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Czytaj książkę: «Istoria civile del Regno di Napoli, v. 9», strona 6

Czcionka:

Nuovi sospetti s'aggiunsero nel nuovo anno 1636, che obbligarono il Vicerè alla difesa del proprio Regno. Per li continui timori, che dava la Francia, fu fatto arrestare un Frate Agostiniano, per sospetto d'intelligenza co' Franzesi, chiamato Fr. Epifanio Fioravante da Cesena, il quale posto fra' ceppi rivelò, che i Franzesi meditavano far delle irruzioni in diversi luoghi del Regno, e che tenevano la mira anche d'invadere la città dominante; anzi soggiunse, che il famoso bandito Pietro Mancino, di concerto, dovea impadronirsi del Monte Gargano, per consegnarlo al Duca di Mantova, e porre sossopra tutta la Puglia. Ciò saputosi, fu di mestieri al Vicerè, con esorbitantissime spese, fortificare Barletta, Taranto, Gaeta, ed il Porto di Baja, dove vi fece edificare due gran Torri, di ristorare la Fortezza di Nisita e le mura di Capua: di terminare le fortificazioni dell'Isola d'Elba, detta comunemente Portolongone, principiate già dal Conte di Benavente; di provvedere tutte le marine del Regno di soldatesca e di mettere in mare trenta vascelli e diece Tartane. E per maggior custodia della città fece prender l'armi a diecemila persone del Popolo napoletano, poste sotto il comando di D. Giovani d'Avalos Principe di Montesarchio. Ma il tempo fece da poi conoscere, che questi timori venivan dai Franzesi, non per altro fine, che obbligando il Regno alla propria difesa, venisse con ciò ad impedire i continui soccorsi, che da quello si mandavano in Milano, onde il Monterey penetrato il disegno, sollecitò nuovi soccorsi, e spedì in Lombardia sopra alcuni Vascelli e Galee i Reggimenti de' Maestri di campo D. Michele Pignatelli, Tiberio Brancaccio, Achille Minutolo, Giambattista Orsini, Pompeo di Gennaro, Girolamo Tuttavilla e Romano Garzoni, oltre a mille cavalli, che Giantommaso Bianco vi condusse per terra. Ciò che fece risolvere al Marchese di Leganes, accresciuto di sì validi soccorsi, di venire coll'inimico a battaglia in Tornavento, nella quale gloriosamente vi morì Girardo Gambacorta de' Duchi di Limatola Generale della cavalleria napoletana, siccome avvenne a Lucio Boccapianola sotto Vercelli.

Non furono veduti ne' passati governi degli altri Vicerè soccorsi sì spessi e sì potenti cavati dal Regno quanto quelli, che si fecero in tempo del Conte di Monterey, non solo per lo Milanese, ma per la Catalogna, per la Provenza ed altrove; e coloro che si presero la briga di tenerne conto, calcolarono, che di gente il numero arrivò a cinquemilacinquecento cavalli, e quarantottomila pedoni; e di denaro la somma ascese a tre milioni e mezzo di scudi; oltre al denaro consumato nelle fortificazioni delle Piazze del Regno, nell'arrollamento di tanta gente, nelle spedizioni dell'Armate navali, nel mantenimento dell'Isola di S. Margherita, nella fabbrica di sei vascelli da guerra e d'alcune Galee per accrescere la Squadra al numero di sedici, e di ducentotto pezzi di cannoni, come anche in quella di settantamila archibugi, moschetti e picche per la fanteria, e delle pistole e corazze per la cavalleria.

Cotante, e sì insopportabili spese tutte uscivano dalle sostanze de' sudditi, e dalli Patrimonj della città e delle Comunità del Regno, che continuamente eran costrette a somministrar nuove somme per la necessità di tante infelici e mal fortunate guerre, e per li tanti e continui bisogni della Corte di Spagna; donde fu in buona parte cagionato il debito di quindici milioni, del quale si trovava aggravato il Patrimonio della città, la quale ne pagava l'interesse ai creditori del frutto, che perveniva delle sue gabelle. E ciò nè meno bastando furono più volte a' forastieri tolte le loro entrate, e sovente anche quelle che possedevano i regnicoli sopra gli arrendamenti, e' fiscali. S'imposero per ciò molte altre gravezze, essendosi aggiunto alla gabella della farina, prima cinque grana, poi altre sette per moggio: un grano per rotolo alla gabella della carne, ed un carlino sopra ciascun stajo d'olio. Ciò che non seguì senza contrasti ed opposizioni, considerandosi non solo le grosse somme spremute in pochi anni dal Regno, ma che buona parte andava a colare, non già nella cassa del Re, ma nell'altrui borse, e che sempre via più crescendo i bisogni, e l'un chiamando l'altro, venivano i popoli a soffrire insopportabil giogo; onde fu risoluto spedire al Re D. Tommaso Caraffa Vescovo della Volturara, perchè avesse di tante miserie ed afflizioni compassione, e vi desse conforto; ma queste missioni, per li bisogni urgenti che tuttavia crescevano, riuscivano tutte vane ed inutili. Bisognò pagare i seicentomila ducati, che il Cardinal Infante dimandò da Milano: continuare a sostenere le soldatesche, che guardavano il Regno: unir nuove milizie per reclutare gli eserciti, che teneva scarsi la Spagna in più luoghi; fornir l'armate navali, e sostenere l'Isole di S. Margherita e di S. Onorato occupate in Francia, finchè di nuovo, nel mese di maggio del 1637, costrette dalla fame, non cedessero all'armi di quel Re, e tornassero sotto il di lui dominio.

In mezzo a tante calamità non tralasciava però il Conte di Monterey i sollazzi, le commedie e le cacce, alle quali era inchinato: nè mancò, imitando i vestigj de' suoi predecessori, di lasciare a noi belle memorie della sua magnificenza. Egli rese più ampia e comoda la strada di Puglia: arricchì li fonti della città d'acque più abbondanti, e fecene innalzar un altro sul muro del fosso del Castel Nuovo; ma sopra tutto erse quel magnifico Ponte, che congiunge la contrada di Pizzofalcone con quella di San Carlo delle Mortelle. La Contessa sua moglie pur ci lasciò un monumento perenne della sua pietà, avendo fondato in Napoli il Monastero della Maddalena, per sicuro asilo delle donne spagnuole, che abbominando le passate lascivie, volessero ivi ridursi a menar vita casta.

Ma con tutto che il Conte di Monterey fosse cotanto benemerito al Re per li tanti soccorsi mandati, mancò poco però, che il Conte Duca per vantaggiar la sua Casa, non lo richiamasse, non avendo ancor finito il secondo triennio del suo governo. La cagione si fu il matrimonio da lui ambito di D. Anna Caraffa Principessa di Stigliano col Duca di Medina las Torres. Questa Signora per la morte di D. Antonio Caraffa Duca di Mondragone suo padre, e del Principe Luigi Caraffa di Stigliano suo avolo, era rimasa unica erede di floridissimi Stati. Isabella Gonzaga sua avola figliuola, ed erede di Vespasiano Gonzaga Duca di Sabioneta, l'avea ancora arricchita di questo titolo e di queste ragioni: per ciò il Conte Duca non avendo potuto perpetuar la sua Casa ne' discendenti della figliuola, che fu moglie di D. Ramiro Gusman Duca di Medina las Torres, e morì senza prole, desiderava per questo suo Genero, ch'egli da semplice Cavaliere avea innalzato cotanto, di trovare una sposa, niente inferiore alla prima. Fece credere al Re, essere questo matrimonio espediente per poter ripetere Sabioneta, di che già i Principi d'Italia se n'erano insospettiti26; e per ciò, ancorchè trovasse durezza nell'avola, sollecitò le nozze colla madre della sposa per mezzo del Cardinal suo fratello: la quale, colla promessa del Viceregnato, che s'offeriva al Duca, fu facilmente guadagnata: la sposa, ambiziosa di vedersi Viceregina, vi condiscese parimente; onde partitosi di Spagna il Duca con carattere di Vicerè e di Castellan perpetuo del Castel Nuovo, giunse colla squadra delle Galee di Spagna in Napoli, dove nel palagio della Principessa, presso la Porta di Chiaja, fur celebrate le nozze.

Intanto il Conte di Monterey accingevasi alla partenza, ma avvisato il Conte Duca essere già seguito il matrimonio, scrisse al Monterey, che non conveniva per le fastidiose congiunture delle guerre d'Italia partire, non essendo ancor terminato il suo secondo triennio; onde gli sposi rimasero delusi, e convenne al Medina trattenersi nel Regno da privato, con dispiacere non ordinario, non men suo che della moglie, e molto più della Duchessa di Sabioneta, la quale, avendo sempre dissuasa la nipote a far tal matrimonio, non mancava di mordere pubblicamente l'azioni del Conte Duca, e biasimare la soverchia semplicità della Duchessa di Mondragone, del Cardinale e degli altri congiunti della nipote, che s'erano fatti ingannare dalle promesse dell'Olivares. Ma passato un anno, parendogli non poter più trattenere, mandò il Conte Duca ordine della Corte, che si desse al Medina il possesso. Così depose il Monterey il Governo, dopo averlo esercitato sei anni; ed a' 12 novembre di quest'anno 1637 ritirossi a Pozzuoli, donde proseguì poi il suo cammino per la Corte. Ci lasciò il Monterey molte savie e prudenti leggi insino al numero di quarantaquattro, per le quali riordinò i nostri Tribunali e quelli della Bagliva, e delle Regie Audienze; riordinò gli affitti e le vendite delle rendite e beni fiscali, i cambj e gli apprezzi: proibì severamente i duelli e l'esportazione di qualsivoglia sorta d'armi: fece diverse ordinazioni per ovviar le fraudi che si commettevano nella Dogana, e maggior Fondaco di Napoli: vietò l'uso smoderato delle vesti, servidori e carrozze: impose su la testa del famoso bandito Pietro Mancini una taglia di tremila ducati, oltre la facoltà d'indultare quattro persone: tolse le Gabelle delle Carte e del Tabacco, ancorchè da poi fossero state di nuovo imposte; e diede molti ordini pel Governo e disciplina de' soldati del Battaglione, e pel grado di Dottorato da darsi, così in Legge, come in Medicina, ed altri provvedimenti che vengono additati nella Cronologia prefissa al primo tomo delle nostre Prammatiche.

CAPITOLO IV
Del Governo di D. Ramiro Gusman Duca di Medina las Torres; e de' sospetti che s'ebbero di nuove invasioni tentate da' Franzesi

Il Governo del Duca di Medina, durando le medesime cagioni, anzi vie più crescendo, non poteva riuscire men gravoso a' sudditi, che il precedente. Le guerre infelici, che consumavano gli Stati della Monarchia di Spagna, mantenevano tuttavia, anzi rendevan assai più esausto l'erario regale, ed in continue necessità di denaro. Il nostro Reame era il bersaglio infelice, dove per provvedersene si dirizzavano tutti i disegni, e nulla pietà avendosi delle miserie estreme, nelle quali era il Regno caduto per le somme immense cavate in tempo del Monterey, altre nuove se ne richiedevano. Furono perciò imposte nuove gabelle e dazj, ed accresciuti gli antichi: s'aggiunsero gravezze alle sete, all'olio, al grano, alla carne, a' salumi; e s'imposero nuovamente alla calce, alle carte da giocare, all'oro ed argento filato, e sopra tutti i contratti de' presti, che celebravansi nella città e nel Regno. S'introdusse, all'uso di Spagna, la gabella della carta bollata, della quale bisognava necessariamente servirsi in tutti li contratti e negli atti giudiziari, sotto pena di nullità; quantunque poscia, come cosa troppo odiosa, fosse stimato meglio sopprimerla. S'arrivò a tale estremità, che si pose sul tappeto il dazio d'un grano il giorno per testa agli abitanti di Napoli, per lo spazio di quattro anni; e facevasi il conto, che toltone gli Ecclesiastici ed i putti, se ne sarebbero cavati cinque milioni di scudi: ma poscia, essendosi considerato il pericolo che si correva di porre in pratica tal esazione, e quanto avrebbe sembrato intollerabile al Popolo questo peso cotidiano, si lasciò di più parlarsene.

Si tassarono bensì tutti i Mercatanti ai pagamento di duecentomila ducati per pagarne le soldatesche: si venderono li Casali di Napoli, quelli di Nola, e molti altri luoghi demaniali, che non ebbero modo di ricomprarsi, passarono dalla libertà che godevano sotto il Demanio Regale, alla servitù de' Baroni.

E perchè niente mancasse, il Vicerè fece convocar un Parlamento generale, dove per Sindico intervenne D. Ippolito di Costanzo, nobile di Portanova, e s'estorse dal Baronaggio e dal Regno un donativo d'un milione di ducati, in vece d'una nuova gabella di cinque grana per moggio di frumento, che pretendevasi d'imporre in tutto il Reame. Solo tra tanti aggravj e gabelle se ne tolse una, che riscuotevasi in Napoli da tutte le meretrici, riuscendo ciò di non picciolo giovamento alla pubblica tranquillità, per gli scandali continui che ne nascevano.

Fu perciò seriamente risoluto, per non ridurre i popoli cotanto oppressi all'ultime disperazioni, di mandar Ambasciadore alla Corte, per implorare dalla clemenza del Re qualche conforto a tanti e sì estremi mali; e concorrendovi anche il Vicerè, mosso ancor egli a pietà di tante miserie, fu eletta dalla Città la persona del Consigliere Ettore Capecelatro. Lo stato in che erasi ridotto il Regno, era pur troppo lagrimevole: oltre le tante gravezze, che impoverivano gli abitatori, si vedeva da giorno in giorno mancare d'abitatori, e struggersi tra le miserie e sciagure. Gl'incendj del Vesuvio avevan cagionate morti e miserie estreme; ma sopra tutto la guerra che consumava coi disagi e col ferro le soldatesche, avea desolato il Regno: n'erano uscite dal Regno in numero infinito per reclutare gli eserciti, non pur di Lombardia, ma d'Alemagna, de' Paesi Bassi e del Principato di Catalogna; ed avendo tutte quelle spedizioni avuti infelici successi, pochi ne ritornavano alle paterne case.

Ma i tremuoti, che avevano desolata la Puglia in quest'anno 1638, portarono nelle Calabrie danni assai più gravi ed irreparabili. Furono in queste Province così spaventosi, che abbatterono la Città di Nicastro ed il famoso Tempio di S. Eufemia. Rimasero ancora distrutti molti luoghi ed altre Terre, Nocera, Pietramala, Castiglione, Maida, Castelfranco, ed altre di minor grido. La Città istessa di Cosenza, con molti de' suoi Casali patì notabilmente: Catanzaro, Briatico ed altri luoghi soffrirono il medesimo flagello: in fine non vi fu luogo di Calabria, che potesse vantarsi di essere stato esente dal danno; e calcolandosi il numero de' morti, si trovò essere periti sotto le ruine degli edificj più di diecimila persone; siccome l'istesso Consigliere Capecelatro, che fu spedito dal Vicerè a rincorare que' popoli (a' quali non solamente bisognò rimettere i pagamenti fiscali, ma soccorrerli con abbondanti limosine somministrate parte dal Patrimonio Regale e parte dal Monte della Pietà insino alla somma di ottomila ducati) poteva, come testimonio di veduta, testificare al Re le miserie di quelle Province. Si aggiunse ancora la costernazione, nella quale l'avea poste un solenne impostore, chiamato Pietro Paolo Sassonio, medico Calabrese, il quale andava disseminando che doveano sopraggiungere tremuoti più orribili: che non solamente il Regno, ma tutto il Mondo dovea crollare, avvicinandosi già il Giudicio finale: che il Mare dovea uscir dal suo letto ed inghiottir le campagne e sommergere le città: che doveano piovere dal Cielo grandini di peso di cinque libbre l'una, e che i monti doveano vomitar tutti fiamme per incendiar l'Universo. Queste infauste predizioni, vedendosi verificate in parte per li tremuoti e gl'incendj preceduti dal Vesuvio, posero in tale costernazione i paesani, che credendo, che la Calabria dovess'essere la prima a sopportar queste desolazioni, che doveano precedere alla destruzione del Mondo, ciascuno abbandonava la Patria, e cercava altrove ricetto: laonde il Vicerè per liberare gl'incauti da questi falsi pronostici, comandò, che il Sassonio fosse preso, e condotto legato in Napoli, come fu eseguito, dopo di che fu condennato a remare in una Galea.

Non meno che da' tremuoti, fu questa Provincia, nel medesimo anno, travagliata da' Turchi di Barbaria, li quali avendo concepito il disegno di saccheggiare il Santuario di Loreto, scorrevano con sedici Galee i nostri mari, e danneggiavano i naviganti, e le nostre riviere; tal che se i Vineziani non fossero occorsi per rompere i loro disegni, di mali peggiori sarebbon stati cagione27.

I Franzesi intanto sempre più profittandosi de' disordini, e della declinazione della Monarchia di Spagna, oltre d'aver contrappesata in Italia la potenza degli Spagnuoli, erano ancora entrati in pensieri, per le speranze, che lor davano alcuni mal contenti del governo spagnuolo, di far un'invasione nel Regno di Napoli. Essi per mezzo del Marchese di Covrè Ambasciadore del Re di Francia in Roma, e di Monsignor Giulio Mazzarini a questi tempi semplice Prelato, poi Cardinale, e primo Ministro di quella Corona, aveano con un Titolato28 del Regno ordita una congiura per sorprender Napoli, e già in Roma se ne concertavano i modi; ma scovertosi da uno de' congiurati il trattato al Vicerè, fu fatto arrestare in Roma, ov'erasi portato, il Titolato, e condotto nel Castel Nuovo, fu con ogni sollecitudine fabbricato il processo. Fu eretta dal Vicerè una Giunta per sentenziarlo, la quale componevasi del Reggente D. Matthias di Casanatte, de' Consiglieri D. Flaminio di Costanzo, D. Giovan Francesco Sanfelice, Annibale Moles, D. Ferrante Mugnos, D. Ferrante Arias di Mesa, e D. Diego Varela. Il Fiscale fu Partenio Petagna Presidente della Regia Camera; ed i Pari della Corte furono i Principi della Rocca e del Colle. Furono intesi gli Avvocati del Reo Pietro Caravita, ed Agostino Mollo celebri Giureconsulti di que' tempi; e proferitasi dal Vicerè la sentenza, sedendo pro Tribunali nell'Assemblea dei mentovati Ministri, coll'assistenza dell'Uscier delle armi, e con tutte le solennità consuete, fu condennato sul palco ad essergli mozzo il capo. Così, spogliato prima del titolo, e dell'abito di Cavalier Gerosolimitano, lasciò sul talamo nella piazza del Mercato ignominiosamente la vita.

Ma con tutto che si fosse scoverto il trattato, non tralasciarono però i Franzesi di tentar l'impresa, fondati sopra la mala soddisfazione, che mostravano i Napoletani del Governo spagnuolo: laonde nell'anno 1640, avendo nel Porto di Tolone un'armata sotto il comando dell'Arcivescovo di Bordeos, dopo essersi trattenuta alcuni giorni ne' Porti di Corsica e poi alle spiagge dello Stato della Chiesa, s'inoltrò ne' mari di Gaeta, e quivi fermata, si pose in speranza di sottomettere quella Fortezza; ma valorosamente rispinta dal cannone di quel Castello, continuò il suo cammino, e giunse al Golfo di Napoli.

Il Vicerè, considerato il pericolo, spedì tosto D. Francesco Toraldo e Cesare di Gaeta, Sargente Maggiore del Battaglione della Provincia di Terra di Lavoro, a' confini dello Stato del Papa, per guardar quelle frontiere; ed al Maestro di Campo D. Giovan-Battista Brancaccio appoggiò la difesa della Città di Pozzuoli e del Territorio di Baja e di Cuma a quella vicini. Mandò in Salerno Fr. Giovan-Battista Brancaccio Cavaliere Gerosolimitano, perchè col Principe di Satriano Governadore di quella Provincia attendesse alla difesa di quel paese: fu spedito a Gaeta Vincenzo Tuttavilla Commessario Generale della Cavalleria; ed il Maestro di Campo D. Diomede Caraffa ebbe la cura di guardar tutto il rimanente con l'Isola di Capri. Chiamò poscia gli Eletti della città co' Deputati delle Piazze, affinchè allestissero le artiglierie, per guarnire i baluardi delle marine: convocò i Baroni, perchè stesser pronti alla difesa del Regno, e l'Eletto del Popolo Giovan-Battista Nauclerio offerse trentamila uomini tutti armati per difesa della città. Mancava però il danaro onde, nascevano li fastidiosi e molesti pensieri per trovare i modi di provvedersene.

Mentre la città era per ciò in continue agitazioni, verso la metà di settembre di quest'anno comparve l'Armata Franzese, composta di trentaquattro Navi di guerra, a vista di Napoli: ciò che pose in maggior scompiglio la città. Fur prestamente tolti i cannoni, ch'erano nel campanile di S. Lorenzo, e posti nelli torrioni del Carmine, in quello di S. Lucia, nell'altro delle Crocelle e sopra il Molo: se ne piantarono alcuni altri sul colle di Posilipo, da quella parte, che guarda il picciol Porto di Nisita, sotto la guida di D. Antonio dal Tufo Marchese di S. Giovanni e del Mastro di Campo D. Tiberio Brancaccio; ed altri quattro sopra l'Isola di Nisita sotto la cura di D. Antonio di Liguoro, che la guardava con titolo di Capitan a guerra: Scipione d'Afflitto, vecchio e valoroso soldato, guardava tutta quella riviera, che chiamasi de' Bagnuoli. In Napoli presero le armi ottomila Borghesi, divisi in quaranta compagnie, delle quali fu creato Maestro di Campo Generale D. Tiberio Caraffa Principe di Bisignano. Ma ciò che preservò Napoli da mali maggiori, fu l'esser quivi opportunamente giunto D. Melchior di Borgia con le quattordici Galee del Regno; alle quali essendosene aggiunte quattro altre, che conducevano D. Francesco Melo da Sicilia a Milano, si fece che il Borgia preposto alla custodia del mare, impedisse le scorrerie de' nemici, li quali insultando insino alla spiaggia di Chiaja, aveano più volte tentato lo sbarco, ma ripressi dalle soldatesche poste alle marine, spaventati dagl'incessanti colpi di cannoni, che tiravano da' colli e da' torrioni, e costeggiati in mare dal Borgia, finalmente si ritirarono verso Ponente, e ritornarono a Ponza, non mancando il Borgia d'andar lor dietro seguitandoli fino al Promontorio di Minerva. In cotal guisa i Franzesi rimaser delusi dalle speranze, ch'erano state lor date da' malcontenti, i quali aveano lor dato a credere, che alla sola comparsa della loro armata, i popoli mal soddisfatti del Governo spagnuolo, avrebbero prese l'armi per introdurli nel Regno. Ma non furono vani i loro ufficj, nè andarono a voto le loro assistenze nelle rivoluzioni di Catalogna ed in quelle di Portogallo, gli infelici successi delle quali saremo ora a narrare: poichè essendosi accesa fiera guerra nel Principato di Catalogna, bisognò pure, che dal nostro Regno si supplisse di gente e di danaro in quella non men lunga che dispendiosa spedizione.

26.Nani Istor. Ven. lib. 9 ann. 1633.
27.V. Nani Istor. Venet. lib. II anno 1636.
28.Fu questi il Marchese d'Acaja di casa Monti, famiglia ora estinta.