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Czytaj książkę: «Novelle e paesi valdostani», strona 13

Czcionka:

Quando sul punto di lasciarlo, lo richiesi del suo nome per scriverlo sul taccuino, il povero uomo ebbe un sospetto mortale e ricusò di netto.

– Ma perchè? – gli domandai.

– Signore, io non conosco il vostro.

– Ve lo dico subito.

– Non ve lo domando.

E seguitava a guardare me ed il taccuino, coll'aria di un uomo pentito d'avere attaccato discorso, nè mi valsero i ragionamenti coi quali volevo persuadergli che non ero nè un carabiniere travestito, nè un esattore, nè altro agente fiscale, come io credevo temesse. Ma non era questa la sua paura, e più insistevo ad abbonirmelo, più lo trovavo riluttante, finchè stretto dalla mia insistenza e fissando con occhi sempre più stralunati il taccuino e facendosi il segno della croce, balbettò già volto alla fuga:

– Vous pouvez être le diable!

E scappò via.

Aveva temuto ch'io volessi segnare il suo nome nel registro dei dannati per l'eternità.

Certo il vecchio, tornato in paese, raccontò d'essersi imbattuto in Bergniffe, perchè la paura muta in certezza ogni sospetto! E la vivacità del suo racconto e il suo visibile smarrimento, vinsero forse la miscredenza dei pochi spregiudicati. Che discorsi quella sera! Se il diavolo non fosse agli sgoccioli, la leggenda sarebbe creata. E chissà che non vada già formandosene il nucleo primitivo, che poi svanirà come una bolla, stretto dalla crescente incredulità. O forse il Demonio è più accorto che non si creda e muterà col tempo nome e forma, ma non sostanza ed argomenti. E forse del mio passare sulla terra, non rimarrà fra cent'anni altra vestigia, che la storia del vecchio spaccalegna e dello spirito maligno.

I SOLITARI

La neve sull'alta alpe è di ogni stagione. Ma l'estate, la terra tutta calda di vita germinativa la respinge; i fiocchi radi e leggieri svolazzano a lungo per l'aria aggirati dal vento e sfiorato appena il sommo delle erbe, si squagliano e svaniscono, come le monachine quando vanno a letto. Tuttavia la gente del luogo li guarda con tristezza temendo che un capriccio di stagione non li insaldi durevolmente alla terra. Quando il terreno dura bianco per lo spazio di due giorni c'è da temere che non imbruni più. Allora l'estate precipita di colpo nell'inverno che la neve precoce fa presagire rigidissimo. Lassù l'anno ha due sole stagioni: le estreme. Come in Giugno l'ultima crosta di neve cova l'erbe già vigorose e quasi fiorite, sicchè da un giorno all'altro dove prima era tutto bianco il terreno appare tutto screziato di colori vivi, così in Settembre e talora al finire d'Agosto, una sola notte trasfigura la terra e di giardino la rimuta in deserto. Mancano a quelle alture le cangianti trasparenze primaverili e i languori autunnali; la vicenda delle stagioni vi è aspra e violenta come la struttura dei luoghi. E colla vicenda delle stagioni, la vita animale che l'accompagna e ne consegue. Giugno in un sol giorno reca alle alture tutti gli abitatori estivi, apre i casolari, li riempie del popolo tranquillo e taciturno dei pastori e del gregge sonoro: Settembre in un sol giorno spazza via uomini ed animali, chiude le case e fa muti tutti gli echi delle montagne. La giornata della partenza è festosa. Il popolo migrante serpeggia a frotte per le chine, si nasconde nei seni, riappare sulle spianate, prima la mandria poi i mandriani. I mantelli macchiati o bruni delle vacche, l'argento dei sonagli, la sottana rossa o nera delle donne, la giubba biancastra dei pastori, e il fardello che portano, coperte fioreggiate, stoviglie e grossi paiuoli rubicanti al sole come scudi, fanno insieme una giostra abbarbagliante di colori, che contrasta e s'intona col verde ancora fresco e giovanile dei prati. Uno scampanellare continuo scaturisce da principio d'ogni parte della montagna, finchè vanno i diversi accordi ingrossando in uno solo a mano a mano che le frotte diverse si confondono calandosi nell'enorme imbuto della valle. Di lontano, quell'accordo rammenta le allegrie dei campanili il giorno di Pasqua. Lo ascoltano dall'alto i pochi valorosi che vi dimorano tutto l'anno e vi sentono l'estremo saluto che manda loro il consorzio umano da cui vivranno separati per otto eterni mesi. Separati e vicini. Ma li disgiunge tanto ostacolo di pericoli e disagi e così profonda diversità di clima e di consuetudini, da credersi essi confinati agli estremi limiti del mondo. Dal giorno che gli ospiti estivi lasciarono l'alpe, ai pochi rimasti è tolto il ricambio delle attività umane; cessa loro la norma del dare e dell'avere. Oramai della famiglia umana non vedranno più che le atroci miserie ignote alle genti e dell'uomo non potranno mostrare se non la parte divina: la pietà soccorritrice. Dal mondo altro più non aspettano che occasioni di sacrificio e di eroismo. Mentre nella valle e più al piano il sole è ancora torrido e le vendemmie cantano sui colli, mentre i laghi e le pendici formicolano di gente festosa e suona intorno per la campagna la dolce egloga autunnale, ad essi già pesa sul capo il basso cielo e sta nel cospetto la spettrale bianchezza dell'inverno.

All'ospizio del Gran San Bernardo si contano in tutto l'anno dieci soli giorni interamente sereni; la media annua della temperatura vi è inferiore a quella del formidabile Capo Nord, vi sono frequenti gli inverni di nove mesi, durante i quali il termometro oltrepassa spesso i 30 gradi R. sotto lo zero. La neve non vi scende a falde fuorchè in estate; l'inverno è un tempestare furibondo di minutissimi cristalli ghiacciati che entrano col vento per ogni dove, si aggirano pulviscolo gelido nelle stanze, e non c'è porta o finestra che li respinga. Tuttavia, benchè quello del Gran San Bernardo sia riputato, e con ragione, il più disagevole e pericoloso fra gli ospizi, credo che ve ne hanno altri di più penoso soggiorno. Là almeno, una certa regola monacale inganna il tempo e fa meno amaro l'esilio. Vi sono parecchi padri e un discreto numero di novizi. La giornata è spezzata da occupazioni disparate: pratiche religiose, studio, scuola, osservazioni scientifiche, governo della casa, ispezione dei valichi. Nessuno, sia pur magro fatterello della giornata, passa inosservato a quei solitari. I piccoli rancori scambievoli, i piccoli sotterfugi, le congiure sorde per conseguire minuscoli intenti, ogni parola e l'accento di essa, ogni leggerissima infrazione alla regola, la durezza di un comando, la lentezza nell'ubbidire, diventano fieri avvenimenti che agitano quegli ingegni e quegli animi più che non facciano di noi le grosse vicende della politica o della borsa. Dove sono in quattro a tavola, si discorre. Quella gente che legge più libri e con più intensa attenzione che nessuno di noi, trova in ogni libro molte più cose che noi non sapremmo. Benchè remoto dai centri popolari, ogni uomo colto o produce o rinnova ogni giorno un certo numero di idee e nelle ore dei ritrovi queste, esposte nel crocchio, colpiscono le menti impazienti di moto, vi germogliano come in buon terreno, si allargano in corollari, sollevano dispute, nutriscono i discorsi. Le amicizie devono serrarsi e caldeggiarvi con impeti d'amore. La sera, nella grande e confortevole sala da pranzo, qualche novizio suona il cembalo o l'organo, doni di munifici visitatori. La grandezza degli spettacoli circostanti, la violenza dei fenomeni, quel sentirsi così lontani dagli uomini e dai dolci affetti umani, l'imminenza continua di orrende catastrofi, le frequenti preghiere, la coscienza di un grave ed austero dovere compiuto, provocano certo in quegli animi e vi mantengono una sorta di esaltazione poetica, che li fa vibranti ed echeggianti. Come devono risuonare in quel silenzio claustrale le armonie della musica sacra! Quanti ricordi infantili, quanti propositi di virtù, quanti impeti di tenerezza soffocati e rinascenti, quante piccole vipere tentatrici devono suscitare in quei cuori! I piccoli consorzi sono il compendio dei grandi; dove l'uomo trova un compagno in cui rispecchiare le proprie infermità, non può dirsi intieramente infelice.

Ma vi sono ospizi dove tale compagno non esiste. Al Piccolo San Bernardo vive da trent'anni un uomo che la solitudine invernale divezza ogni anno dall'uso della parola, cosicchè al primo giungere dell'estate egli dura fatica a discorrere. Là non convento, non regola, non confratelli e non novizi. L'ospizio appartiene alla Religione dei Santi Maurizio e Lazzaro che lo mantiene in discreto assetto; ma perchè ivi è minore l'affluenza dei viandanti e meno pericoloso il valico, non vi dimora che un rettore con due servitori e due vecchie domestiche.

L'abate Chanou, cavaliere e canonico, è un uomo colto, socievole, argutissimo, austero e gioviale, innamorato della montagna, curioso osservatore de' suoi fenomeni, tutto fervente di zelo scientifico. Venne giovanissimo a reggere l'ospizio e non volle più dipartirsene, malgrado le vistose offerte che gli rinnova spesso il vescovo d'Aosta, di prebende o di canonicati. – Salì povero, e dura tuttavia. Al suo primo giungere fuori del messale sull'altare e del libro dei passeggeri, non c'era, in tutta la casa, traccia di carta stampata o manoscritta. Ora il suo studio ha le pareti raddoppiate di scaffali, dove stanno alla rinfusa le opere di San Tommaso e quelle di Herbert Spencer, e Marco Polo discorre con Livingstone e Stanley, e l'Imitazione di Cristo stupisce di trovarsi daccanto la Fisiologia del Claude Bernard, e Victor Hugo fiancheggia Bossuet e Fénelon. È abbonato alla Revue politique et littéraire, e Revue scientifique uno dei più vivi periodici di Francia e ne possiede tutta la collezione fin da quando la si chiamava: Revue des cours littéraires et scientifiques e stampava le lezioni professate all'Istituto di Francia ed alla Sorbona. Tutti libri raccolti coi quattrini del magrissimo stipendio, del quale non camperebbe a Roma lo spazzino di un ministero.

Durante alcuni anni, salì l'inverno all'Ospizio uno strano tipo di vecchio cospiratore e vi rimase un mesetto a legarvi libri e giornali. Era un piemontese, già guardia doganale, poi nel 1831 congiurato repubblicano e come tale condannato a morte e costretto a fuggire di patria. In esilio, imparò l'arte del legatore, ma o difetto di metodo o di costanza, passò d'uno in altro mestiere, finchè dopo varie e fortunose vicende, finì spaccatore di ghiaia lungo le strade della Savoia francese e repubblicana. Il nostro prete andò a stanarlo in qualche buco di vallata dove l'inverno le strade hanno un metro di neve, e vistolo affamato e senza lavoro, pattuì con lui che ogni inverno sarebbe salito all'Ospizio per riprendervi lo strettoio e le correggiuole dell'antico pacifico mestiere. Quelli furono, nella vita dell'abate, gli anni buoni e ridenti. Il vecchio aveva visto mille cose coll'occhio savio del filosofo disperato e pare le raccontasse a tratti vigorosi ed efficaci. Il prete, troppo colto per compiacersi di conversare coi domestici, trovava in lui un interlocutore immaginoso e paziente. L'indole irrequieta del cospiratore, domata dagli anni e dalla miseria, si confaceva colla tranquilla e riposata indole del romito attivato dalla curiosità scientifica e letteraria. Entrambi amantissimi della lettura, un inverno divorarono insieme il romanzo postumo del Flaubert: Bouvard et Pecuchet, pubblicato nella Revue politique. Mai il verbo divorare applicato alla lettura di un libro corrispose più giustamente all'azione. Noi sfioriamo la mensa intellettuale di un libro: quelli tornano dieci volte allo stesso piatto e non ne lasciano briciola. Quella lettura li lasciò caldamente ammirati.

– È degno di stare coi libri del Walter-Scott, e coi poemi in prosa del Chateaubriand, mi diceva l'abate, cui nessuna meschineria critica soffocava la larga ed ingenua facoltà di ammirare.

Un anno il legatore non salì. Come venne la bella stagione, l'abate domandò di lui nei paesi vicini, ma nessuno seppe dargliene notizia. L'ultima volta era partito dall'Ospizio malandato e povero in canna come sempre; ma di trattenervisi non si parlava nemmeno tanto gli durava la natura nomade e irrequieta. Al mestiere di spaccar ghiaia, non ci doveva più reggere; le mani gli tremavano ed erano più le martellate sulle dita che sui ciottoli. Povero vecchio! Sarà andato a morire in qualche stalla giù nelle valli Savoiarde, fra gente ignota, o forse sul margine stesso della strada al cadere di una notte invernale, indebolito dalla fame e dal freddo.

E tornò al prete la dura solitudine: i domestici rifugiati nella stalla, egli in libreria. Se non che, qualche volta, preso dalla impazienza di una voce umana che parlasse, non il gergo valdostano, ma la lingua letteraria, conforto e sollievo del suo spirito, si recava, nelle giornate senza vento, ad un luogo vicinissimo donde sillabando ad alta voce di contro l'Ospizio, le pareti gli respingevano intera e netta ogni parola. L'eco era diventata il suo interlocutore. Una volta, ed era d'estate, lo intesi sfogare con quel docile dialogista certi suoi ardori patriottici d'italiano, offesi dalla impertinenza di alcuni ufficiali francesi passati quel giorno dall'Ospizio. Capitai all'improvviso, mentre scagliava contro l'innocente parete le sue invettive e ne risi; ma quando m'ebbe detto ridendo bonariamente che quell'eco era la sola buona compagnia che egli avesse per otto mesi d'inverno, mi sentii stringere il cuore per la pietà. Un animo così caldo, una mente così attiva e socievole, dalle membra così agili, seppelliti per tanto tempo in quella tomba nevosa!

E certe volte, sono vitaccie da rischiarci la salute e la vita.

Rammento una visita che feci all'Ospizio parecchi anni or sono. Arrivai che annottava. Alla seconda casa di rifugio mi aveva colto la neve e il cantoniere voleva persuadermi a passarvi come che sia la notte, minacciandomi se partivo, Dio sa che pericoli. Ma era l'undici di settembre, e non mi pareva che in così bella stagione dovesse la neve durare tanto da far paura. Ero solo e quindi non trattenuto da riguardi cortesi; in un'ora al più sapevo di poter giungere all'Ospizio e mi rimanevano due ore di giorno. Ma la nevata fu proprio delle buone, di quelle che in due ore, al piano, colmano i fossati ed annullano le siepi e lassù in alto addolciscono le chine troppo scoscese e le fanno traditrici. Dopo mezz'ora ero seriamente pentito, ma tardi; benchè non fossi che a un terzo di cammino (tanto la neve mi contrastava il passo); tornando, avrei dovuto tenermi indosso gli abiti inzuppati e induriti dal gelo, mentre all'Ospizio mi aspettava la mia valigia che vi avevo mandata la mattina da un carrettiere diretto alla Savoia.

Dunque arrivai che annottava. L'abate, che la vigilia avevo avvisato della mia prossima venuta, era inquieto, benchè mi facesse più giudizioso di quello che sono e si studiasse di immaginarmi rifugiato al caldo ed al sicuro. Mi strapazzò come un cane, mi abbracciò come un amico e mi allestì una cena luculliana. Un fritto di patate, una scodellata di minestra al latte, un pasticcio di spinaci, una costola di capretto, e due bicchieri di vino dell'Inferno, di quello che fanno i vigneti di Liverogne e che procacciò forse a quel villaggio il nome rablesiano che non si merita.

Dopo cena passammo nel suo studiolo e seduti tutti due a cavallo della stufa cominciammo a discorrere. Seguitava a nevicare serrato e dalle gole savoiarde soffiava un vento feroce che rompeva ululando alla casa e abburattava la neve nello spazio vuoto fra le doppie impannate. Un tempo perverso!

Bisogna sentirle in Dicembre queste sinfonie, mi dice il prete; non c'è grido, urlo, fischio, lamento e singhiozzo di uomo o di belva, che non echeggi e muggisca nello spaventoso concerto delle bufere invernali. A volte si odono degli a-solo che fanno raccapricciare: sibili lunghi e trillati e gemiti che sembrano di moribondi s'innalzano sulla scompigliata onda dei suoni. Allora i cani dell'Ospizio ululano funestamente e si rannicchiano tremando, e nella stanza più riposta, malgrado le muraglie da fortezza e le doppie imposte e gli usci doppi e le bussole ed i coltroni, la fiammella della lampada, accesa tutto il giorno, sventola da averne le traveggole.

Mentre discorreva, lo vedevo tendere l'orecchio come a suoni lontani, poi scattò in piedi e disse:

– Che diavolo succede?

Anch'io avevo inteso dei suoni, ma questi mi parevano tanto corrispondere al discorso intavolato che li attribuivo ad un errore della fantasia. Era un urlo gigantesco nel quale si distinguevano mille urli minori; sembrava la chiamata, il lamento supremo e disperato di un essere mostruosamente grande che si avvicinasse lentamente, a cui rispondeva un non so quale allegro accordo di suoni metallici che stringeva il cuore d'angoscia e di paura.

Il prete chiamò i domestici e uscimmo sul ripiano della scaletta esterna che domina la strada.

Dal versante italiano ci giungeva un coro di muggiti nettamente distinto e lo scampanellare di una sterminata mandra di bovine.

– Ah, la fiera! la fiera! gridò il prete atterrito, vengono dalla fiera; hanno voluto passare a dispetto del tempo, quei muli di Savoiardi! Modesto, aprite le stalle e spalancate bene la porta che non s'ammazzino a cornate nella furia d'entrare; lumi, lumi, lumi all'uscio della stalla, e voi Giacomo al fieno, aspettate che ci vengo anch'io, e anche voi, mi disse, animo! qui bisogna darsi attorno; è una grande disgrazia, vedrete, una grande disgrazia! Dorotea, vino bollente e minestra, e scendete quanto si può degli abiti miei, anche quelli da prete, e presto presto.

Poi traversammo la strada affondando fino al petto nella neve e fummo alle stalle ed al fienile, donde a grandi bracciate levammo quanto foraggio capivano le mangiatoie. Bisognava fornirle prima che capitasse la mandra che poi nella confusione non c'era verso, e spicciarsi a battersela, che le povere bestie spaventate ed affamate non ci cogliessero sul loro passaggio, che ne andava forse della vita. Dio sa come sarebbero entrate a precipizio là dentro!

Oh, non entrarono a precipizio povere bestione moribonde. A dugento passi dalla casa, malgrado il vento ed il frastuono, le si sentivano soffiare per la immane fatica che facevano a rompere col petto la muraglia di neve che le contrastava. Perchè erano venute man mano affondandosi e le zampe toccavano il suolo duro, cosicchè ad ogni passo mettevano il muso sull'enorme scalino bianco, continuamente rinnovato. Vedendo quei lumi accesi e quella gente in aspetto, le prime si fermarono guardandoci coi grandi occhioni stupidi e levando il muso per muggire, ma il fiato rotto mozzava loro la voce; e intanto ne venivano, ne venivano serrate le une sulle altre, a cinque a sei di fronte, ammantellate di neve, grondanti acqua e sudore, pazienti, acciecate dal vento, non avvertendo nè il camminare nè il sostare, avanzandosi perchè spinte dalle giungenti, sostando perchè impedite dalle giunte. Le prime s'erano avviate alla stalla e già vi riposavano, ma la stalla poteva capirne una trentina, facciamo quaranta a pigiarle, e già era piena e riboccava che la mandra non pareva scemata d'un capo.

Non se ne vedeva la fine; lontano lontano lassù presso la Colonna di Giove, era uno scampanellare serrato, e man mano che venivano, trovando la strada fatta, andavano mugolando e fiutavano il rifugio. Quante ve n'erano ferme innanzi l'Ospizio? Il prete diceva un dugento a dir poco e ne dovevano giungere almeno altrettante. Che farne? Dove metterle?

Già cominciavano a tempestare; quelle che stavano vicino alla stalla e odoravano il fieno non volevano saperne di tirare innanzi, e l'onda crescente spingeva quelle di mezzo. Si sentiva lo scalpitìo disordinato che fanno le vacche quando si saltano addosso, e a certi larghi aperti improvvisamente nel rimescolìo oscuro, s'indovinavano le prepotenze delle corna più gagliarde. In quella fitta di corpi pesanti che si agitavano fra la neve, al lume incerto di poche lampade affievolite dal vento, c'era la minaccia di imminenti, inaudite battaglie e già le ultime vacche rifugiate al coperto erano assalite a colpi di cornate furiose e dalla stalla chiusa usciva un rombo sordo di muggiti, indizio di terribili massacri.

E poi giunsero i negozianti, una quindicina d'omaccioni che si raccomandavano al Rettore come se ne aspettassero miracoli, parlando, strillando, piangendo, singhiozzando, tutti ad una volta con gesti larghi e rapidi che contrastavano colla pesantezza montanara.

Ma il Rettore era impotente a soccorrerli, non c'era posto, non c'era posto, la volevano capire che non c'era posto a pagarlo tesori? E allora quei forsennati si facevano minacciosi: erano cinquecento capi di bestiame, cinquecento, ha inteso, Rettore, e s'avranno a perdere tutti, mentre l'Ospizio è vuoto?

– Eh, fateli salire all'Ospizio se vi riesce, che io vi apro anche la mia camera.

Allora quelli si misero ad un'impresa disperata, ma il Rettore li lasciava fare che non c'era altro verso di quetarli.

Legata una giovine giovenca ad una grossa fune si diedero a tirarla ed a spingerla su per la scaletta che mette all'Ospizio. La povera bestia alle prime non oppose resistenza e lasciò più volte peli e sangue scivolando e stramazzando su' lucidi scalini di pietra, ma poi infuriata dal dolore e dallo spavento, fu somma grazia lasciarla rotolare fino al basso, donde non si levò più.

– Metteteci delle tavole che facciano un piano, suggerì il Rettore.

Ma non giovò nemmeno questo: le tavole parevano insaponate e non vi reggevano nemmeno i piedi nudi degli uomini.

Allora gli uomini si videro perduti. Era passata un'ora e il freddo diveniva insostenibile. Il prete li costrinse a rincasare e a rifocillarsi nel tinello; la stufa di pietra biancheggiava arroventata e fu scodellata la cena.

Intanto la mandra abbandonata muggiva di sotto come un uragano e fra i muggiti salivano rantoli di moribondi e gemiti che parevano umani. Poi, frustata dal gelo, la turba oscura si ripose in cammino; tutta la notte giù per le balze dirupate che scendono alla Savoia s'intese lo scampanellare degli accordi e mugolii isolati di vacche smarrite.

Io non so bene quante ne morirono o gelate o precipitando dai burroni, ma furono assai. Parecchie, guidate dall'istinto, andarono dopo sei o sette ore di cammino, a picchiare agli usci delle stalle savoiarde; altre giunte alle basse regioni dove non era neve, si fermarono nei pascoli in attesa. Dalla stalla dell'Ospizio due furono levate morte sformate e parecchie ferite, e l'indomani, partendo, i negozianti piangevano come fanciulli, mentre il sole improvvisava rigagnoli nella neve e nel cielo purissimo scintillava la vetta del Monte Bianco.

Quello che dicevo or ora dell'eco mi richiama in mente un altro prete montanaro.

Siamo in un paesucolo invisibile in capo della Val Chiusella. Invisibile, perchè le case sparse lungo la valle sono così discoste l'una dall'altra che a nessuno viene in mente di raccoglierle alla unità ideale di paesello. Una povera chiesa, una povera catapecchia parrocchiale, un pilone colla scritta: Albo pretorio, ecco il Comune. Ivi fu parroco per molti anni un brav'uomo, studioso e mite. Certe volte l'inverno, la messa domenicale non ha un solo ascoltatore, tanto è l'impedimento della neve; ed egli pontificava servito dalla domestica, una vecchia sorda e brontolona. Compagno unico delle sere invernali gli era un loquacissimo pappagallo. Le rare volte che capitava gente, il pappagallo strillava: Ai arrrme! (all'armi!) con piglio sergentesco. Poi discorreva col prete.

Io intesi questo dialogo, mentre il brav'uomo stava preparandomi una tazza di caffè.

– Provost que chi fè? – Fou 'l cafè. – Fè 'l cafè? (Prevosto che fate? – Fo il caffè. – Fate il caffè?) e terminava, in un Ah rauco di approvazione.

La sera alle undici, mentre il prete stava immerso nello studio, il pappagallo, gli diceva imperiosamente: – Provost 'ndoma a deurme? – (Prevosto andiamo a dormire?) e il padrone obbediva, persuaso che quelle parole corrispondessero ad un pensiero scaturito nella mente dell'uccello, ed esprimessero una sollecitudine affettuosa. Errore, credo, volontario, perchè quello non era uomo da attribuire senno ai pappagalli.