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Czytaj książkę: «Racconti e novelle», strona 18

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III

Passato il muricciuolo del giardino e giunto al lato destro della propria abitazione, gli par d'intendere una voce sconosciuta. Che fare? Se alcuno lo vede in quello stato di nudità, può nascere uno scandalo, ed egli corre pericolo d'essere accolto a bastonate. Fatti bene i suoi calcoli, e meditati i consigli della prudenza, s'appiatta sotto ad un mucchio di fieno, e si pone in agguato, finchè cessi il pericolo.

A un tratto, ecco spalancarsi le imposte d'una finestra, ed affacciarvisi una donna, che fa cenno della mano ad un giovinotto.

– Pst! Pst!

– Mariuccia!

– Lodovico!

– Buone nuove!

– Tuo padre?

– Ha dato il suo assenso.

– Dunque?

– Fra quindici giorni saremo uniti.

– Lodovico, tu mi fai morire dalla consolazione.

La giovinetta che sta per morire di consolazione è la sorella di Enrico. Ella amava da due anni il signor Lodovico Remoli, e n'aveva ricambio di tenero affetto; ma il padre del giovane, desiderando che suo figlio aspirasse ad un partito vantaggioso, e sapendo che la dote di Mariuccia non ammontava che a venti mila lire, si era costantemente opposto a quelle nozze. La morte di Enrico Lanfranchi tornò propizia ai due innamorati. Mariuccia vide aumentare la propria dote d'altre venti mila lire; e il padre di Lodovico, dopo aver verificata e ponderata la quantità e qualità dei solidi, diede alfine l'assenso desiderato.

Il colloquio di quei due giovani amanti fu in quella sera più lungo e più animato del solito. Era tolto ogni ostacolo alla loro felicità; l'avvenire sorrideva ad essi splendido, bello e senza alcuna nube.

Enrico Lanfranchi porgeva orecchio a quel dialogo, e di tratto in tratto si asciugava una lagrima.

– Povero Enrico! esclamava Mariuccia; ho sofferto tanto quand'egli è morto… ed ora… Lungi questo pensiero abbominevole!.. Benediciamo alla memoria di quel poveretto… Egli contempla dal cielo la mia felicità, e ne gioisce… Mi amava tanto… Pure quando io penso… che s'egli vivesse ancora… il nostro matrimonio non potrebbe aver luogo… Ah! come l'amore ci rende egoisti! Enrico… fratello mio… perdonami questo orribile pensiero.

– Io ti perdono, onesta fanciulla, disse Enrico soffocando le lagrime a stento; e per verun conto non vorrei turbare la tua gioia innocente. Sposati all'uomo che adori e vivi felice; la mia morte ti ha recato qualche vantaggio; se io fossi vissuto più a lungo, ora entrambi saremmo forse infelici.

Tutto commosso di tenerezza e di affetto, Enrico stava sul punto di uscire dal nascondiglio e presentarsi ai due fidanzati; ma temendo che la sua improvvisa apparizione non disturbasse la gioia di quel dolce colloquio, si trattenne; e prorompendo in lacrime dirotte, si lasciò sfuggire per la prima volta dal labbro queste parole:

– Quale stolido capriccio fu il mio di abbandonare il cimitero, ove dormiva sì tranquilli i miei sonni, per venir qui… a disturbare il sonno e la felicità dei viventi?

IV

Verso mezzanotte, i due fidanzati si separarono ricambiandosi mille teneri baci; Mariuccia chiude le imposte, e Lodovico si allontana zuffolando lietamente come un passero testè sfuggito alla gabbia.

– Non monta, dice Enrico sbucando dal nascondiglio: farò una visita a mio fratello, ed a norma del suo contegno, prenderò la risoluzione che più mi parrà conveniente.

Fatta una breve conversione a sinistra, il dabben uomo tocca il limitare della propria casa. Batte tre colpi; il cane gli risponde dagli atrii con urli di allegrezza; poco dopo la porta si spalanca, e il vecchio portinaio in mutande e berretto da notte comparisce sulla soglia.

– Misericordia! un uomo nudo… a quest'ora…!

– Sì, Bernardo; il tuo padrone…che viene dal Campo santo… ed ha bisogno di ristorarsi con una buona cena ed un buon letto.

Il vecchio domestico lascia cadere la lanterna, e, fatto tre volte il segno della croce, balbetta con voce tremante una dozzina di deprofundis. Frattanto il fido barbone dimena la coda, spicca salti di allegrezza, e lambisce amorosamente le polpe dell'antico padrone.

– Non temere, Bernardo; io non venni qui per farti alcun male, tu mi fosti sempre il più fedele e il più amorevole dei servitori, nè potrò mai scordare le tue cure e la tua assistenza durante la lunga malattia che mi condusse al sepolcro. Io so ancora che non dimenticasti di recitare ogni sera qualche prece pel mio eterno riposo, e te ne sono riconoscente. A Dio è piaciuto ch'io tornassi al mondo, nè saprei dirti come ciò avvenisse. Sentendo in me rinascere la vita ed il vigore, e trovata la cassa aperta, volai senza indugio all'amplesso dei miei più cari. Via! un abbraccio, mio buono, mio fedele e diletto Bernardo!

Il portinaio non può riaversi dalla sorpresa e dal terrore.

– Dunque… siete proprio voi… il mio antico padrone… il signor Enrico… che or fanno sei mesi… abbiamo seppellito con tanti onori?..

– Io son quel desso in anima e in corpo…

– E siete vivo… propriamente vivo… quale eravate prima di… morire?

– Se più indugi a darmi una veste e a prepararmi da cena, tu mi farai morire un'altra volta. Presto! vanne alla guardaroba, e cavami fuori qualcuno dei miei abiti, sicchè io mi riscaldi la pelle.

– I vostri abiti… signor padrone…

– Ebbene?

– I vostri abiti furono in parte venduti, in parte donati. Supponendo che voi foste morto davvero, io mi sono appropriato il vostro tabarro, e n'ho fatto dei pantaloni pe' miei piccoli bimbi. La vostra veste da camera fa convertita in due sottane per mia moglie, e quel bellissimo paletot che voi indossavate ai giorni di festa, l'ho fatto raccorciare alle falde ed ai manicotti, e v'assicuro che mi si attaglia mirabilmente.

– Tanto meglio. Vedi se nel forziere si trovasse una coperta di lana, tanto ch'io non m'agghiacci stanotte. Domani ricorreremo al sartore, e provvederemo nuovi abiti. Frattanto dammi notizie di mio fratello. Come se la passa quel caro Aurelio? L'udisti mai lamentare la mia perdita immatura? Pensi tu ch'egli sarà lieto nel rivedermi?

– Vi amava tanto! non passa giorno che egli non versi qualche lagrimuzza proferendo il vostro nome; l'altro ieri lo vidi in istretto colloquio con un valente scultore, al quale diede incarico di farvi un monumento che verrà a costare più di mille lire.

– Giungo in tempo per risparmiargli una tal spesa.

– Oh! il nostro padrone non è uomo che badi a spese!

– Cuore generoso! Io lo conosco troppo per dubitare di lui.

– Dopo la vostra morte si può dire ch'egli abbia ricostrutta la casa. Vedrete che lusso di pitture, di decorazioni, di mobili! Vostro padre, morto due mesi dopo di voi…

– So tutto. Il buon uomo è venuto a trovarmi laggiù nell'altro mondo, e mi ha mostrato il suo testamento che io trovai ragionevole e degno d'approvazione. Aurelio ereditò circa ottantamila lire, Mariuccia quarantamila, ed a mia moglie fu fissata un'annua pensione di ottocento lire.

– Vedo che siete informato di tutto. Ottantamila lire! Sapete voi che la è una fortuna colossale! Il signor Aurelio è al giorno d'oggi il primo estimato del paese. Quanto alla padroncina, vi dirò che, mercè l'aumento della dote, ella sposerà fra pochi giorni il signor Lodovico Remoli, figlio dello spedizioniere.

– Povera figliuola! sono contento di saperla felice!

– Il signor padrone… (scusate s'io parlo sempre di lui) il signor padrone Aurelio sta anch'egli per ammogliarsi, e la sua fidanzata gli recherà in dote, per quanto ne fu detto, cento e più mille lire in denaro sonante. È un partito eccellente che, come vedete, raddoppierà la sua fortuna. Ma… ora che ci penso… converrà bene che il signor padrone Aurelio… e la padroncina… vi ritornino la porzione dei beni che vi spetta di diritto, giacchè in fin dei conti… se siete propriamente vivo… come io non oserei più dubitare all'appetito che dimostrate, la roba vostra, è roba vostra, ed è giusto vi sia resa integralmente. La giustizia avanti tutto. Io vi prego di perdonarmi se ho ardito indossare il vostro paletot e convertire la vostra veste da camera in un paio di gonnelle per mia moglie. Chi mai avrebbe creduto che voi sareste tornato ancora al mondo? Tant'è; abbiamo veduta anche questa! Oh, il signor Aurelio deve rimanere ben sorpreso!

Mentre il vecchio portinaio si stempera in questa lunga cicalata, Enrico, ravvolto in una coperta di lana, smaltisce di tutta fretta un pasticcio freddo, e vuota un fiaschetto di barolo. Ma nè il cibo nè la bevanda giovano a rasserenargli lo spirito; che anzi, abbandonandosi a sconfortanti riflessioni sull'egoismo degli uomini, egli piega il capo sul petto e non risponde parola.

– Ebbene? prosegue il vecchio portinaio; debbo io risvegliare il signor Aurelio e la padroncina?

– No, mio buon amico; questa sera non conviene ch'io mi presenti ad alcuno. La mia apparizione inaspettata produrrebbe cattivo effetto. Converrà attendere il domani, e quando tu li avrai prevenuti del mio arrivo, allora…

– Come vi aggrada, signore.

– Frattanto spegni il lume, e buona notte per ora. Il giorno seguente, verso il mezzogiorno, Aurelio Lanfranchi, Mariuccia e Carlotta erano adunati in una magnifica sala a pian terreno, e ragionavano lietamente vicino al caminetto, quando il portinaio comparve dinanzi ad essi, e, fatto un rispettoso inchino, aperse quattro volte la bocca senza proferire parola.

– Che c'è di nuovo, Bernardo?

– Oh!

– Stamattina m'hai l'aria d'uno spiritato: si direbbe che in sogno ti è apparso il diavolo.

– Non il diavolo precisamente, ma qualche cosa di simile… cioè… voleva dire… una persona dell'altro mondo…

– Spiegati! via! tu ci fai rizzare i capelli.

– Prima di tutto… conviene ch'io vi faccia una interrogazione… tali sono gli ordini ch'io ho ricevuti…

– Da chi?

– Da lui stesso… dalla persona che viene dall'altro mondo.

– Costui per certo è impazzato.

– No, signor padrone, io non sono impazzato; l'ho veduto, gli ho parlato, abbiam passata la notte insieme ed ora è là fuori nell'anticamera…

– Chi dunque? vuoi tu spiegarti una volta?

– Chi? vostro fratello Enrico.

– Decisamente quest'uomo ha perduto il cervello. Carlotta è presa da terrore; Mariuccia volge al portinaio uno sguardo inquieto, mentre Aurelio, assumendo un tono scherzevole, prosegue di tal guisa:

– Il mio povero fratello (che Iddio gli conceda eterna requie) avea troppo buon senso quando era al mondo, per permettersi, ora che è morto, una burla da sì cattivo genere. Sai tu, Mariuccia, che se ai morti venisse il capriccio di risorgere, la sarebbe pei vivi e massime pei parenti una vera desolazione! Supponiamo che il sogno di Bernardo si avverasse; che il nostro Enrico ricomparisse un bel giorno in mezzo a noi; credi tu che la nostra reciproca posizione non sarebbe oltremodo imbarazzante? Converrebbe in primo luogo cedergli una parte dei nostri beni; tu, Mariuccia, dovresti rinunziare a metà della tua dote, e quindi alle speranze d'un felice matrimonio!..

– Basta, fratello, non ragioniamo di cose impossibili…

– Eppure il nostro Bernardo ci assicurava poco dianzi…

– E ancora vi torno a ripetere…

– Che nostro fratello Enrico…

– È la fuori, e domanda il favore d'essere ammesso alla vostra presenza.

L'accento calmo e sicuro del buon vecchio; la voce, il volto, il gesto, da cui traspare l'intima convinzione dell'animo, raddoppia il terrore delle due donne, che, stringendosi l'una presso all'altra, non osano trarre un sospiro, nonchè proferire una parola. Aurelio comincia a crollare il capo in segno d'impazienza; poi, volgendosi al servo con piglio severo:

– Basta per oggi, gli dice: se altro non hai ad annunziarci, vattene per le faccende tue.

– E qual risposta debbo io recargli?

– A chi dunque? risponde Aurelio stizzito.

– A lui… all'altro mio padrone… al signor Enrico insomma…

– Al diavolo entrambi! ch'io sono oggimai ristucco di queste tue baje! prorompe Aurelio balzando in piedi.

Il servo s'inchina, ed esce dalla sala per pochi minuti; quindi, rientrando poco dopo, pallido in volto, i capelli irti in sulla fronte, s'inchina di bel nuovo innanzi ad Aurelio, e gli porge una lettera.

Perchè mai la mano di Aurelio trema convulsa nell'aprire quel foglio?

Sulla soprascritta egli ha riconosciuti i caratteri di suo fratello; le cifre sono recenti ed umide tuttavia; non più dubbio… la mano del morto… ha vergate quelle cifre.

«Dilettissimi!

«Ieri sera ho lasciato il Campo santo colla dolce speranza di rivivere per qualche tempo in mezzo a voi. Le lacrime che voi spargeste intorno al capezzale del mio letto, quando io vi dava l'ultimo addio, e quelle che versaste dappoi sulla mia tomba, m'erano pegno del vostro affetto e guarentigia d'amorevole e festosa accoglienza. Mi sono ingannato. Non temete però ch'io vi muova alcun rimprovero: il torto è mio e son pronto ad espiarlo. Veggendo la vostra esitazione e il vostro imbarazzo, per non accrescerli davantaggio colla mia presenza, io riprenderò fra poco la via del cimitero, e mi adagierò nuovamente nella cassa col fermo proposito di non uscirne più mai. Questa seconda morte mi accora assai meno della prima, essendo io convinto oggimai di questa grande verità: che cioè i parenti morti giovano assai meglio dei vivi.

Il violino a corde umane

Correva l'anno 1831.

Paganini, il diabolico Paganini, si era prodotto al teatro dell'Opera in sei concerti, suscitando entusiasmi anche maggiori di quelli lo aveano accompagnato nelle sue trionfali escursioni in Italia e in Germania. – In presenza dell'artista fenomenale, alcuni professori d'orchestra del grande teatro aveano spezzato i loro strumenti.

Alla medesima epoca, era in Parigi un altro violinista dotato di una abilità straordinaria, ma tuttora ignorato nel gran mondo dell'arte. Si chiamava Franz Sthoeny; – era nato a Stocarda, e in quella città avea trascorso la gioventù nella pace della famiglia, alternando alle severe meditazioni della filosofia, gli esercizi dell'istrumento a quattro corde.

All'età di trentacinque anni, Franz era rimasto orfano e solo. Al morire della madre che lo avea adorato, che aveva esaurite per l'unico figlio tutte le economie di un patrimonio assai tenue, Franz si era accorto di esser povero.

La prospettiva dell'avvenire gli si era affacciata alla mente coi più lugubri colori.

Che fare? – Il suo vecchio maestro di musica Samuele Klauss si era incaricato di rispondere alla terribile domanda. E la risposta, muta di parole, era stata eloquente.

Klauss avea preso per mano il suo allievo diletto, e, condottolo nella piccola sala dove tante volte avevano diviso insieme i fantastici diletti della musica, gli aveva additato la piccola cassetta dove il violino stava rinchiuso come un essere vivente in una tomba obbliata.

Quel cenno apriva a Franz Sthoeny una nuova carriera. Vendute le mobilie e le suppellettili della casa, l'artista era partito per Parigi in compagnia del suo maestro ed amico.

Prima che Paganini avesse dato al teatro dell'Opera i suoi meravigliosi concerti, Franz si era fatta, per una serie di esperienze e di raffronti, una convinzione superba ed un proposito irremovibile. – La convinzione era questa: di ritenersi superiore a tutti i più rinomati violinisti ch'egli aveva uditi nella capitale della Francia – il proposito era di spezzare il proprio istrumento, e con esso la sua esistenza, qualora non fosse riuscito a tenere il primo posto fra i suonatori dell'epoca. Il vecchio Klauss si compiaceva di quel nobile orgoglio, e credeva, lusingandolo, di compiere in buona fede una sant'opera.

Ma prima di prodursi al cospetto del pubblico, Franz aveva aspettato con trepida impazienza che il tanto decantato italiano facesse le sue prove a Parigi. Il nome di Paganini era stato, per alcuni mesi, una spina rovente al cuore di Franz – un incubo, un fantasma minaccioso allo spirito del vecchio Samuele.

Sì l'uno che l'altro aveano più volte tremato per quel nome di artista – sì l'uno che l'altro avevano presagito sinistramente della sua venuta a Parigi.

Chi può descrivere le ansie, gli spasimi, gli atroci entusiasmi di quella nefasta serata? – Franz e Samuele, alle prime arcate di Paganini, avevano rabbrividito. Il maestro e l'allievo, compresi da un entusiasmo che era per entrambi angoscia tremenda, non osarono guardarsi in faccia, non che ricambiarsi un accento.

A mezzanotte, dopo il concerto, rientrarono muti e lugubri nel loro appartamento.

– Samuele! – disse Franz gettandosi sovra una seggiola con portamento disperato – va!.. noi altri non siamo buoni a nulla – hai capito? – a nulla!.. proprio a nulla!..

Le rughe del vecchio maestro divennero livide. – Dopo breve silenzio, Samuele riprese con voce cupa:

– Eppure tu hai torto, Franz – io ti ho insegnato quanto si può insegnare da un maestro, e tu hai tutto imparato ciò che l'uomo può imparare dall'uomo. Qual colpa ci ho io, se questi dannati italiani, per primeggiare nel regno dell'arte, hanno ricorso alle ispirazioni del diavolo ed agli obbrobri della magia?..

Franz fissò gli occhi nel vecchio maestro con espressione sinistra: – quello sguardo parea dire: «ebbene! a che mai tanti scrupoli?.. pur di elevarmi a tanta potenza nell'arte, ed io pure mi darei al diavolo, anima e corpo!»

Samuele indovinò quell'atroce pensiero, e riprese la parola con calma simulata:

– Tu conosci la storia miseranda del celebre Tartini. Egli morì in una notte di sabbato, strangolato dal suo demonio familiare che gli aveva insegnato la maniera di dare anima al violino, incorporando in esso lo spirito di una vergine. Paganini ha fatto di più. Paganini, per comunicare al proprio istromento i gemiti, i gridi desolati, le note più strazianti della voce umana, si è fatto assassino dell'uomo che più gli era affezionato sulla terra, e coi visceri della sua vittima ha composto le quattro corde del suo violino fatato. Eccoti il segreto di quel fascino, di quella potenza irresistibile di suoni, che tu, mio povero Franz, non potresti mai uguagliare, se prima…

E il vecchio troncò a mezzo la frase.

La sua voce era paralizzata da uno sgomento misterioso.

Franz, abbassando gli occhi, uscì dopo alcuni minuti in questa domanda:

– E tu credi, Samuele, che arriverei anch'io ad ottenere gli effetti inauditi, a suscitare gli entusiasmi di Paganini, qualora le corde del mio istromento fossero composte di fibra umana?

– Pur troppo! – esclamò il maestro con singolare espressione – ma per ottenere l'intento, non basta che le corde sieno composte di fibra umana; è necessario che questa fibra abbia fatto parte di un corpo simpatico. Tartini comunicò la vita al proprio violino, introducendo in esso l'anima di una vergine – ma quella vergine era morta di amore per lui; e il satanico artista, assistendola nelle ultime agonie, a mezzo di una cannuccia, avea fatto passare nello istromento lo spirito della moribonda. Quanto a Paganini, t'ho già detto che egli assassinò il migliore dei suoi amici, la persona che più gli era legata di benevolenza – e la assassinò per strappargli le viscere e per convertirle in altrettante corde da suono.

– Oh! la voce umana! – il miracolo della voce umana, proseguì Samuele dopo breve silenzio. – Credi tu dunque, mio povero Franz, che io non ti avrei insegnato a produrla, se questa si potesse ottenere coi mezzi dell'arte, di quell'arte nobile e santa che vuol vivere di sè stessa, che vuol risplendere della sua propria luce, che disdegna le bassezze e le ciurmerie, che ha in orrore i delitti?

Franz non ebbe forza di proferire un accento. Si levò in piedi con una pacatezza sinistra che rivelava la più profonda agitazione – prese in mano il violino – fissò nelle corde un'occhiata sprezzante e minacciosa – e poi, afferratele con impeto convulso, le strappò dallo istrumento.

Il vecchio Samuele mandò un grido. Le corde ridotte a gomitolo erano state lanciate nelle brage del caminetto, e quivi si contorcevano stridendo, come al contatto del fuoco un gruppo di serpenti assiderati.

Samuele tolse dalla tavola un candeliere, e si avviò alla sua camera da letto senza salutare l'allievo.

Passarono settimane – passarono mesi. Una cupa malinconia si era impossessata di Franz. Il violino, vedovo delle corde, pendeva dalla parete, polveroso e negletto. Samuele e Franz pranzavano insieme ogni giorno e ogni sera stavano assisi l'uno di fronte all'altro, nel medesimo salottino – ma l'uno non osava rivolgere all'altro la parola – si guardavano in silenzio come due muti. Dal momento che il violino non ebbe più corde, anche quei due esseri animati parvero smarrire l'uso della favella.

– È tempo che ciò finisca! – esclamò finalmente il vecchio Samuele. E quella sera, prima di ritirarsi nella camera da letto, si accostò all'amico per imprimergli un bacio sulla fronte. Franz si riscosse dal suo triste letargo, e ripetè meccanicamente le parole del maestro – «È tempo che ciò finisca!»

Si separarono – e ciascuno andò a coricarsi.

All'indomani, quando Franz aperse gli occhi alla luce del giorno, si meravigliò di non trovare vicino al suo letto il vecchio maestro che era solito levarsi prima di lui.

– Samuele! mio buono… mio ottimo Samuele! – gridò Franz balzando dalle coltri per slanciarsi nella camera del maestro.

Franz fu atterrito dalla propria voce, ma più ancora dal silenzio lugubre che a quella rispose.

Vi sono dei silenzi profondi che annunziano la morte.

Presso al letto dei cadaveri e nel vano delle tombe, il silenzio acquista una intensità misteriosa che colpisce l'anima di terrore.

La severa testa di Samuele giaceva irrigidita sul capezzale – i contorni salienti di quella testa erano una fronte calva sfolgorante di luce e una barba grigia accuminata che pareva erigersi al cielo.

Alla vista di quel cadavere Franz provò una scossa terribile – ma la natura dell'uomo e la natura dell'artista si risentirono in lui ad un medesimo tempo, e in quella lotta di sentimenti, il dolore rimase ben tosto paralizzato. Le passioni dell'artista prevalsero sui più teneri istinti dell'uomo, e li soffocarono.

Una lettera all'indirizzo di Franz giaceva sulla tavola da notte. – Il violinista l'aperse tremando:

«Mio caro Franz,

«Al momento in cui leggerai questo scritto, avrò compiuto il più grande e l'ultimo sacrifizio che io, tuo maestro e tuo unico amico, poteva fare per la tua gloria. – La persona, che al mondo ti amava sopra ogni altro, non è più che un corpo insensibile: del tuo vecchio maestro non rimane oggimai a te dinanzi che la materia organica impassibile. Io non ti suggerirò ciò che ti resta a fare.

»Non lasciarti atterrire da scrupoli vani o da stolte superstizioni. – Io ti immolo il mio cadavere perchè tu abbia ad usarne per la tua gloria – ti macchieresti della più nera ingratitudine rendendo vano il mio sacrificio. – Quando tu avrai ridonate le corde al tuo violino – quando queste corde si comporranno della mia fibra, e avranno la voce, il gemito, il pianto del mio fervido amore – allora, o Franz, non temere di nessuno, – allora prendi il tuo istrumento, mettiti sulle orme dell'uomo che ci ha fatto tanto male – presentati nel campo dov'egli superbamente ha potuto imperare fino a questo giorno – gettagli in volto il tuo guanto di sfida! Oh! sentirai come la nota di amore uscirà potente dal tuo violino, quando tu, accarezzando le corde, ti sovverrai che desse furono parte del tuo vecchio maestro, che ora ti bacia per l'ultima volta e ti benedice.

Samuele.»

Due lacrime sgorgarono dagli occhi di Franz, ma tosto parvero essiccarsi per effetto di una vampa latente. Le pupille del fantastico suonatore, fisse nel morto, lampeggiavano come quelle della strige.

La nostra penna rifugge dal descrivere ciò che accadde in quella stanza di morte, dacchè i medici ebbero praticata l'autopsia del cadavere. – A noi basti accennare che le ultime volontà dell'eroico Samuele vennero compiute, che Franz non esitò punto a procacciarsi le corde fatali onde egli sperava dar anima al suo violino.

Quelle corde, di là a quindici giorni, erano distese sullo stromento. Franz non osava guardarle. Una sera volle provarsi a suonare, ma l'arco gli tremava nella mano come lama di stocco nel pugno di un assassino esordiente.

– Non importa! esclamò Franz, rinserrando il violino nella cassetta – questi sciocchi terrori spariranno quando io mi troverò in presenza del mio potente rivale. La volontà del mio povero Samuele vuol essere compita… sarà un grande trionfo per me e per lui… se riescirò ad uguagliare… a superare Paganini!

Ma il celebre violinista non era più a Parigi. A quell'epoca Paganini dava al teatro di Gand una serie di concerti.

Una sera, mentre il diabolico artista sedeva a mensa circondato da una eletta compagnia di musicisti, Franz entrò nella sala dell'albergo, e muovendo all'indirizzo di Paganini, senza dir motto, gli consegnò un biglietto di visita.

Paganini lesse – lanciò sullo sconosciuto una di quelle occhiate fulminee cui l'occhio più temerario non può sostenere – ma vedendo che l'altro teneva fermo e pareva a sua volta sfidarlo colla impassibilità dello sguardo: Signore, gli disse con voce secca, i vostri desiderii saranno esauditi! – E Franz, salutando cortesemente i convitati, uscì dalla sala.

Due giorni dopo, nella città di Gand era esposto un avviso che annunziava l'ultimo concerto di Paganini. Nelle ultime linee del programma, stampato a lettere cubitali, spiccava una nota singolare che eccitava in sommo grado la pubblica curiosità, ed era oggetto di mille commenti!

In detta sera, diceva la nota, si produrrà per la prima volta l'egregio violinista alemanno signor Franz Sthoeny, il quale si è recato espressamente a Gand per gettare il guanto di sfida all'illustre Paganini, dichiarandosi pronto a competere con lui nella esecuzione dei pezzi più difficili. Avendo l'illustre Paganini accettata la sfida, il signor Franz Sthoeny dovrà eseguire, in confronto dell'insuperato violinista, la famosa fantasia-capriccio che si intitola le streghe.

L'effetto di quell'annunzio fu magnetico. Paganini, che in mezzo alle agitazioni ed ai trionfi, non perdeva mai d'occhio il punto luminoso della speculazione, credette bene, per quella occasione, di rincarire del doppio il prezzo dei biglietti. – È inutile dire ch'egli aveva calcolato perfettamente. Tutta la città di Gand, quella sera, parve riversarsi in teatro.

All'ora terribile del cimento, Franz si recò nella sala del ridotto, dove Paganini lo aveva preceduto.

– Bravo figliuolo! avete fatto bene ad anticipare la vostra venuta – disse Paganini – sarà bene che noi invertiamo l'ordine del programma. Mi preme di sbrigare questa faccenda, per non essere disturbato nella esecuzione degli altri miei pezzi. – Siete voi pronto?

– Io sono ai vostri ordini, rispose Franz pacatamente.

Paganini fece alzare il sipario e tosto si presentò al proscenio fra un uragano di applausi e di grida frenetiche.

Non mai l'artista italiano, nell'eseguire quella diabolica composizione che si intitola le Streghe, aveva rivelato una potenza così diabolica. Le corde del violino, sotto la pressione delle falangi scarnate, si contorcevano come viscere palpitanti – l'occhio satanico del violinista evocava l'inferno dalle cavità misteriose del suo istromento. – I suoni prendevano forma, e, intorno a quel mago dell'arte, parevano danzare oscenamente delle figure fantastiche. Nel vuoto del palco scenico una inesplicabile fantasmagoria formata dalle vibrazioni sonore rappresentava le orgie invereconde e gli osceni connubi del Sabba.

Quando Paganini potè finalmente ritirarsi dalla scena, ove ad ogni tratto lo richiamavano le strepitose acclamazioni del pubblico, nella sala del ridotto incontrò Franz che aveva finito di accordare il violino, e già muoveva per slanciarsi nell'arringo.

Paganini rimase stupito nel mirare l'impassibilità del suo competitore, e l'aria di sicurezza che gli brillava nel volto.

Franz si avanzò verso il proscenio, accolto da un silenzio glaciale. Soggiogati dal fascino di Paganini, gli spettatori guardavano il nuovo arrivato come si guarda un povero ebete, che affronta un assurdo cimento.

Nullameno, alle prime arcate di Franz, l'attenzione degli spettatori si fece vivissima.

Franz era un esecutore abilissimo, uno di quegli esecutori pei quali la difficoltà non esiste. Il vecchio Samuele non aveva mentito il giorno in cui gli aveva detto: io ti ho insegnato tutto ciò che si può insegnare, e tu hai imparato tutto quello che si può apprendere.

Ma ciò che Franz aveva sognato di ottenere per effetto delle corde simpatiche; il gemito della passione, il grido straziante dell'agonia, il ruggito della foresta e l'ululo dei dannati – ciò che il vecchio Samuele avrebbe voluto comunicare al suo allievo ed amico, immolandogli se stesso e dotando di corde umane lo strumento di lui – tutto questo edifizio di illusioni, di speranze, che nell'anima dell'artista alemanno si erano tramutate in fede sicura – tutto svanì in un istante..

Sotto il colpo di un terribile disinganno, Franz smarrì il coraggio e le forze… Invocò sommessamente il nome del defunto maestro – lo pregò… lo maledì nel segreto dell'anima sua – lo gridò traditore, scellerato. Poi, stanco della prova, disperato dell'esito, strappò dal violino le corde fatali, le gettò al suolo, e si fece a calpestarle con rabbia feroce.

– È pazzo! è pazzo! – fermatelo… soccorretelo! gridarono cento voci dalla platea.

Franz si allontanò dal proscenio, ed entrato precipitosamente nelle quinte, andò a prostrarsi ai piedi di Paganini.

– Perdono! mille volte perdono! – gridò Franz con accento disperato – io aveva creduto… io aveva sperato…

Paganini stese le braccia a quel povero sconfitto; lo sollevò da terra, e, abbracciandolo come un fratello, gli disse:

– Tu hai suonato divinamente… tu sei un grande artista… ciò che ti manca…

– Oh! so ben io ciò che mi manca – esclamò Franz singhiozzando; ma il vecchio Samuele mi ha tradito!..

E Franz narrò a Paganini l'istoria delle corde umane, esponendogli ingenuamente le illusioni a cui si era affidato.

– Povero Franz! – esclamò il violinista italiano con sarcastica pietà – tu hai dimenticato una circostanza per la quale le corde del tuo violino non potevano competere colle mie nella vivacità, nel calore, nell'impeto della passione… Non hai tu detto che il tuo vecchio maestro era tedesco?

– Senza dubbio – egli era tedesco come io lo sono…

– Ebbene: ecco appunto la circostanza sfavorevole – proseguì Paganini battendo sulla spalla del povero Franz. – Un'altra volta, quando vorrai comunicare al tuo violino l'anima, il fuoco, la passione, la vivacità che io possiedo, fa che le tue corde sieno composte di fibra italiana.