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Czytaj książkę: «Novelle e paesi valdostani», strona 8

Czcionka:

LA GUIDA

La migliore industria estiva nei paesi alpini consiste nell'andare per Guidacogli alpinisti. Nelle Alpi nostre ne campano un cento cinquanta persone. Quando non ci lasciano la pelle, o almeno non ce la lasciano tutta, fanno una campagna di trecento alle quattrocento lire, e i più famosi, quelli raccomandati dai libri inglesi, arrivano fino alle cinquecento, fino alle seicento; ma bisognò proprio aver tentato la Provvidenza, e se a stagione finita appendono un cero, credete pure che il Santo se lo è meritato.

Bel mestiere, del resto, e pulito, che sveglia l'ingegno e fortifica le membra; infatti sono quasi tutti fiori di gente, agili, robusti e temperanti. Quando capita, la morte se li piglia interi e gagliardi, e ruba loro cinquant'anni di salute. Se si mostra e minaccia, li trova lottatori imperterriti e prudenti; avvezzi a considerarla come un incerto del mestiere, essi la guardano in faccia, l'affrontano senza bravate e senza paura, ne misurano i colpi, li parano e spesso ne trionfano. Ma il più delle volte essa li coglie a tradimento e li stramazza fulminati: perciò molti sogliono fare il segno della croce prima di avventurarsi a nuove corse, e tutti parlano della montagna in tono grave che sa di svogliatezza ai novizi, ma nel quale gli esperti riconoscono la coscienza che hanno, virile e risoluta del proprio còmpito.

Voi li domandate: – Si può salire quella vetta?

– Si può tentare, – rispondono.

– È cattiva?

– Secondo le gambe.

– C'è pericolo?

– Bisogna vedere.

– Ma il tempo promette?

– Finora è bello.

E non ne cavate altro. Smargiassate od anche semplici promesse non ne fanno mai o se ci cogliete qualcuno, dite pure che non è dei buoni. Non cercano mai di adescare gli inesperti alle gite rischiose, le sole che fruttino loro un guadagno considerevole. Al più, li invogliano, lodando la vista e attenuandone le fatiche, alla scalata di qualche picco di secondo o di terz'ordine, dove il peggior rischio è di farcisi tirare a braccia o di lasciarci un polmone, ma lo fanno senza importunare, ma raccolgono, non intavolano il discorso. Stimolano bensì alle grandi ascensioni gli alpinisti provetti, ma allora più che il pensiero della paga li muove una smania di avventure, una specie di amore per l'arte, tanto che ne conosco di quelli che ci si misero, e d'inverno, senza toccare un quattrino. Amano la montagna come tutti i montanari, ma mentre la tenerezza solita del montanaro proviene da certa sua indole timida e sospettosa e si chiude nella conca che lo vide nascere, la loro comprende tutta l'Alpe desolata ed inesplorata, anzi tutte le maggiori sommità della terra. Parecchie guide valdostane di Valtournanche, seguirono il Wimper nelle sue escursioni sulla Cordilliera delle Ande, e ve ne hanno oggidì sulle montagne dell'Africa centrale. L'Alpe domestica e agevole, non li alletta e non li contenta. Finchè durano le piante e l'erbe, essi sembrano patire l'afa e la noia estive, e camminare e respirare a disagio; il loro volto non si rischiara, il loro ingegno non s'apre. Amano l'alta montagna, per il suolo che va studiato, per l'aria che vi si respira, per gli spettacoli grandiosi e selvaggi che presenta, per le fatiche, le lotte, i rischi ed i trionfi; l'amano con impazienza di lottatore, con orgoglio di domatore; si compiacciono dell'omaggio che le recano da ogni parte del mondo uomini gagliardi e sapienti di gran stato e di gran nome e da quell'omaggio ricavano per lei un sentimento di rispetto, una smania grande di penetrarne i misteri e la confusa convinzione che ad essa mettano capo tutte le forze della terra. Forse sono presi inconsciamente da quella curiosità immaginosa dell'al di là che danno tutti gli ostacoli che contrastano l'orizzonte.

Inoltre la consuetudine con gente colta e dotata spesso di certe qualità artistiche, li ha educati ad esercitare la facoltà ammirativa ed a collocare degnamente la propria ammirazione che per virtù della nativa compostezza esprimono sempre con misura. Non hanno del Cicerone nè la verbosità spesso balorda, nè il frasario ammirativo mandato a memoria. E sopratutto non hanno la supina e stucchevole servilità.

Questo se vogliamo è pregio di tutti i montanari, fra i quali ne troverete di tardi, di corti, d'ispidi, di sospettosi, litigiosi, permalosi, avari, ingordi talora, ma di servili mai, o pochissimi tornati inciviliti dalla pianura. La montagna grave e pensosa, li ha fatti gravi e pensosi, ha dato loro, non so se un sentimento di dignità, ma certo la coscienza della miseria umana comune a tutti gli uomini e con questa una filosofia incurante e quasi disperata. I movimenti tardi e grevi del corpo, non concedono loro la pieghevolezza servile: non sanno costringere alla loquacità ossequiosa l'indole taciturna. D'altronde l'uomo non si fa servile che in mezzo al fasto ed all'ozio, ed essi non conoscono nè l'una cosa nè l'altra. Il fasto dei gran signori non può salire ne spiegarsi in quei luoghi disagevoli e la vita dura che essi menano costa loro così caro che non arrivano a persuadersi ve ne siano di quelli che l'hanno piana e per nulla. Quando vedono gli alpinisti affrontare le improbe fatiche del cammino, essi cui il riposo è tanto arduo premio, non possono credere che quelli ne rifuggano per diporto e li sospettano di mire occulte. Il villano in cui v'imbattete per strada vi domanda se salite per radici o fiori medicinali o per rintracciare la miniera, la favolosa miniera dell'oro o dell'argento, tradizionale sogno di quelle menti. Vi attribuiscono un lavoro facile e proficuo in sommo grado, oggetto di loro invidia infinita, ma l'ozio assoluto eccede la nozione che essi hanno del benessere concesso all'uomo.

Le guide poi non hanno col forestiero quel solo superficiale contatto che dura quanto la visita di un museo, nè sono in tale numero da disputarsi a furia di profferte il cliente, nè la paga che ne tirano è così sproporzionata al servizio da doversene mostrare riconoscenti. La forzata convivenza di più giorni crea fra la guida e l'alpinista una dimestichezza accresciuta dalle difficoltà e dai pericoli dell'impresa. Troppo spesso l'uomo vi è ricondotto a quello stato primitivo nel quale la suprema nobiltà consiste nella forza dei muscoli e nella accortezza dell'ingegno. Dacchè comincia l'escursione, è stabilita fra quanti vi partecipano una perfetta eguaglianza di fatiche, di ristoro e di pericoli, e può seguire che l'ultima goccia di cognac rimasta, sospiro di tutta la comitiva, tocchi alla guida anzichè al Lord e Pari d'Inghilterra. La guida conscia di dover mettere, occorrendo, la vita per salvare quella del temporaneo compagno, sente che l'importanza dell'obbligo è tale da non doverne essere ripagato di sola moneta; locchè non scema, anzi accresce la sua premurosa sollecitudine, ma questa è rivolta ai bisogni essenziali ed ha un fare spontaneo come di larghezza gratuita. Nelle capanne di rifugio che la provvidenza del Club Alpino, o l'accortezza di qualche albergatore, costrusse in mezzo alle più selvaggie solitudini delle Alpi, essi apprestano non richiesti e tacitamente al viaggiatore quante maggiori comodità il luogo può fornire, non serbando a se stessi che il pretto necessario, cioè tanto spazio di roccia nuda che basti per starci al chiuso. Se la comitiva è numerosa e le guide non ci capiscono tutte, si danno il cambio per turno, mezze alla sosta e mezze all'aperto. Seduti sul limitare nella notte glaciale e solenne, discorrono fra di loro a bassa voce fumando e ridendo per arguzie piene di sapore paesano e quando, innanzi l'albeggiare, spira dalle vette nitide di verso levante la prima larga folata di vento mattinale, al cui soffio la neve si fa più dura e stagnano tutti fino al fondo i rigagnoletti, allora si martellano di pugni il petto e le coscie, perchè il sangue impigrito e la stanchezza non li abbandonino ad un sonno mortale. Buona e salda gente, che il domani di una tale notte si mostrano svegli e disposti alle più dure fatiche, senza che una parola crucciata, senza che una ruga del fronte tradiscano lo scontento del disagio sofferto. Se il forestiero ne li ringrazia, negano allegri disagio e fatica, se trova che gli dettero il suo e nulla più, sono disposti a convenirne sinceramente. Infatti non sono servizievoli per mera cortesia, ma anche per un sentimento profondo di giustizia e di equilibrio, e per saggezza. Sanno che al meno forte e meno agguerrito occorrono più riguardi, sanno che la montagna è tale che bisogna affrontarla con tutte vive le attività della mente e del corpo e sanno che una notte bianca non scema loro un'oncia di vigore mentre ne dimezzerebbe l'uomo disavvezzo, della pianura. Sono generosi come tutti i forti, perchè non sostengono la vista della debolezza.

Ma se a suo tempo concedono, a suo tempo vogliono e sanno comandare. Una volta giunti nei luoghi dove il pericolo può essere continuamente imminente, prendono occorrendo un accento tronco ed imperativo di capitano. Ad essi la scelta della via, e l'ordine della brigata. Se giudicano sconveniente la salita, non c'è strepito di viaggiatore temerario che li faccia procedere. Qualche alpinista vanitoso e ignorante, intestardisce nel proposito e li minaccia nella paga, ma è fiato gettato e c'è da pigliarsi delle male parole, e da esser rimenato a forza. Qualcheduno riuscì a piegarli deridendoli per vigliacchi, ma allora l'escursione precipitò quasi sempre in tragedia e ci rimasero, di buon giusto, il viaggiatore e, a torto, la guida.

Ricordo che una sera a Gressoney capitarono, scendendo dal Colle d'Ollen, dopo di aver valicato il Lysjoch, due alpinisti che io conoscevo. Avevano una guida caduno e fra queste il buono e famoso Maquignaz di Valtournanche. Appena giunti all'albergo, i due domandarono con grande inquietudine se quel giorno o la sera innanzi fosse arrivato un loro compagno con una guida. Alla nostra risposta negativa spacciarono sull'atto, accoratissimi, un pedone all'albergo dell'Ollen lontano cinque ore, a recarvi l'esito infruttuoso dell'inchiesta e ad ordinare una battuta esplorativa per i ghiacciai e le giogaie circostanti.

Il Maquignaz lasciava dire, lasciava fare, e lasciò partire il messo senza mettere verbo, sorridendo nella barba e mostrando negli occhi una lontana compiacenza trionfatrice che ebbi, conoscendolo, per segno sicuro di buon augurio.

– Morti non sono, lo giurerei, ma una gran pauraccia l'hanno avuta di certo e non hanno dormito sulle piume.

E dopo un momento aggiunse a mezza voce, ammiccandomi:

– Ci ho gusto.

I due intesero e lo strapazzarono contenti di sfogare la smania che li travagliava, e lui calmo calmo a replicare:

– Morti non sono, conosco i luoghi e quella guida, benchè non abbia pratica del Mon Rosa, è un buon montanaro e prudente. Morti non sono, ma ci ho gusto, ci ho gusto; non posso dire che non ci ho gusto.

Il fatto era seguito così:

Erano tre viaggiatori e tre guide. Il giorno innanzi, partiti dal Riffel sopra Zermatt e valicato il Lysjoch, volevano pernottare all'altissimo albergo del colle d'Ollen. Verso le quattro pomeridiane, superati i passi difficili della sommità, traversavano il ghiacciaio della Vincent pyramidequando su Val di Sesia, salirono le solite nebbie. Maquignaz, che stava in capo alla comitiva, non aveva mai fatto quella strada, ma consultando una buona carta inglese, e interrogando l'indole dei luoghi, procedeva sicuro come per lunga consuetudine. A un punto il viaggiatore, ora smarrito, disse:

A destra.

Maquignaz si voltò, rilesse la carta, si guardò attorno e rispose:

– Avanti, avanti, vengano con me.

Le nubi s'ingrossavano e s'allargavano, occorreva far presto e risoluto. Dopo alcuni passi l'alpinista ripetè: «A destra», e Maquignaz: «Avanti». Ma l'altro si piantò fermo, agitato da una collera inquieta. Egli di là c'era passato un'altra volta e, solo della comitiva, sapeva la strada; non ch'era nè tempo nè agio di fare esperimenti, se Maquignaz voleva darsi il lusso di trovarne una nuova, padrone, ma egli, la sua guida e i suoi compagni volgevano a destra senza più esitare. I compagni, ben inteso, tacevano seccati ed inquieti del dubbio. Maquignaz non si scompose, nè incollerì, solo gli replicò essere egli sicuro del fatto suo, conoscere la montagna da troppo tempo per dubitarne, e lo pregò colle buone di fidarsi in lui, alla sua vecchia riputazione di guida oculata e prudente. L'altro smaniò, levò la voce e voltò di netto a mano diritta, tirandosi dietro i compagni. Allora la guida, pallido per volontà contenuta, gli disse: «Lei comanderà al piano, qui comando io. I suoi compagni sono con me, io ne devo rispondere e ne rispondo; so quello che mi faccio: la mia pelle mi è cara e non fui mai avventato. Andiamo!»

Ma sì! La persuasione di vederci giusto s'era nell'alpinista invelenita per dispetto della resistenza, e la falsa dignità dell'uomo pagante lo mordeva acerbamente. Le nuvole tenevano già mezzo il cielo, le creste verso il colle d'Ollen fumavano per la tormenta, il sole impallidiva e passavano sul viso dei disputanti i primi veli leggieri e fuggenti di nebbia. Il viaggiatore cocciuto aveva una guida sua, un buon alpigiano di Val d'Orco, cacciatore di camosci, espertissimo delle regioni alpine, ma non vera e propria guida. Maquignaz ed un suo compaesano stavano cogli altri due. Un'occhiata li mise d'accordo, presero ognuno a braccetto il proprio cliente, e li strapparono mezzo sbalorditi alla vana giostra di ciancie.

– Mi lasciate? – Badate a voi, urlò l'altro ai compagni.

– Non sono essi che lo lasciano, sono io Maquignaz che li costringo a seguirmi. Lei se vuole seguirà le nostre peste, vedrà che sono le buone, ma lo avverto che se tarda ancora, proverà che sapore hanno le notti nuvolose sul ghiacciaio.

Quello prese a diritta colla sua guida, invano scongiurato ed ammonito. I quattro giunsero all'albergo dell'Ollen sul far della sera, vi aspettarono in preda ad un'ansietà angosciosa i dissidenti, tutta la notte e il giorno seguente, indi scesero a Gressoney, sperando di trovarceli. Ne furono raggiunti il giorno di poi. I due disgraziati, mezz'ora dopo abbandonato il grosso della brigata, si avvidero di aver sbagliato cammino.

La nebbia stagnava sorda e immobile sul ghiacciaio, e lo oscurava. Impossibile rintracciare le peste. Si aggiravano sbigottiti in luoghi per fortuna più paurosi che mortali; il cacciatore di Val d'Orco, sapeva più evitare i mali passi che uscirne. Tuttavia riuscirono a lasciare il ghiacciaio, ma la notte li colse per roccie scoscese, meno disagevoli, ma più pericolose che non fosse il gran letto nevoso. Buono che fu nebbia e non tempesta e che a quelle alture la notte dura meno che al piano. Arrivarono a Gressoney sfiniti ed affamati. Il buon Maquignaz non osò andarli ad incontrare per non parere vanitoso del trionfo, ma l'alpinista, chiamatolo a sè, lo volle abbracciare e il cacciatore ebbe dalla guida provetta una fiera strapazzata che io intesi, la quale terminò con questo consiglio:

– Se i signori si vogliono perdere, noi dobbiamo salvarli loro malgrado.

STORIA DI NATALE LYSBAK

Non avevo mai incontrato fra le guide alpine un uomo di così nobile e maschia bellezza. Alto come un corazziere, asciutto ma non sottile, si atteggiava e muoveva con dignità naturale e disinvolta, era agile e sicuro, servizievole senza essere servile, parlava con proprietà, gestiva poco, non vantava ascensioni impossibili.

Benchè non dovessimo affrontare pericoli, s'era tuttavia stabilita fra me e lui quella dimestichezza cordiale, che nasce dalla comunanza delle fatiche e della vita; da tre giorni egli mi accompagnava per rupi e ghiacciaie e ci rimanevano, prima di giungere a Gressoney, due giornate di cammino. Quando lo invitavo a sedere alla mia tavola per desinare insieme, accettava semplicemente senza aver l'aria di pretenderlo e nemmeno di ricevere una grazia; a tavola discorreva e mangiava volentieri, ma non beveva che acqua, ricusando con un cenno del capo l'offerta che gli facevo sempre di vino e di liquori.

La penultima giornata del nostro viaggio si valicava il colle delle Cime Bianche, ancora coperto di neve, per giungere a Fiery in valle d'Ajaz, donde il domani, pel colle della Betta Forca, dovevamo scendere a Gressoney, termine delle mie escursioni. Siccome non ero mai stato a Gressoney, glie ne chiedevo per strada:

– Il vostro nome, Lysbak, mi fa supporre che siate nativo di quel paese, perchè il torrente che vi corre si chiama appunto il Lys.

– Sì signore, sono di Gressoney.

– È una bella vallata?

– La più bella di quante io conosca.

– È naturale che voi la giudichiate a quel modo.

– È vero, signore. È naturale.

S'era oscurito in viso e non aggiunse parola tanto che, temendo di averlo offeso con mettere in dubbio la sincerità del suo giudizio, cercai di abbonirmelo con nuove domande.

– Siete ammogliato, Lysbak?

– Sì.

– E avete famiglia?

– Ho famiglia.

Il tono asciutto delle sue risposte mi fece capire che quello non era luogo da discorsi, infatti affondavamo nella neve molle fino alle ginocchia ed un passo falso ci avrebbe mandati ruzzolone fino in basso del nevato e costretti a rifar da capo due ore di salita.

La sera, all'albergo di Fiery, fu servito a cena un vinetto sottile e fratellevole.

– Lysbak, domani ci lascieremo, dopo cinque giorni di convivenza. Sono contento di voi, porgetemi il bicchiere, tocchiamo insieme e bevetene un sorso.

– Grazie signore, non bevo.

– Che idea! Un uomo della vostra fatta! Vi spiace il vino?

– Non ne bevo.

– Per farmi piacere, Lysbak, un sorso. Il vino cementa l'amicizia.

– Non sono vostro amico, signore; vi servo per paga.

– Avete torto: la paga va per i servigi che mi rendete, non per la buona compagnia che mi avete fatto. Quando vi avrò pagato, mi rimarrà di voi una memoria migliore che non delle altre guide che ho conosciuto; voi siete diverso dagli altri: sempre quando mi date la mano per superare un passo difficile, mi viene fatto di ringraziarvi come un compagno disinteressato, un compagno d'elezione. Voi fate la guida con grazia signorile.

– È inutile, non bevo, non voglio bere.

Si levò turbato e andò diritto a dormire.

La mattina del domani era di buon umore più che non fosse mai stato per l'addietro. Salendo la Betta Forca canterellava certe nenie nel tedesco corrotto di Gressoney, chiudendole con quei trilli che passano per tirolesi e sono di tutti i pastori dell'Alpi. Fra una canzone e l'altra era verboso e gaio, raccontava mille aneddoti salati e mille facezie grosse e grasse da stalla e se la rideva da sè, rivoltando fra i denti la cicca di tabacco che non gli avevo mai veduto prima d'allora. Ad ora ad ora pareva si compiacesse di attardarmi per strada, di raddoppiarmi il cammino, andava di qua e di là come un bracco, raccogliendo fiori e fragole che mi portava sorridendo; altre volte prendeva la corsa lasciandomi indietro di gran passi, poi mi aspettava e mi gridava dall'alto: coraggio, signore, coraggio, signore, fra un'ora saremo sui pascoli di Gressoney, in vista della mia cara vallata! Ah, ah, vedrete come è bella, come è tutta bella verde, colore di speranza. È l'ultima tappa che facciamo insieme, allegro signore! E terminava col solito trillo acutissimo, agitando al vento il cappello adorno di un bel fiocco di Edelweis. Aveva gli occhi lucenti, il viso animato, lo si vedeva grillire di piacere e d'impazienza, pareva un innamorato che corresse all'amante.

– Vedete lassù quel seno, dove c'è un muro grigio di pietre? quello è il colle, signore.

– Là, dove spuntano quelle lingue di nebbia?

– Appunto. Ahi ahi, quelle lingue di nebbia annunziano tempesta: sono cattive lingue, signore, cattive lingue che salgono da Gressoney, dal mio paese, dal mio paese. Presto, presto, prima che arrivi la tormenta.

In un batter d'occhio il cielo s'era oscurato: la nebbia invadeva invadeva, serrata, uniforme finchè andò a posarsi all'ingiro sui fianchi delle montagne, tagliandone con una riga diritta tutte le cime e livellandole. Il colle non si vedeva più; camminavamo allora in un ripiano erboso, il cielo sospeso a pochi palmi sopra di noi. Che tempaccio orribile! Non era la burrasca sfrenata che arresta i più coraggiosi, li costringe a cercare ricovero e fa confortevole ricovero qualunque cavo di roccia, tanto si scatena furiosa ed irresistibile; ma una sorta di bufera stagnante muta e fredda come la morte. Le nuvole lambivano i nostri cappelli e stavano immobili gravi di più giorni di pioggia e di neve: ancora pochi passi ed immergemmo in esse la testa e poi tutta la persona. Io mi godevo la dolcezza sottile di quel contatto come una carezza morbidissima e velenosa, e ripensando i versi di Dante, là dove incontrata l'ombra di Casella e fatto per abbracciarla:

 
Tre volte dietro lei le mani avvinse
E tante si tornò con esse al petto,
 

brancolavo curioso in quella sostanza tangibile ed inafferrabile, della quale è impossibile discernere e concepire la forma, il volume ed il colore e che si manifesta contemporaneamente a tutti i sensi; al tatto, cui pure cede senza resistenza; all'olfatto ed al gusto, che non riescono a dar nome nè al suo odore, nè al suo sapore; all'udito, che in essa perde suoni vicinissimi e ne percepisce nettamente e capricciosamente dei lontani; ed alla vista, che vi riposa in una luce fievole e diffusa. Ma fu breve compiacenza; a poco a poco sentii i panni che mi vestivano diventar leggieri e mi parve di essere nudo nella tempesta. La mia guida mi incorava colla voce a salire; ma l'ascesa, divenuta più erta mi toglieva il respiro; poi venne un soffio di vento a scompigliare, senza diradarlo, l'enorme viluppo grigio che mi avvolgeva; un vento gelato che mi fece correre per il filo della schiena i grossi brividi della febbre e mi lasciai cadere sull'erba sfinito, senza voglie, in preda ad uno smarrimento simile a quello del sonno a lungo sospirato, di cui la coscienza assopita ma non sorda, avverte la venuta e pregusta la dolcezza. Allora Lysbak mi levò di peso e rimessomi sulle gambe e presomi a braccetto, si diede a salire correndo, trascinandomi dietro a forza; lo sentivo soffiare come un mantice e quando giunto sulla vetta sostò un momento per prendere fiato, lo vidi grondante e fumante di sudore.

– Siamo sul colle; se non vi strapazzavo a quel modo, vi coglieva il male della montagna; il sonno gelido. Come vi sentite ora?

Mi guardava con aria paterna, coll'aspetto rassicurante della forza buona. Era tornato l'uomo grave e premuroso dei giorni innanzi, nobilitato da una autorevolezza intelligente, di capitano.

– Bisogna scendere subito, che il freddo non vi assideri un'altra volta; d'altronde con questa nebbia c'è pericolo di rigirare dell'ore sulle nostre peste senza avanzare di un palmo; e tenerci per mano, che non ci s'abbia a perdere; e giù di corsa.

Scendevamo da venti minuti, quando si fermò d'un tratto:

– Abbiamo sbagliato strada, siamo troppo a sinistra, indietro.

Indietro!? Non ne potevo più; meglio scendere purchessia; una volta nella valle, ci saremmo raccapezzati; ma, a sentirlo, egli conosceva il luogo e a pochi passi da noi la china rompeva in un dirupo altissimo, precipitando a picco fino al torrente. Lo richiesi se non sapesse di qualche cascinale vicino dove riposare; la mia viltà gli fece passare negli occhi un lampo di collera e mi rispose brusco:

– Non c'è cascinale, venite.

In quel punto, a smentirlo udimmo lo scampanellare di molte vacche vicine e non dovevano essere sull'erba ma chiuse nella stalla, perchè il suono giungeva raccolto e confuso, come assordato dalle pareti.

– Lo vedete, Lysbak, che ignorate dove siamo?

Fece un gesto d'impazienza e mi disse:

– Lo sapeva, ma non conviene trattenersi venite.

Parlava vibrato, con collera mal contenuta ma la mia stanchezza ed il malessere erano troppo dolorosi perchè mi lasciassi sopraffare. Alle sue parole, ai suoi consigli, ai comandi, alle preghiere, rispondevo un no cocciuto e disperato. Volevo scaldarmi al soffio caldo delle vacche e riposare al chiuso; perchè mi torturava a quel modo? A Gressoney ci saremmo giunti il domani, gli avrei pagata una giornata di più, anche a doppio prezzo se lo voleva; e m'incollerivo anch'io e dimenticando gli affettuosi riguardi di poc'anzi, ribattevo sul pagare, era pagato, lo pagavo, doveva servire alle mie voglie, non ero io che dipendeva da lui, ma egli da me; che prepotenza era la sua! Al postutto, facesse a suo piacere, io cercavo della casa e vi entravo ad ogni costo.

– Bene, signore. La casa è a mano destra, a venti passi, conosco il luogo, lasciatevi condurre.

– Non m'ingannate, Lysbak, non me ne allontanate.

Mi afferrò la mano e mi portò sull'uscio:

– Io vi aspetto qui.

– Perchè non entrate?

– Vi aspetto.

– Padrone.

– Entrai solo. Era il solito cascinale pastorizio; dissotto, una lunga stalla; dissopra, due camere da abitare.

Appena aperta la porta, sentii sul viso il tepore umido che saliva nella stanza per le tavole dell'impiantito.

Delle due donne che sedevano accanto al fuoco, la più giovane mi venne incontro senza parlare e andò frettolosamente a serrar fuori la nebbia. Oh il confortevole aspetto di quella stanza! Calda, pulita, le pareti rivestite di tavole, un gran letto alto e largo, un bel fuoco fiammeggiante, e padrone di casa due donne vestite di panno scarlatto, belle tutte e due, certo madre e figliuola. Il loro vestire e gli arredi intorno accusavano una solida agiatezza; la più giovane calzava stivaletti cittadini allacciati sul collo del piede e colla punta inverniciata; l'altra portava anelli d'oro alle dita e polsini di lana finissima. Tutte e due si affaccendarono a servirmi. La madre andava e veniva dalla stanza vicina, stendeva la tovaglia sulla tavola e vi disponeva la scodella di maiolica bianca, la posata lucente che pareva d'oro, il bicchiere e la bottiglia del vino; la figliuola, china sul fuoco al mio fianco, soffiava gonfiando le gote perchè bollisse presto l'acqua del caffè.

Mi sentivo rinascere, e nella pienezza del mio benessere avevo scordato affatto quel povero uomo che mi aspettava là fuori nella nebbia gelata: sua colpa, d'altronde; perchè intestarsi a non salire? La ragazza aveva raccolte e chiuse fra le ginocchia le pieghe della sottana, che non le giungesse il fuoco, cosicchè il panno teso disegnava una salda giustezza di forme. Ad ogni soffio, il seno coperto appena da una camicia di tela bianca di bucato, si gonfiava visibilmente e pareva volesse uscire dal busto aperto sul petto a forma di cuore. Le guancie arrossite dalla fiammata, prendevano uno splendore sanguigno stimolante, mentre essa mi lanciava di sottecchi delle occhiate furbe, sicura di far colpo. E quando le ebbi detto che era bella, mi rispose in modo da lasciare aperto l'adito al discorso anzi da avviarlo; certo la ragazza ci stava alla celia, se non mi fosse durato l'avvilimento per la giornataccia sofferta.

Quando fui ristorato, mi prese un vivo desiderio dell'albergo, di una camera mia dove mutarmi d'abiti e dormire fino al domani senza pensiero d'altro cammino. E poi era appena il mezzogiorno, che fare lassù tante ore? E la mia guida? Pagai largamente il ristoro ricevuto e benchè le due donne mi invitassero a rimanere, uscii pieno di coraggio.

Il tempo non era mutato; lo stesso fumo rassegato di poc'anzi: pareva il tardo crepuscolo di un giorno di gennaio. E Lysbak? Dov'è Lysbak? Guardandomi intorno intensamente mi parve di scorgerlo a pochi passi smarrito nella nebbia. Era là, solo, avvolto nel cielo mobile ed invernale, seduto sopra un sasso, i gomiti sulle ginocchia e la testa nelle mani, fissando la tempesta. Quando gli fui dappresso si levò in piedi: era livido, batteva i denti, aveva gli occhi stanchi come per la veglia di un mese, la grama giacchetta abbottonata stretta stretta alla persona, la barba stillante.

Mi sorrise con tristezza, senza rancore e mi disse:

– Siete riposato? Avevate ragione, è un gran tempaccio, fa bene un po' di ricovero. Andiamo?

Mi sentivo rimordere come di una cattiva azione. Mentre stavamo per muovere, la ragazza si fece sull'uscio di casa gridando:

– Siete ancora lì, signore?

Al mio sì, scese la scala e venne verso di noi.

– È detta – mormorò Lysbak fra i denti, e si voltò tutto dall'altra parte.

– Avete scordato il cannocchiale e ve lo riporto.

– Grazie.

La ragazza fece per tornarsene; Lysbak, rapidissimo le prese una mano, poi l'altra, la tenne ferma un istante dirimpetto a sè, la guardò fissamente negli occhi con una tenerezza piena di martirio e le disse:

– Addio, figlia mia.

– Siete voi, padre? Buon viaggio – rispose l'altra con un riso sfrontato e perverso, e via di corsa.

Camminammo un buon tratto senza parlare, poi lo richiesi:

– Le avete detto figlia, vi ha detto padre, come mai ciò?

– È mia figlia, signore; quell'altra donna che avrete visto in casa è mia moglie, la casa è mia. – E dopo un gran silenzio: – Le poverette non possono vivere con me perchè io sono un briacone.

Due ore dopo giungevamo a Gressoney la Trinité.

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La famiglia dei Lysbak, la più antica di Gressoney la Trinité, è imparentata con tutti i centoottanta abitanti del paese, i quali d'altronde maritandosi pressochè sempre fra di loro formano una tale aggrovigliata matassa di parentele da perderne la testa gli avvocati, i procuratori, i giudici ed i notari.

Verso il 1830, quando Daniele Lysbak venne in possesso dell'eredità paterna, il suo avere era computato a cento mila lire, locchè a quelle alture dove la terra è carissima e frutta poco equivale a due mila lire di rendita. Con due mila lire l'anno lassù si vive da gran signore purchè le donne vadano, ben inteso, l'estate a menar le mandrie sulle alpi e attendano in persona alle cure della pastorizia e gli uomini l'inverno provvedano colle proprie mani a raccomodare la mobilia e le pareti delle stanze lavorando da falegname. A tal patto quella rendita permette di scaldare l'inverno la casa col fiato di quattro o cinque vacche e di raddoppiare il numero la state, di tenere un mulo od un cavallo per scendere a Ponte San Martino in Valle d'Aosta, di mangiare ogni giorno due piatti di carne, uno fresco e l'altro salato, di ber vino ad ogni pasto, di darne a bere agli amici e parenti, e nei giorni solenni di mettere sulla testa grave e serena della madre di famiglia una specie d'elmo in oro filigranato che fa la più brutta vista di questo mondo.