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Czytaj książkę: «Novelle e paesi valdostani», strona 15

Czcionka:

I PAESI DELLE VALANGHE

Dalla vetta delle Alpi al mare Mediterraneo corrono poche centinaia di chilometri, mentre parecchie migliaia la separano dai mari del Nord. Questo fatto spiega la diversa struttura dei due versanti, dei quali il meridionale precipita per via di immani scoscendimenti nella valle del Po, e s'allunga, e si spiana e digrada negli ondulati altipiani della Svizzera il settentrionale.

Ci sono tre diverse regioni alpine. La montagnosa al basso, l'alpestre nel mezzo, l'alpina propriamente detta in alto. Chi scende in Italia pei valichi delle Alpi Cozie, Graie o Pennine, avverte subito il limite ed il carattere di ogni regione. Appena lasciati i deserti nevosi, la regione alpina gli sorride con un tranquillo aspetto pastorale. La valle si rompe in più branche come una scala enorme, e fra l'una branca e l'altra è una pianura placidissima, una conca verde dove il torrente corre quieto come un ruscello e spesso dilagando alimenta le lussuriose vegetazioni. I villaggi vi sono lindi ed agiati, anzi non hanno di villaggio che il nome e il campanile, tanto le case si sparpagliano qua e là volte a quel poco sole di cui tutte vogliono la sua parte.

Il centro, la parrocchia, raccoglie appena intorno a sè tre o quattro fuochi: quello del parroco, la casa comunale, la scuola, spesso un albergo, qualche volta il tabaccaio che smercia pane, droghe, fettuccie, carta, chiodi, olio di ricino e confetti. Il resto del villaggio è sminuzzato in tanti casali di due o tre fuochi, dove al solito dimorano i diversi rami di una stessa famiglia. Ogni casa ha, davanti, la sua pezza di prato, il suo orto glorioso di quattro o cinque girasoli e il tronco mozzato infitto nella terra che getta acqua per un tubetto di ferro.

Qui la gente dimora tutta nel fondo della valle. Si vedono bensì su per le coste della montagna e fino rasente le ghiacciaie, dei casolari pastorizi (chiamati Meire, Grangie o Alpi); ma a questi salgono per lo più i mandriani della pianura e non vi soggiornano che i tre mesi della state. L'inverno, quelli del paese o s'industriano trafficando intorno per il mondo o si tappano nelle stalle e vi impigriscono in minuterie tranquille, e pulite che sembrano trastulli. Per essi il lavoro invernale, meglio che di sostentare la vita, è un mezzo di ammazzare la giornata e più la sera. Si baloccano in piccoli ordigni per aprir l'uscio o la botola del fieno senza muover di posto, per abbassare dall'assito, ond'è rivestita la parete, un piano che faccia da tavolino e rialzarlo senza che ne appaia la mostra, si lambiccano il cervello a perfezionare le morsette di legno destinate ad assicurare contro il vento i panni sciorinati al sole, o a trovare un nuovo congegno per l'aspo o una nuova zangola per sbattervi il burro. I più utilitarii fanno mestole o cucchiai di legno, o riparano le minute avarìe della casa. Da ciò deriva alla casa un'aria agiata e patriarcale, che non inganna. L'alta montagna elesse i suoi abitanti. È avvenuta la naturale selezione darwiniana: chi non ebbe forza e sostanze da camparvi con agiatezza, o dovette soccombere o ne sloggiò. La miseria della quale vedremo tanti impensati esempi nel basso, non è compatibile colle asprezze del clima e cogli scarsi prodotti del suolo alpino. La frase pare paradossale, ma non è. La terra frutta così poco, che solamente i ricchi ne posseggono, e non essendovi traffichi nè industrie, chi non ha rendite o possedimenti, non trova la via di campare. Nei villaggi della regione alpina non vi hanno mendicanti o ve li attira nella buona stagione la ressa dei forestieri; non vi si incontrano quei visi sparuti di morente, quegli occhi febbrili pieni di timidità supplichevole, che attristano i grossi borghi della media vallata, nè i mostricciatoli rugosi, cenciosi, luridi e paurosi, obbrobrio e pietà della razza umana. La terra, le case, la gente, tutto è disposto e apparecchiato per la consueta guerra contro le stagioni. Del gran nemico alpino che è la valanga, tutti, lassù, sanno misurare il peso e l'impeto e prevedere le mosse e spiare i passi, tutti conoscono della valle i punti vulnerabili ed i sicuri. E perchè la giacitura della casa non è imposta nè da assoluta necessità di lavori agresti, nè da assoluta ristrettezza di spazio, la casa sorge sempre al riparo del noto ed atteso flagello. Dove il pericolo diventa consuetudinario, l'uomo industrioso ne scampa o se ne giova; il solco squarciato dalla valanga serve l'estate a guidare in basso le abbattute d'alberi. Ma questa placida zona che pare una Tempe ha poco spessore. A un tratto, la valle, in luogo di rompersi in branche e ripiani, rovina tutta verso la pianura. Sembra che ogni montagna cerchi invano un punto sicuro dove posare, sicchè tutte, una dopo l'altra affondino la base e la smarriscano in una voragine smisurata. Non più spazi piani di terreno in mezzo alla valle: le due chine opposte si avventano l'una sull'altra e incassano il torrente. In luogo dei declivi ammorbiditi da una foresta fitta d'abeti o dal bel cuscino dei prati, rovine di massi titanici fra i quali il monte lacerato mostra la sua ignea ossatura. Una vegetazione arborea bastarda, dove intisichiscono insieme gli ultimi pini e le prime querce e i primi noci. E via la valle precipita a rigiri rapidi e brevi, sempre serrata e sempre echeggiante per le acque sbattute, e via la strada si sviluppa, tagliata quasi sempre a mezza costa, dominante dall'alto il torrente, attraversante gruppi di case cui, d'estate la folta ombra dei castani, e d'inverno, la montagna di contro, rubano il pochissimo sole, sicchè anche quando è più secca la canicola, esce dai loro usci un tanfo umidiccio e lungo le loro muraglie un loto perenne vi si appiccica ai piedi. E quando dopo parecchie ore di cammino, la gora si apre al largo dove a mala pena capisce un borguccio tutto pigiato intorno la chiesa, vi pare di affacciarvi al gran padre Oceano e di respirarne i liberi venti. Questo segue ben inteso delle valli minori e la pittura sarebbe un po' carica per le grandi vallate, le quali hanno spesso un letto largo e fertile. Ma anche in quelle i monti che le fiancheggiano precipitano per via di fenditure enormi, levigate come tavole di lavagna, le quali tolgono al paese l'aspetto mansueto che incontrammo più in alto e gli danno un carattere di violenza selvaggia e grandiosa. Mentre in alto il prato e la foresta attestano solamente la feracità del suolo e rammentano le beate leggende dell'Eden, qui le varie ardue colture accusano la fatica dell'uomo. E colla fatica, il bisogno e gli stenti. I grossi borghi tagliati in mezzo dalla via maestra, non sono più disseminati per le praterie, ma si aggruppano avari di spazio e respirano poca aria dalle viuzze strette e senza sole. Il terreno ha troppo valore perchè lo si getti in larghezze signorili. I frutti del suolo sono già molti e varii, sicchè la terra lavorata può bastare alla vita dell'uomo. Ma quale vita! E quale lavoro! Quel poco pane il villano deve cercarselo dove lo trova, contendendolo al sole, alla neve, alle frane, ai torrentelli divoratori, al vento gelido di tramontana, alle brinate primaverili. Di qui un lusso faticoso di muri e muriccioli, di trincee, di valli militareschi, di pilastrini d'ogni forma, e grandezza per reggere le pergole; opere di continua e solerte difesa contro i continui e solerti nemici, le quali richiedono una vigilanza quotidiana e vicina. Perciò le case agresti sorgono dove la dura necessità lo comanda. Dove la montagna, fra dirupi impraticabili, spiana un pratellino, ivi qualche eroe del bisogno improvvisa un'oasi che sa di miracolo. L'inverno ha già perduto la crudezza micidiale di poc'anzi. Anche miserrimo, qui l'uomo può durare in uno stato che somiglia la vita e questo basta a tanti infelici i quali arrischiano mille volte di morire, pure di trascinare l'agonia.

I forestieri che attraversano quei paesi, diretti alle alture salutifere, la mente nutrita delle frasi letterarie di fieri e robusti alpigiani, di tempre ferreee via discorrendo, stupiscono della realtà e calunniano la razza montanina, la quale è ancora in parte e fu tutta quanta fortissima in origine e dotata delle migliori attività umane, ma venne via via negli stenti e per la dimenticanza in cui fu lasciata, e più andrà in avvenire, logorando la fibra e intimidendo gli spiriti.

Chi dalla valle maggiore sale i fianchi delle montagne o s'interna per le gole, vi scopre certi brandelli di paesucci, viluppi di tuguri, perduti in luoghi così inospiti che si credono disabitati. La chiesa valligiana serve per lo più a una ventina di villaggetti aggrappati a sporgenze rocciose quasi impercettibili, sospesi a mezza costa con un abisso sul capo ed uno ai piedi, terribilmente pittoreschi, dei quali l'estate nasconde il miserrimo aspetto e l'inverno rivela l'esistenza sempre pericolante. Se una valanga piombasse dall'alto della rupe che li protegge, li spazzerebbe di netto. Ma chi pensò, edificandoli, se la valanga li avrebbe un giorno colpiti? Ben altra cura li collocò dove stanno e ve li mantiene. Nella regione alpestre la valanga non ha il suo corso normale e prevedibile. Essa non è flagello di ogni anno, mentre la fame lo è di ogni giorno. Ciò spiega le vittime dell'inverno passato e ne fa temere di nuove ogni anno.

LA NEVE

Ahi non ha visto la montagna nell'inverno del 1885, non conosce l'inverno alpino. Gli altri anni è un lembo della terra che tutti conosciamo; l'anno passato era un paese inverosimile, fuori della realtà, una scena di sogno fantastico, una visione argentea, smagliante, l'idea astratta del candore divenuta sensibile senza nulla perdere di larghezza e di purezza. Passeranno anni ed anni prima che una tale visione riappaia così perfetta ed immacolata. Parlo ben inteso dei luoghi agresti, fuori dell'abitato. Tutto ciò che attesta la vita umana era scomparso o si era trasformato, l'uomo sembrava così estraneo a quella terra verginale come agli squallidi paesi lunari. E coll'uomo tutto quanto vive e si muove. Era una immensa bianchezza immobile, folgorata dal sole, anzi immedesimata col sole, tanto ne rifletteva interi ed intensi tutti i raggi. È impossibile ridire la dolcezza profonda di quelle linee e di quel colore; anzi le parole linea e colore applicate a quello che io vidi e ripenso mi sembrano dure e povere: non era una linea quella che la montagna segnava sul cielo, perchè raggiando i contorni si scomponevano e il cielo partecipava del monte e questo di quello; e non era un colore quell'albore diffuso, eguale, misto di bianco, di rosa e di trasparenze azzurrine che saliva dalla terra e si diffondeva per l'aria. Ho tardato a scrivere le impressioni di quello spettacolo perchè proponendomi di rappresentarlo con verità, temetti me ne sviasse l'eccitazione dei sensi e dell'animo; è quasi passato un anno e richiamandolo in mente lo rivedo tal quale e ne riprovo la stessa maraviglia, mista a non so quale sgomento come di fatto soprannaturale. Era una bella giornata di Febbraio. Andavo da Pont Canavese a Ronco in Val Soana, dove mi avevano detto essere caduta la più colossale fra le colossali valanghe di quell'inverno. Per buona sorte sul suo passaggio non vi erano case e la ruina non ebbe vittime, ma la strada che da una borgatella vicina mette a quel capo-luogo ne era stata interrotta per qualche centinaio di metri e vi si era sovrapposta una vera montagna di neve insuperabile. Si parlava di scavarvi un tunnel ma era impresa di più settimane. Il villaggio lontano in realtà da Ronco una mezz'ora di cammino, se n'era improvvisamente scostato di quattro o cinque ore disagevoli e pericolose. Partii da Pont sul mezzogiorno, a piedi ben inteso, contando di giungere a Ronco verso le cinque e di pernottarvi. La Val Soana, da Pont dove la Soana si getta nell'Orco, corre fino a Ronco per una stretta profondissima e là si allarga diramandosi in due branche, detta una Val di Forzo e l'altra Val Prato. Da Pont fino quasi a Ronco, i fianchi ripidissimi delle montagne intercettano alla strada la vista delle punte scoscese dove la neve non regge. Tutto quanto cadeva sotto i miei occhi era bianco, di una bianchezza immacolata. La neve aveva colmato le forre, sotto la sferza meridiana non appariva pure uno di quegli enormi solchi oscuri che il sole estivo incide sui fianchi delle montagne. Nessuna traccia del torrente: il fondo della valle saliva come una via piena e larga, se non che ad ora ad ora qualche leggiera gibbosità tradiva i grandi massi travolti o accavallati nelle piene, e allora erano guanciali morbidissimi che sembravano dover cedere al minimo peso. La Soana così rumorosa e spumeggiante trascinava a stento sotto quella spessa crosta le acque invisibili e silenziose. La neve indurita a cristalli sfavillava al sole come un corpo metallico; pareva che tutti gli umori della terra si fossero essiccati, quel mare d'acqua assodata era asciutto come un deserto di sabbia e rendeva sotto i passi lo scricchiolio secco del vetro frantumato. La chiarezza uniforme sembrava allargare gli spazi, l'aspetto solito della montagna ne era così trasfigurato, che ogni idea di relazione e di confronto con altre valli diventava assurda. Quello pareva un luogo unico sulla terra, la continuità non interrotta delle linee e del colore faceva di quel tutto un corpo solo, una enorme conca d'argento che una macchina favolosa avrebbe potuto sollevare intera, tanto era soda e compatta.

Ora il sentiero sfiorava la superficie della neve; dai rami degli alberi vicini giudicavo di quanto sovrastassi al suolo; ora correva sulla terra nuda fra due muri di neve alti come la mia persona e tanto stretti da costringermi spesso a passare di sghembo. Imbattutomi una volta in un uomo che scendeva, non mi fu possibile dargli passo; di inerpicarsi su per la parete liscia e ghiacciata non c'era verso, tentammo insieme di scavare un largo, ma la massa compatta avrebbe richiesto troppo lungo lavoro: si finì ch'egli si mise carponi ed io lo scavalcai. In certi luoghi i muri salivano d'un tratto fino a tre o quattro metri d'altezza e l'andito si oscurava sinistramente: il sentiero tagliava lo spessore di una valanga. Là mi era dato giudicare quanta fosse la potenza della enorme massa rovinante. Nel suo spaccato apparivano sezioni d'alberi che un uomo non avrebbe abbracciato. A volte la spaccatura cadeva nel punto preciso dove era seguito lo schianto, il tronco reciso quasi di netto mostrava la violenza del colpo; si capiva che la pianta secolare s'era spezzata senza resistenza, come un fuscello. La gran frana infatti non sradica, tronca, non le occorre assalire l'ostacolo là dove è più debole, ma spazza via quanto le contrasta come la palla da fucile che fora il vetro senza frantumarlo.

Per lo più non si avverte il silenzio che al cessare di un suono. Là il silenzio era così assoluto da diventare uno dei caratteri positivi del luogo. Al suo paragone la più tacita delle nostre notti invernali, sarebbe parsa rumorosa come una fiera. Vi stavo da tre ore e l'avvertivo continuamente e me ne derivava un innalzamento inusato dell'intelletto, una attività fantastica straordinaria, tanto che mi domandavo se non siano i suoni un impedimento all'allargarsi delle idee. Avevo sopratutto centuplicata la facoltà imaginativa, creavo a me stesso visioni di una realtà ingannatrice, passavo d'una in altra rapidamente, m'internavo in ognuna di esse fino a discernervi minutissimi particolari. Mi pareva di afferrare un nesso logico evidente fra idee e fatti disparàti, di risalire alla ragione ultima delle cose, di scoprire leggi fisiche, di illuminare repentinamente certi abissi della mia coscienza, di affacciarmi alle ultime verità divine. E tutto ciò vertiginosamente, ma durandomi una chiara serenità d'animo. Certo le idee, cercando ora di ripensarle, mancavano di determinatezza, erano faccie di verità non verità intere ed afferrabili, erano lampeggiamenti dell'ingegno, che al momento rischiaravano forse qualche vero occulto, ma per ripiombarlo tosto nelle tenebre. Certo ero venuto in una sorta di ebrietà intellettuale e forse anche fisica, perchè sostenni improbe fatiche senza stanchezza. Ma quella esaltazione era deliziosa oltre ogni dire, e ancora mi godo a rammentarla benchè me ne sfuggano gli elementi:

 
quasi tutta cessa
Mia visïone ed ancor mi distilla
Nel cor, lo dolce che nacque da essa.
 

Rammento un gruppo di tuguri aggrappati alla falda del monte: piccoli, tozzi, lerci, puntellati, cadenti, decrepiti, inverosimili. Tre case in basso, tre case in alto e la strada nel mezzo. Il tetto delle case a valle copre due terzi della strada ed è a sua volta mezzo coperto dal tetto delle case a monte, sicchè la strada non vede mai il cielo. La luce vi scende obliquamente per il vano che corre fra l'altezza del primo tetto e quella del secondo. Quando piove, l'acqua precipita da un tetto all'altro e da questo sulla strada che serba tutto l'anno in riga le bucherelle delle grondaie.

Quei tuguri abitati l'estate i soli giorni che durano i lavori ed i raccolti nelle terre circostanti, servono l'inverno a deposito di fieno, foglie, legnami ed attrezzi agricoli. La loro estrema bassezza li fa parere inginocchiati e l'oscurità della via li impicciolisce ancora, sicchè fanno pensare a gente rannicchiata che ci viva carponi. Sembrano balocchi di giganti o tane di pigmei, a nessuno viene in mente che siano destinati alla razza umana. Tale bassezza, già incredibile l'estate, è resa più mostruosa dall'inverno. Quando io vi giunsi, i tetti reggevano un metro di neve, e parevano schiacciati sotto il peso. Traverso la neve il giorno filtrava nella viuzza con una luce verdognola, fievolissima, una luce da cripta o da acquario. E nella viuzza dormente era un tepore di stalla, come vi soffiasse l'alito di un gregge invisibile. Uscito dalla lucentezza brunita e fredda della valle, quel luogo chiuso, ombroso e tepido mi parve animato. Entravo colla fantasia negli stambugi e li vedevo occupati da gente nana e silenziosa. Omuncoli da stare in boccetta, che mi guardavano dimenando la testa ed ammiccandosi, punto impauriti della mia corpulenza. Mi pareva di inoltrarmi circospetto per tema non me ne venisse qualcuno sotto i piedi. Erano in numero sterminato, bianchi bianchi come la neve, barbe lunghe e capelli lanosi. Erano i padroni del luogo, della valle, della stagione. La grave rovina invernale era opera loro. Essi si aggiravano turbinando per l'aria, piombavano sulle cime, e voltando la neve per forza di poppa l'approdavano sull'orlo delle scogliere, donde la facevano smottare in valanga. Vedevo le braccia e le manine minuscole agitarsi per l'aria con segni di minaccia grotteschi e paurosi. E intanto mi sonava nel cervello non so qual musichetta col sordino che voleva esser gaia ed era di una tristezza mortale. Quanto tempo mi accompagnò quella musica! Avevo da un'ora oltrepassato i tuguri e non potevo levarmela dagli orecchi.

Chi ha la mala abitudine di scrivere la notte, conosce certo a prova il supplizio dei suoni. O versi o prosa, quando egli smette di lavorare e cerca il sonno, sente la cadenza ritmica della strofa o del periodo, risonargli stucchevolmente nel cervello. Larve di strofe e di periodi, metri e frasi, senza parole e senza pensieri, contorni armoniosi vuoti di sostanza armonica, che ingombrano la mente e li spossano più che non faccia la cosciente attività del lavoro. Così mi ingombrava il cervello un inganno sonoro. E gli omuncoli di poc'anzi danzavano al ritmo di quelle note. Danzavano sulla neve piana, sui cornicioni ghiacciati minaccianti l'abisso, sui rami scheletriti degli alberi, sui ponti, sulle croci che sorgono lungo la via. E inchinavano danzando la testa e la piegavano in cadenza verso le spalle con un garbo infantile, con un sorriso infantile, che mi empivano l'anima di angoscia. Già ho torto, credo, di scrivere queste cose, sento di non bastare a rendere anche lontanamente l'effetto di quelle strane e continue allucinazioni. Chi non vide lo spettacolo di una grande nevicata alpina, non può comprendere l'esaltazione che ne deriva ai sensi ed all'intelletto. Gli scrittori Russi, il Tourguèneff sopra tutti, raccontano e commentano stupendamente simili errori del cervello. Ma forse l'immacolata e durevole bianchezza e il profondo silenzio invernale, rendono loro più facile avvertire non solo le lacrime ed i contorni, ma i sospiri e le fuggevoli ombre delle cose. E forse la grande pietà che è nelle opere loro è anch'essa dovuta alla lunga tristezza invernale dei loro paesi, la quale deve maravigliosamente disporre gli animi ad accogliere e sviluppare i sentimenti misericordiosi, la tenerezza e l'amore della sofferenza. Qui in Italia, fuori della valle del Po, chi conosce, chi immagina con giustezza lo squallore di certe invernate alpine? Le maggiori nevicate da Firenze in giù, anche a giudicarne dalle più iperboliche descrizioni, mi parvero sempre tenui e mansuete. Inverno da dilettanti o di parata, che viene per la mostra e che il primo scirocco o scioglie o mitiga in gran parte. La neve che ha tre, quattro, cinque metri di spessore, ha un aspetto ben diverso da quella che si misura a centimetri. La sua bianchezza è più immacolata, più lucente, più metallica, non c'è potenza germinativa che vinca e dissodi la sua compagine, traverso i suoi cristalli, nulla traspare della bruna faccia terrestre, il suolo ch'essa ricopre ne ha modificata la struttura; le linee, i profili non sono più quelli. E quella immensa pace bianca a chi conosce la montagna racconta un convulso disordine di cose. Sotto quei morbidissimi velluti, i fianchi del monte sono corrosi, lacerati, sparsi di enormi massi rovinanti, di case frantumate, talora di cadaveri umani. Tali violenti contrasti sorgono ad ogni passo. Quel dolce candore così radioso sotto il sole meridiano, così soavemente rosato al tramonto, se appena il cielo si appanna o cessano i raggi, diventa subitamente spettrale. Nell'attimo che il sole va sotto, voi passate di scatto dalle più splendide alle più funeree visioni. Prima sono tesori favolosi: smeraldi, topazi, rubini, zaffiri e quante altre gemme sfavillano sui diademi reali ed imperiali, o sul collo e sul petto delle miracolose madonne, o alla fantasia delle più ingorde cortigiane. Sale da ogni parte come un incenso di nebbiuzze opaline, la terra irradia luminosamente per l'aria la sua bianchezza, sembra sciogliersi in candori e vaporare e confondersi colla fulgente gloria del cielo. Ma quella gloria è un'agonia. Il manto gemmato si muta sull'attimo in lenzuolo sepolcrale e nell'aria passa la morte. Passa senza un soffio, senza un brivido, nella immobilità rigida delle cose. E allora il cielo, la valle, le montagne, la neve, vi diventano subitamente nemiche e vi sentite l'anima piccina, vi cadono le forze, vi prende lo sgomento della pochezza umana. Il mare più torbido, i più spaventevoli uragani danno un senso meno profondo di paura e di abbandono. Fra la collera degli elementi, la morte è più vicina, ma meno visibile. Nei grandi sconvolgimenti delle cose c'è un'esuberanza di vita. L'uomo è trascinato a combattere e soccombe lottando, il pericolo determinato attira a sè tutte le facoltà della mente; tutte le attività vitali sono intese a superarlo; non c'è tempo nè modo di abbandonarsi e di disperare. Qui, che cos'è che vi minaccia? Cercatevi attorno: gli elementi non infuriano e non vi assalgono, stanno inerti in attesa. Il nemico è in voi, nell'animo vostro sgominato dalla gran morte circostante. Ad ogni passo sentite di affondare nel nulla, vi pare che il mondo vitale vada sempre più allontanandosi e staccandosi da voi e vi assale uno stanco tedio della vita e un anelare incosciente a quella pace che vi circonda e vi atterrisce. Sopratutto provate lo sconforto dell'impotenza; vi sentite vili e disperate di mai più ricuperare l'energia delle membra e dell'animo. E mille dubbi minacciosi si affacciano ingrossandosi a vicenda. Se si aprisse il suolo, se smottasse il monte, se vi travolgesse la valanga, se vi assiderasse il freddo, se smarriste la strada, se, se, se, quanti ne può mettere la mente sviata, che fare? dove cercare aiuto? a che abbrancarsi? per chi urlare nella notte? E allora tutti i pericoli immaginari creano il pericolo reale dello scoramento e vi viene voglia di gettarvi per vinto sul gran letto bianco, di darvi alle tenebre, all'inverno, alla morte. E sempre le visioni paurose trovano alimento nella bianchezza morta di ogni cosa. Vi pare che la notte fitta farebbe dileguare quei fantasmi. Come tarda a giungere la piena notte! il sole è sotto da gran tempo, a quest'ora già al piano è buio pesto, perchè non qui? La piena notte è già venuta, e di più non raffittisce, il cielo è nerissimo, ma sulla terra albeggia un chiarore di lampada funeraria.

Oh! allora come vi assalgono i ricordi domestici e il miraggio delle stagioni ridenti. Allora avvertite con uno struggimento di tenerezza quanto siano vivi e parlanti i fili dell'erbe, i cespugli, le foglie e persino i sassi nudi della strada. E come sia carnosa la negra faccia della madre terra. Oh! affondare le mani nell'umido tepore dei solchi appena smossi, e baciare la terra e chiamarla protettrice e soccorritrice! Quanta compagnia fanno le cose, i colori ed i suoni! Cantano dunque veramente gli usignuoli nelle dolci notti di primavera?

Ricordo che imbruniva quando giunsi in vista di Ronco; il villaggio mi appariva nero e fumante mezzo miglio lontano. Camminavo da cinque ore, e la mattina di quel giorno istesso avevo già fatto, pure a piedi, tre altre ore di strada per visitare in Val di Ribordone una borgatella seppellita intera dalla valanga. A Ronco c'è un albergo: ero sicuro di trovarci buon pranzo e discreto alloggio; ma appena il sole fu sotto, appena vidi smorire e allividire quella immensa bianchezza, sentii che non potevo più fare un passo in salita. Mi parve che una mano mi respingesse, pensai che se avessi passata una notte fra quella neve non ne sarei uscito mai più, provai un tale smarrimento, un tale senso di solitudine e di paura, che mi voltai indietro senza esitare e rifeci di notte tutta la lunga strada, pure di togliermi alfine da quella valle silenziosa e spettrale. Giunsi a Pont verso le nove di sera, presi tosto una carrozza e non ebbi pace finchè non ebbi veduto da Cuorgnè il cielo aperto e largo della pianura.