi il Dante al rogo,
Tonando dal suo tripode:
Pane il cantar non dà.
Pur gli uccelletti cantano
E trovan pane anch’essi,
Io mi diceva; e incorrere
L’ire tremende elessi,
E, con sul petto il peso
Di quel mio Dante acceso,
Dissi alle rose e ai zeffiri
La negra iniquità.
Ma il buon curato, il sindaco,
Lo spezïal persino
Piangean co’ miei le indocili
Follie del birichino,
Ed eran pie soltanto
Del birichino al canto
Le cingallegre, i taciti
Venti e il fiorito april.
Scesi alla dotta Padova
Col fardellin dei carmi,
Lode cercando; e rigido
Nessun volea lodarmi.
Chi con la lente al naso
Mi ruppe il segnacaso,
Chi mi gualcì l’epiteto,
Chi mi castrò lo stil.
Dafni una volta e Fillide
Cantai, del Zappi a modo,
E il molle ovil dei Titiri
Si liquefece in brodo.
Ma dai novelli troni
I torbidi Platoni
Sentenzïâr che pecora
Nacqui e dovrei morir.
Allor destai de’ pallidi
Fantasmi la famiglia,
E l’antro de’ romantici
Muggì di maraviglia.
Ma i Pindari e gli Orfei
De’ logori Atenei
Colle titanie folgori
M’han fatto impallidir.
Poi sulla terra apparvero
Scole, congressi, asili,
Metodi ed altre olimpiche
Buffonerie simili.
E allor perdei la scrima
Del verso e della rima,
E in quel concilio d’aquile
Nessun mi numerò.
Belava un’effemeride:
«Volgi ad amor gl’inchiostri!»
Ruggiva un periodico;
«Vendica i dritti nostri!».
Sclamava una rivista:
«Canta materia mista!».
E il suo bastardo simbolo
Ognun mi balbettò.
Io, spinto fra le cattedre
Di Caifa e di Pilato,
Che far potea? Sugli omeri
Mi son ravviluppato
La veste d’Ecce homo,
E, pubblicando un tomo,
Spiegai, bruchetto incognito,
L’ali iridate al sol.
Greche e romane forbici
Fûr su quell’ale in guerra.
Quanto superbo scandalo
Fra i Danti di mia terra!
Dalle laringi dotte
Schiattâr pustéme e gotte;
Diede itterizie e coliche
Di quel bruchetto il vol.
Senza sentir più redine,
Senza voler più freno,
Corsi a Milan col rotolo
Di Edmenegarda in seno,
E a ricercar mi mossi
Manzoni, il Torti, il Grossi,
E assunto al tabernacolo,
Fissai la trinità.
Ed ella, austera e candida
Come le sante cose,
Al novo catecumeno
Covò le prime rose.
E, quando acuta e fina
Me ne ferì la spina,
Ebbi alle piaghe i dìttami
Talor della beltà.
Povero pazzo! i memori
Fogli sigilla e taci.
Fatti allo specchio, e merita
Sol della musa i baci.
Così non dissi allora
Che mi ridea l’aurora;
Or che s’infosca il vespero,
Comincio ad insavir.
Ma intanto accuse e strepiti
Mi si moveano intorno.
Oh! fosse morto, al nascere,
Della mia fama il giorno?
Petrarchi e Tassi frusti,
Caproni e bellimbusti
Fêr sinagoga il despota
Monello a maledir.
Uno inventò le favole,
Un altro le diffuse;
Chi sporse il monosillabo,
Chi pronto lo conchiuse,
E dietro al dâlli! dâlli!
Gl’insulsi pappagalli
Sul trivio ancor cinguettano
Le ree stupidità.
Sino frugâr nel tumulo
Dove tu dormi, Elisa,
E ti compianser vittima
Da’ miei tormenti uccisa;
Sorgi dall’erma bara,
Ombra sdegnata e cara;
E del compianto ipocrita
Possa arrossir chi ‘l fa.
Tal m’apparì lo splendido
Mio mondo. E il pan che fransi,
Pan tossicato al lievito,
Gittai per terra e piansi;
E imprecai quasi al nume
Che mi vestìa di piume,
Onde agitarle in etere
Livido e reo così.
Poi mi riscossi. E l’anima
Fatta matura e il piede,
Ebbi dal duol più libere
Note, più forte fede,
E camminai. Le spalle
Portâr la croce al calle,
E il cireneo del Golgota
Per me non apparì.
Meglio. Chi pensa e spasima
E non consente al duolo,
Per nude pietre e triboli
Dee camminar da solo.
E camminai. Sul viso
De’ manigoldi ho riso,
E di più bei fantasimi
Il cor mi scintillò.
Addio, febei mirmidoni,
Macre spennate piche,
Addio, volanti retori
Per forza di vesciche:
Latrami contro, o grulla
Prosopopea del nulla;
Fuor di tua riga i cantici
Erato mia pensò.
Ruppe le sacre tenebre
D’Antèla e Mantinea;
Conobbe il sasso e i salici
Di Leutra e di Platea;
Del Simoenta al margo,
Là sulla polve d’Argo,
Sentii di Smirna l’angelo
E per l’Egeo tuonar.
Tu, musa mia, la cenere
Del Ghibellin baciasti;
Tu solitaria visiti
La cameretta d’Asti,
Vaga di freschi allori,
Le antiche glorie onori,
Pensi all’Italia, e vigili
De’ padri miei l’altar.
Lasci una vil politica,
Rosa da tigne e tarpe,
A chi la vende e compera,
Come l’ebreo le ciarpe;
E, in bassi ed alti scanni
Fisando i tuoi tiranni,
Ogni giustizia vendichi,
Fai sacro ogni dolor.
Chiuso nei polsi un rivolo
Del sangue d’Alighiero,
Armi di meste collere
Il tuo civil pensiero,
E, quando il dio ti spira
Fra i nervi della lira,
Tu squarci alla fatidica
Delfo i silenzi ancor.
Deh! non cader. Se un ebete
Vulgo t’offende, oblia.
Lanciò la fatua Solima
Le pietre in Geremia,
E la dardania prole
Rise le illustri fole,
Che pur carpia la vergine
Cassandra all’avvenir.
E fu Sionne un cumulo
Di sassi e di vergogna;
E sugli iliaci ruderi
Sta il corvo e la cicogna.
O musa, i fior, che a nembo
Lasci cader dal grembo,
Possan sull’atrio ai posteri,
Non su macerie olir!
E voi smettete il mugolo,
Spadoni imbrattacarte,
Ch’ella con veglie e lacrime
Fe’ sua la fede e l’arte,
E già da voi ghirlanda
Non sogna e non dimanda,
Perché di malve e d’alighe
Non vuoi fregiarsi il crin.
Canta; e cantando arridimi,
Tu de’ miei dì sorella;
Astro nel ciel; sul pelago
Volante navicella;
Al petto inerme e nudo
Gentil lorica e scudo;
Nome al mio nome; e lampana
Sul mio sepolcro alfin.
 

EDMENEGARDA

CANTO PRIMO

 
Per le vie più deserte, in doloroso
Abito bruno e con un vel sugli occhi,
Passa la bella Edmenegarda, – e al queto
Lume degli astri si raccoglie in una
Romita barca e con le sue memorie
Vaga piangendo.
Misero! che speri,
Se ti percote Iddio? Non è già il mondo
Grandemente pietoso. Egli al banchetto
Della tua casa volentier si reca
E ne sparge di rose i penetrali;
Ma se il cupo dolor veglia alla porta,
Non aspettare il solito conviva,
Ei non verrà!
La bella Edmenegarda
Gioì superba i maritali amplessi,
E sulla fronte di due biondi figli
Depose un dì senza terror le sue
Non colpevoli labbra: e chi sa quante
Donne quei baci invidiâr tremando!
Ella era lieta nel felice stato.
Ma il geloso Avversario d’ogni bene
Consumò la sua gioia; e il fatal giorno
Che si sentì la misera per l’ossa
Serpere il novo affetto, e la battaglia
Troppo forte le venne, a Dio si volse
Delirando e sclamò: «La tua tremenda
Volontà sia compiuta!» – Era la canna
Dal turbine già franta, e sotto ai morsi
Del livido colùbro il fiorellino
Si sperdeva alla terra.
Oh! sull’afflitto
Giovine capo la terribil pietra
Non lanciatela voi, che tante volte
Perdonati cadeste! e nella polve,
Così percossi dal dolor, vi parve
Anco la gioia dei felici insulto! —
Ricco era e bello di viril bellezza
Lo sposo a Edmenegarda. Un incolpato
Nome d’Anglia recava; i suoi silenzi
Lunghi; forti gli affetti; accostumata
A non mutar propositi la mente,
S’anco gemesse la ragion del cuore.
A molte donne della sua contrada
L’altera e disdegnosa indole piacque.
Ei non curò.
Ma nella dolce terra
D’Italia nostra un dì fisse gli ardenti
Lampi degli occhi a Edmenegarda in viso.
Era il loco romito, il sol morente
E inchinevoli l’alme alla tristezza.
E’ le piacque e fu suo. Parea tessuta
Dal paradiso la gentil catena.
Ed ei l’amò di quell’amor che vince
Ogni memoria di passata gioia,
Ogni speranza di futuro bene!
Tremendo amor, che, quando fugge, insolca
Profondamente l’anima di sangue!
Deh, custodite, miseri! il bel sogno,
Che sì celere passa. Ispido verno
(Né sarà tardi) occuperà le vostre
Vedovili giornate, e orribilmente
Vi farà scarni, vipera dell’alma,
La rimembranza. Miseri! suggete
L’ultima stilla del celeste nappo.
Chi ve la turba… impenitente spiri!
– Ben t’avvenga, o dei dogi inclita sposa,
Lïonessa terribile dei mari!
Eri pur or sul tuo letto di rose
Come un’egra gentil, cui sotto l’ombra
Di dolorosi salici, a rilento
Si consumano i dì. Ma un fresco e nuovo
Alito ancora i belli occhi morenti
Ringiovanisce, e sulle forti chiome
Ti splende un raggio della gloria antica.
Oh! tu sei veramente il più leggiadro
Fior dell’Italia, a cui la riverente
Malinconia dello stranier s’inchina,
Mistico fior che in mezzo all’acque vivi!
Ben meritava Edmenegarda bella
Di sorriderti appresso, e, sul materno
Petto serrando le soavi teste
De’ suoi fanciulli giocondar la fiera
Alma d’Arrigo!
– «Oh, vedi come azzurro
Il ciel, placide l’acque! Mi lusinga
Un desiderio di recarmi a Lido.
Ci verrai tu?»
«Non posso.
«Oh che? tel vieta
Qualche dolce ritrovo?» – (e sorridendo
Gli accarezzò le chiome).
«Edmenegarda,
Va’ tu».
«Sola?»
«Che temi?»
«È tristo il mondo
Ed io fragile troppo! – E ancor sorrise
La infortunata). – E poi… da te disgiunta
Andar m’accora».
«A rivederti. Il cielo
E il mar t’inebrii di sue forti gioie;
Poi riedi a me. Mi troverai, tel giuro,
Sposo recente!»
«In ver? Novo portento
Già non sarebbe!»
«La superba!… Addio.
Fatele guardia, o fanciulletti!…» —
A questo
Scherzoso favellar termine pose
Un’armonia di baci. In aspettando,
Canticchiava il nocchier sulla sua barca.
Arrigo strinse la diletta al core;
I bambini traendosi per mano,
Edmenegarda scese.
Onde del mare,
Contrastatele il varco! Aure del cielo,
Convertitevi in turbine! Non possa
La infelice, non possa! Urti piuttosto,
Sdruccioli, cada il remator nell’acque…
Le muoia un bimbo!… Ma che val? – Terrena
Prece non muta i preparati eventi.
Ride il ciel, ridon l’acque, i due bambini
Ridono anch’essi, il gondolier prosegue
La sua canzone; Edmenegarda pende
Sul negro abisso. E son tutti d’amore
E son tutti di pace i suoi pensieri.
Dalle molli rapita ale de’ venti,
Tocca a Lido la prora. E se non fosse
Prepotenza de’ fati, un’altra volta
Io pregherei che ti spezzasser l’onde,
Malvagia barca, tutti tranghiottendo
Questi innocenti – a dissipar le fila
Dell’orrendo peccato. A te da canto
Susurra, o donna, l’angelo caduto
Tenebrose lusinghe; e una fatale
Malinconia nel core insinüarsi
Tu senti già. Meglio per te sarebbe
Un tempestoso delirar di sensi,
Che ti gittasse al marinaio in braccio.
Schifosa e breve durería la colpa!
Ella prese i fanciulli e lentamente
Venne sul lido. Nuda e desolata
È quella terra; e di romite pietre
Sparsa all’intorno. Non le onora un segno,
Non le guarda una croce: eppur custodi
Stanno colà d’una progenie estinta.
Eternamente le percote il vento,
Eternamente le flagella il mare,
A ricordar che su quel cener pesa
La sentenza di Dio. Ma l’uom superbo
Guai se calpesta quelle pietre e ride.
Dopo l’ora mortal non ha la creta
Verità di giudizio; e agonizzante
Cristo pregò dalla sua croce a tutti
Il perdono del Padre!
Inculte rose,
Pochi e pallidi gigli erano intorno
A quei nudi sepolcri.
Oh dilicata
E arguta e forte cortesia di donna!
Edmenegarda il piè dei fanciulletti
Rimovea da quei fior seco pensando:
«I figli miei non vi torranno, o meste
Urne, l’unica gioia, onde si mostra
Liberale alle stanche ossa la terra!»
E sospirò come chi pensi al prezzo
D’una cara pietà nei faticosi
Dí del dolore.
Un suo bimbo, seguendo
Con trepido desío per quella costa
Il vol d’una solinga farfalletta,
In una zolla incespicò.
Vi narro
Comuni istorie: ma son questi i lievi
Stami che annodan l’avvenir.
Sorgiunse
Tempestiva la madre e il vispolino
Trepidando garrì. Ma in quelle strette
Paurose dell’anima, non vide
Che disciolto da’ polsi un vezzo d’oro
Nelle morbide zolle era caduto.
Con certo vago non curar dipinta
Su vi splendea l’immagine d’Arrigo,
Bruno, superbo, dispettoso e bello.
Giorno e notte compagno ella si tenne
Quel diletto ornamento! ed or tra l’erbe
Miste d’un giglio egli smarrito giace
Presso l’avel di giovinetta ebrea,
Morta d’amore. Ricomposti alquanto
I conturbati spiriti, s’accorse
Edmenegarda della rea ventura,
E ne tremò come di lungo affetto
Che improvviso si rompa. E il suo fanciullo
Riguardò corrucciata.
– «Oh tu perdesti,
Mamma, il tuo vezzo!»
«E tu cagion ne sei.»
«Si, veramente» (con voce di pianto
Proruppe il bimbo).
«Non turbarti, o caro:
Il troverem. Ma voi vi trastullate
Là su quell’erbe. Cercherollo io sola.
Il buon Iddio già non vorrà che io peni
Più lungamente». —
Spensierati al gioco
Obliarono tutto i due bambini.
Edmenegarda con rotti sospiri
E tormentosa avidità cercava.
Avrìa gemuto ogni più scabro petto
A contemplar quella dolce persona
Di qua, di là gittarsi incertamente,
Curva, carponi, e con le mani bianche
Frugando in mezzo all’erbe e per le spine,
E tra il vel delle lagrime le ardenti
Pupille sulla terra affaticando.
Non lontano da lei terribilmente
Batteva un core a rimirar quegli atti.
«Eccola! E indarno, indarno sempre il sogno
Della mia vita io seguirò! Né un guardo,
Né un sol guardo di lei questa profonda
Febbre, che m’arde, acqueterà! Che spero?…
Vedi iniqua fortuna? Ella ha smarrito
Qualche sua dolce cosa, e gli affannati
Occhi volge alla terra. Oggi soltanto
Le son sì presso… e non mi vede! Oh sia
Maledetta la cosa che a sè tira
Le ostinate pupille e inganna il lungo
Mio desiderio! Mordere le possa
I bei diti una serpe, onde sollevi,
Almen gemendo, quell’amato capo!
Una volta, una volta ella mi veda
Così scarnato e misero per lei!»
In queste voci di dolor proruppe
Il giovine Leoni.
Era di casa
Patrizia nato. Tra follie consunse
L’età ridente. Nelle bische, ai balli
Splendea su tutti e beffeggiava il casto
Sospir dei fidi o non felici amanti.
Ma nel viso gentil d’Edmenegarda
Un dì scontrossi e ne tremò. Del suo
Turbamento si rise, e non pertanto
Anelò rivederla: e una cocente
Torbida fiamma al fatuo cor s’accese.
Da quell’ora solingo egli passeggia;
Non più lieti convegni, orgie notturne,
Riso e feste d’amici. Arde il leggiero
Schernitor degli affetti; arde. La cerca,
La perseguita ovunque, e se per caso
Un lampo de’ suoi belli occhi rapisce,
Gela ed avvampa di convulsa ebbrezza.
A lui la notte, in pria fredda e deserta,
Or tutta è un sogno del celeste viso,
E il giorno un’acre voluttà superba
Di ricomporlo nell’ardente idea.
E come in quell’istante ogni movenza
D’Edmenegarda, e le fuggenti trecce,
E il fluttüar degli scomposti veli
Ei divorava!
– «Quanta cura!… Or dunque
Smarrito ha il paradiso?»
E anch’ei si pose
Sdegnosamente a ricercar. Né appena
L’orme e gli occhi per caso avea sospinti
Presso l’avel della fanciulla ebrea,
Che sotto al gioco dell’obliqua luce
Un lampo uscì dalle non peste zolle,
Il vezzo è già nella sua man. Vi scôrse
Le sembianze d’Arrigo. A Edmenegarda
Volò.
– «Guardate!… Io lo trovai!… Guardate
Aman tutti, – ed io solo, io senza amore
Passerò dalla terra!»
E nei convulsi
Moti dell’ira il fatal vezzo infranto,
Gittollo ai piedi della donna e sparve.
Fu l’opera d’un punto. Ella non seppe
Domar gli occhi; il mirò; di nessun’altra
Cosa le calse; piangere l’intese…
E a goccia a goccia come piombo ardente,
Nei tumulti del core impäurito
Sentí stillarsi quel terribil pianto.
Ne gemettero gli angeli. Percossa
Quell’infelice dall’orrendo caso,
Si stringe a’ figli; ma sudor le gronda
La chioma e il volto, e gelido è l’amplesso.
Tenta pensar d’Arrigo; ma turbata
Le traballa l’imagine alla mente;
Tenta pregar; non puote. Intorno gli occhi
Slancia tremando; li raccoglie ai figli.
Gli apre, gli chiude, misera! non puote,
E gli apre ancora avidamente e cerca…
Chi?… Piangetene, o cieli!
Consumata,
Consumata nell’anima è la colpa.
Ed ahi sí presto!
Che misteri asconde
Di dolor, di fortezza e di peccato
Questa superba e lagrimabil creta!
Tu pregherai, tu spererai, ma indarno.
O Edmenegarda, il demone con molte
Fatiche ha comperato la sua preda;
Per anni molti ei la vorrà. Che importa
Se tu ti slanci al tuo legno fuggendo?
Che importa, se la bruna navicella
Va come lampo, e pur gridi affannata
Al remator che acceleri la corsa?
Che val, se il tempo col desío divori?
Tendi gli orecchi. Non ti fêre un novo
Romor nell’acque? Volgiti! non odi?
Come larva notturna, che persegue
L’agitato pensier del viandante
E gli fa tardo il passo, il respir greve,
Or rotti or doppi i battiti del core,
Presso il navil d’Edmenegarda un altro
Venía solcando; e la medesim’onda,
Che dall’uno, dall’altro era percossa.
O Edmenegarda, volgiti! non odi?…
Ahi, che duro pallor t’ha ricoperta!
Che abbandono di sensi!
I tuoi fanciulli
Ti credono dormente, e si fan cenno,
Ponendo il dito sulle rosee bocche,
Di non turbarti quell’amabil sonno.
 

CANTO SECONDO

 
Sfiora le eccelse cupole, tra gli archi
Vagola e trema sugli azzurri flutti
Con la pietà d’un fuggitivo amante
Il sol che muore: ed un suo raggio estremo,
Ferendo i vetri alla romita stanza
Posa sul crin d’Edmenegarda.
Oh sole,
No, non lasciarla. Anche su lei risplendi;
È bella ancor questa colpevol fronte.
Simigliante ad un naufrago, che manda
L’ultimo grido, e vinta la persona,
Le disperate mani incrocia al petto
E piega il capo sotto l’onde e spira;
Così la combattuta Edmenegarda
Col suo dolce peccato ahi! s’addormenta.
«Tutti son lungi; ed io qui sola il noto
Rumor sospiro degli amati passi!
E ancor non viene! Ei non dovria lasciarmi
Il mio Leoni a questo tetro sogno.
Non teme ei forse ch’io svegliar mi possa?
Sì consumata nel fallir sarei?…
Oh infame il giorno che mi fûr recate
Queste note d’amore!!»
E su dal seno
Una lacera carta ella traendo,
V’infisse i lumi; la baciò; la strinse
Tra le palme e gemette.
«Io ben rammento
Che, appena l’ebbi, la gittai nel foco…
Ma estinto il soffio del dimòn l’avea.
Lungo era l’atto a lacerarla intera…
Io nol potei!»
Che sogna la demente?…
Arsa l’avrebbe?… Ah, se stridea la fiamma
Lí pronta a divorarla, indi ritorti
Avrìa gli occhi la misera. E se un primo
Impeto pur ve la traea, sparmiato
Già non avrebbe le sue belle vesti
E le man dilicate, onde salvarla
Dalle subite vampe.
Oh! qual periglio
Può rattener la donna innamorata,
Quando la punge quell’acuto immenso
Empio patir?
Deh, non parlar di queste
Crëature sì fragili e possenti,
Tu non nato ad intendere che il vile
Gaudio d’averle e d’oblïarle sempre!
«Duro è l’indugio. E ancor non vien!»
Si desta
Da lunge un’eco: Edmenegarda ascolta
Avidamente; le si fan le gote
Porpora viva… Il suo Leoni è giunto.
«– Addio, diletta!»
Ella si tacque; e un lungo
Sospir traendo, con le molli braccia
Gli cinse il collo e lo baciò.
– «Divina
Sei veramente! Durassero eterne
Quest’ore! Stolto! io non credea che tanta
In sé chiudesse voluttà la terra!…
Dov’è sembianza che alla tua somigli?
Chi non daria per queste chiome un regno,
Per baciar mille volte, com’io faccio,
Queste tue chiome, e a forza di baciarle
Stemperarsi d’amor, com’io mi stempro?…
Sì, Edmenegarda!… Piega la tua testa
Qui sul mio cor!… Deh, senti come batte
Un cor d’Italia… Ah, questi miei non sono,
Non son gli amplessi del superbo Inglese…»
«– Leoni mio, non proseguir!… Ti prego
A mani giunte, non mi far morire!…
Troppa è l’ebbrezza che nel cor mi versi;
Ma per pietà non proferir quel nome!…
Io non ho forza a sostenerlo!… Taci!…»
«– Ei ti disama; non t’amò giammai.
Co’ suoi gelidi modi ei ti contrista,
Gentil rosa d’amor! Ben meritava
D’aversi a moglie una rubesta donna
Delle carniche rupi, e non la dolce
Edmenegarda mia!»
«Deh! più non dirne;
Mi son pugnale avvelenato all’alma
Le tue parole! Ei sì ancor mi ama Arrigo,
Troppo umano e cortese a questa sua
Miseranda colpevole!… Che fora,
S’ei risapesse?… Oh mio Leoni!… Un serpe
Mi rode il core!… Io lo disamo, io sola;
E si tormenta il misero a vedermi
Tramutata così!»
Può far portenti
La pietà nei gentili. Ed ella intensa
La sentia per Arrigo. Arse Leoni
In quel fiero sospetto: e sulle labbra
Dal core offeso gli suonâr parole
Sino allor non proferte.
– «E cieca or tanto
Fatta sei tu?… Veder ne lo potessi
Sotto i vecchi palagi, com’io ‘l vidi,
Passeggiar sorridendo! Egli divora
Tutte degli occhi queste nostre donne,
E, immemore di te, forse possiede
Nel suo vil desiderio altre sembianze,
Che un raggio, un’orma della tua non hanno».
«– Leoni, è tempo di tacer!»
«Non anco,
Edmenegarda!… Lasciali i rimorsi
A lui che vola a comperati amplessi,
E svergogna cosí questo suo dono.
Non meritato dal Signor!» —
Le guancie
D’Edmenegarda in una calda fiamma
Si tramutâro.
«Ascoltami, Leoni!
Tu menti; è vano il dubitar; tu menti!
Deh, così basso non cader! Non farmi
Più pesante la colpa! Almen mi lascia
Questa alterezza, che in vulgar persona
Io non locai l’affetto. Intender tanto
Non credea dal tuo labbro. Arrigo è fiero,
Arrigo mio, più di quant’altri alberga
La vostra Italia. Ei non sapria macchiarsi
Di gelose menzogne. Egli, il mio sposo,
Pria di mentir, morrebbe. Or via, mi guarda;
Gli occhi ho pieni di lagrime!… Sei pago?»
«– Edmenegarda!… Se le atroci ambasce,
Che mi schiantano il cor le risentisse
Una fragile donna, ella saria
Sepolta già. Dissimular che giova?…
Voi l’amate, l’amate!»
«Oh così fosse!…
Perchè trarmi dal core anche il rimorso?»
«—No, Edmenegarda, non lo dir!… Ma vedi!…
Vedi come per te cieco son fatto!
Questa indomita febbre è la mia parte
D’aria e di sole. Io morirei senz’essa.
Credi, non sente amor chi lo divide!…
Edmenegarda mia, vile io non sono!
Questi crudi, che a voi povere e frali
Insegnaron la colpa, e poi non sanno
Sentir la gioia dell’avervi intere,
Paghi d’un bacio che a sbramar li venga,
Questi tutti son vili!» —
Dallo sguardo
D’Edmenegarda, ai concitati accenti,
Lampeggiò l’allegrezza; e intorno al collo
Gli ripose le braccia; e figli e sposo
Svaniron lenti dalla sua memoria
Sotto il vel dell’oblio, che il novo affetto
Continuatamente iva tessendo
Più fitto sempre.
Ma sorrider lieta
Già non sapeva.
– «Oh mio Leoni! Infauste
Giornate il cor mi presagisce. Ah sempre
Amami, sempre com’io t’amo; e queste
Parole mie non oblïar. La terra
Mi tesserà dolori, avvilimenti;
Io sarò forte a sostenerli. In core
Mi languirà la prece, e disperata
Io non cadrò. Se mi mancasse il pane,
Non saliranno i miei lamenti a Dio;
Me l’avrò meritato!… Ma, se mai
Tu… mi lasciassi…»
«Angiolo mio! Quai fole
Per la mente ti passano? Sorridi,
Edmenegarda. Or via; caccia dall’alma
Queste vaghe paure!… E non ti basta
L’amor mio tanto?…»
«Oh sì, mi basta!… E vedi
Ch’io son tranquilla. Ma tu pur, diletto,
Non affannarmi; non voler ch’io tremi
Dell’ire tue! Qual gloria indi n’avresti?…
Che resta a noi, se non amarci?» —
A queste
Voci d’affetto sospirò Leoni
Di profonda amarezza, ed esitando
La man le porse, come con quell’atto
Perdon le dimandasse dello averla
Contristata così.
Sul core afflitto
Ella serrò la cara mano… e tacque!
Molti dolori chi molto ama oblia!
Sceso era già dall’orizzonte il sole
E in grembo alle romite aure del loco
Movea un suon di reconditi sospiri
Rotti da qualche inebrïato accento.
Ma quella sera sulle dolci mura
Calâr tetri i crepuscoli; alle imposte
Mugolarono i venti; e sembrò voce
Quasi di pianto il mormorar de’ flutti.
Anche l’addio delle tremanti bocche
Alla forzata ilarità del volto
Non rispose quel dì.
Nelle fatali
Soglie si nascondea la preparata
Ira del Nume; un innocente bimbo.
Il sottil laccio tra la siepe al falco
Ghermisce il collo, e la invisibil goccia
Colmo alle ripe l’Oceàn travolve.
Per quelle sale con aerei passi
Trasvolando Leoni, non s’avvide
Del fanciulletto che di là per caso
Passava. Urtollo; e il poverino a terra
Giacque ferito nella bella fronte.
Leoni come lampo gli si tolse
Dagli occhi. Accorse alle dolenti strida
La madre.
– «Oh santa Vergine! Rispondi;
Rispondi; angelo caro. Che hai tu fatto?…»
«Mamma, non io; ma quel signor del Lido…»
«—Taci; t’inganni; non è ver. Non deve
Un bel fanciullo lagrimar. Se taci
Se non parli ad alcuno, io ti prometto
Che un bell’abito avrai, ma de’ più belli
Che si veda in Venezia.» —
Ed asciugando
Il poco sangue del picciolo viso,
Molte feste gli fece. Alle carezze
Inusitate da gran tempo, e al gaio
Promettere, il fanciul serenò gli occhi
Subitamente; e non finìa la madre
Di carezzarlo.
Una crudel tempesta
Da molti giorni si mescea frattanto
Nell’anima d’Arrigo.
Ove fuggito
Era quel dolce, quell’amabil riso
D’Edmenegarda sua? Perché sì mesto
Il sonar della voce e sì frequente
Lo scolorir del volto? onde quel vago
Svïarsi de’ pensieri e quel profondo
Compatir delle colpe?… e se festiva
Talor si mostra, perché mai traluce
Dalle note e dai gesti un doloroso
Sforzo dell’alma? la cagion del fiero
Mutamento qual era?…
Ella altre volte
D’Arrigo a canto procedea superba,
L’ondeggiar delle vele e il varïato
Gioco de’ raggi e il luccicar dell’acque
Lietamente notando. Ai vaghi aspetti
Era gelida adesso e di mirarli
Rifuggìa quasi. Nel leggiadro core
Altre volte un desio caldo la punse
Di visitar le insigni opre dell’Arte
In compagnia d’Arrigo; or da gran tempo
Non vedea quelle sale; e senza cura
Abbellìa la persona; e senza affetto
Educava i suoi fiori.
«In che le spiacqui?
Talor diceasi Arrigo. E donde nasce
Quel tormentoso infastidir di tutto?…
Quei rotti sonni?… Quel tremar talvolta
Nelle mie braccia?… Oh che?… Forse?…»
E dal bruno
Fronte gocciava qualche fredda stilla.
Poi, ripensando alle celesti gioie
Da Edmenegarda avute; e a quella tanta
Vita d’amor pei figli; e a sè guardando
Giovine e bello e da tanti anni amato
Con timida allegrezza, ebbe vergogna
Di dubitar.
Né sì profondo infitta
Gli restò come pria dentro al pensiero
Una persecutrice ombra, che sempre,
Con la sua dolce Edmenegarda uscendo,
Su’ lor passi incontrava.
– «Oh l’importuno!
Che pretende costui?» proruppe un giorno
Con la sua donna Arrigo.
«E che?… Vorresti
Impedirgli la via?» —
Si ricambiaro
Ambo un sorriso; e fu sì casto e pieno
E confidente, che potea di mille
Sospettose paure esser compenso.
Ma quando acuta i visceri penètra
La vipera del dubbio, ella consuma
Fieramente la vita, e non è forza
Ch’indi la tragga. Nel fervor dei prandi,
Nella vicenda de’ convulsi giuochi,
Tu crederai di seppellir quel mostro;
Ma sorgerà. Nelle sonanti corse,
Tra i tumulti del dì, nella notturna
Melodia d’un’angelica canzone
Che di tepido oblìo l’anima incanta,
Tu crederai di seppellir quel mostro;
Ma sorgerà. Né sull’altar di Dio,
Dove si placa ogni tempesta umana,
La prece e il pianto t’usciranno in pace.
– «Vieni, Adolfetto mio: dolce è la sera;
Vieni a San Marco. Vi vedrai di molti
Vispi fanciulli. Tu sta’ ritto e bello.
Fa’ loro invidia».
Vezzeggiando al padre,
Battè palma con palma il fanciulletto
Tutto contento, ed abbellir si fece.
Nero il turbante, come neve il collo,
Ceruli i guardi, cerula la veste,
Biondi i capelli, inanellati e lieve
Per l’omero scorrenti, era Adolfetto
Un angelico incanto. E parea nato
Quel soave fanciullo a render miti
Con la tanta bellezza anche le fiere.
– Sei pur vaga, o Venezia, e lungamente
Memorabile e cara alle pietose
Fantasie del mio cor! Chi porta gli occhi
La prima volta sull’eterne torri
Del tuo San Marco e non sospira, è degno
D’assiderarsi alle perpetue brume
Del Boristene. Chi trascorrer lascia
Le gentili tue donne e non si sente
Rapito all’aria de’ leggiadri aspetti,
Non merta mai bacio d’amante. E quando
Al grazïoso favellar festivo
Non esilara il cor, l’ultima Islanda
Io ben dirò che gli fu madre.
Al cupo
Tempestar della mente e agli odii ingrati
Della terra natale, e a qualche arcano
E tremendo peccato, in queste tue
Ospiti rive, dopo lunga guerra,
Trovò riposo un esule; e talvolta
Brillò la gioia ne’ fulminei sguardi
Del poeta d’Aroldo.
Alle solinghe
Ore di quella travïata i canti
Del poeta d’Aroldo eran compagni.
E quella sera le correan a forza
La mente e gli occhi sui dolenti casi
Di Parisina. Alla fatal lettura,
Ecco repente tramortir la lampa,
Stridere i vetri: ella riapre e chiude
Più volte il libro, e pallida, d’intorno
Sguardando, le parea dalla oscillante
Parete lampeggiar l’ombra del duca.
Popolata è la piazza, e sotto il doppio
Ordin degli archi in allegria passeggia
La varia gente. Assiso era col padre
Il fanciullin da un canto. E con le bianche
Dita sfogliava una recente rosa
Che la gentil fioraia, in trapassando
Data gli avea. Dal doloroso petto
Sospirò Arrigo a contemplar divelta
La beltà di quel fior.
– «Perchè sospendi,
Adolfetto, il tuo giuoco?… A chi riguardi
Sì fisamente?… Di’; conosceresti
Quel signor bruno?…»
«Se il conosco! e molto
Male ei mi fece!…»
«Che?»
«Spinsemi a terra».
«Dove?»
«Fuggendo per le nostre sale».
«Tu sogni?»
«Babbo mio, deh! non guardarmi
Sì corrucciato».
«Parla, angelo, parla!…»
«La mamma corse ed egli era scomparso.»
«Ed è quello?»
«Sì, quello.»
«In lontananza
Forse t’inganni!»
«Oh no.»
«Quando ripassa,
Guardalo attento!» —
– Ripassò Leoni. —
– «Dunque?…»
«Gli è quello!» —
«Arrigo si coperse
Di mortal pallidezza! i polsi un tratto
Gli si allentâro; e sotto alla vergogna
Sospirò di morire. Il paradiso
Della sua vita si chiudea per sempre!
Ma dopo gli urti di quel primo affanno,
Che ogni forza, ogni senso gli scompose,
Dell’aere diffuso al refrigerio,
Pietosamente assursero in Arrigo
I secondi pensieri.
«Ella tradirmi!…
Ella sì amante, che parea vivesse
Del soffio mio!… Tradirmi ella, mendìca
E allo splendor delle mie nozze assunta!
Ella che sempre io nominai coi nomi
Più giocondi e soavi!… Arrigo, acqueta
L’anima ardente… e non potria quel folle
Essersi appena avventurato un giorno
A tentar le mie soglie, e così offesa
Edmenegarda dispregiar quell’atto,
Da non curarne o vergognar tacendo?
Talor maestro di sospetti è il caso
Perfido e vile. Ma… quel novo stato
Di tristezza che l’occupa!… Parlarle
Uopo è una volta. Oh incanutir le chiome
Mi possano oggi! Mi diserti il cielo
D’ogni ricchezza, un misero sepolcro
Copra i miei figli… ma non sia l’orrendo
Fallo; non sia!…»
Da una lampada d’oro
Sul letto nuzïal d’Edmenegarda
Una timida luce si diffonde
Velatamente.
Ella è soletta, e il capo
Stanco reclina tra le ardenti palme.
E pensava, pensava!… E in quei pensieri
Era un torbido assalto di paure,
Di rimorsi, d’amor, di pentimenti,
E indomato un desio di sovvenirsi,
E un lungo sforzo d’oblïar.
Da quella
Mutua battaglia alfin scosse la testa.
Arrigo entrò. Lieve un tremor sul labbro,
Lieve un pallor; non altro. – E a lei vicino
Si pose.
– «Arrigo!»
«Edmenegarda! È tempo
Ch’io vi favelli. Rammentate i giorni
Del nostro amore? Ei furon lieti!… e forse
Non torneranno più!…»
«Tristo è il presagio,
Arrigo mio! »
«Sentite, Edmenegarda.
Qualche mistero di dolor vi siede
Nell’anima profonda. Io non vorrei
Aver fatto una misera. Quel giorno
Che legai la mia fede (oh così amaro
Non credea mi tornasse il ricordarlo!)
Quel giorno come adesso, io tenea stretta
Nelle mie la tua mano… e questi accenti
M’uscîr dal core: Edmenegarda, eterni
So che non duran sulla terra affetti.
O inesorata li spegne la morte,
O li lacera il mondo. Io credo e spero
Che mi amerai… Ma… se una volta stanca
Di me tu fossi… se al tuo cor non pari
Trovassi il mio… se di tristezza e noia
I tuoi giorni languissero… prometti
Che parlerai, prometti! – E a te piangente
Parve strano quel dir; tu non credevi
Che quest’ora arrivasse…. Edmenegarda,
Tu nol credevi! – Or via; parla una volta:
Che ti contrista?… Questa lunga e dura
Serie di giorni desolati – è troppo.
Parla; ti versa nel mio cor. Non sono
L’amico tuo?…» —
Fu dieci volte spinta
Quella infelice a rivelar la colpa.
Ma il terror, ma l’amor, ma quella stessa
Bontà d’Arrigo, a cui tanta ferita
Già recar non sapea, miseramente
La rattennero – e tacque.
«Oh più non dirmi
Di sì dolenti cose! A te ben noto
Esser dovria perchè sì mesta ho l’alma!…
Son questi i giorni che a’ miei dolci colli
Gir mi lasciavi; e della madre in seno
Io deponeva i verecondi arcani
Del mio felice vivere! – Da un anno,
Sai ch’ella… è morta!…» —
E, a quella pia memoria,
Le cadeva una lacrima, confusa
Col rossor di meschiar l’urna materna
Alla prima menzogna.
– «Edmenegarda!…
Null’altro?… Questo… veramente questo
V’amareggia?… Null’altro?…»
«E perchè fiso
Così mi guardi?» —
Tutto in quell’occhiata
Edmenegarda intese; e la sostenne
Imperterrita.
– «Ascoltami!… Un atroce
Dubbio m’agita l’anima. Più a lungo,
Viltà sarebbe il mio tacer. – Conosci…
Certo Leoni?…» —
Un gelido trabalzo
Urtolle il core, ma passò qual lampo.
– «Lo conoscete? »
«Arrigo mio, perdona
Se ti sorrido… Io sì che lo conosco
Quello scortese. Un dì, male avviato,
D’ignote genti a dimandar qua venne;
E, nel partirsi, inavvertito, a terra
Spinse Adolfetto nostro.»
E, proferendo
Le mendaci parole, un’aria assunse
Di maraviglia, d’innocenza e pace.
Ei la guardò; ma l’ineffabil riso
Tuttavia nei sereni occhi brillava.
Caderle ai piedi, stringerla, baciarla
E ribaciarla; e non finir di dirle
Mille accorate e mille dolci cose
Fu per Arrigo un punto. Era oblïato
L’orgoglio inglese in quegli atti d’amore!
E l’abbracciava il misero!…—
Un istante
Che allentato si fosse il tempestoso
Urto di quella ebbrezza, avria sentito
Tremar sotto gli amplessi orribilmente
Le colpevoli membra, e sotto i baci
Farsi di gelo la convulsa bocca.