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Voglio morderti il...

Indice

Voglio morderti il...

Introduzione

Capitolo 1

Capitolo 2

Capitolo 3

Capitolo 4

Capitolo 5

Capitolo 6

Capitolo 7

Capitolo 8

Capitolo 9

Capitolo 10

Capitolo 11

Capitolo 12

Capitolo 13

Capitolo 14

Capitolo 15

Capitolo 16

Capitolo 17

Capitolo 18

Capitolo 19

Capitolo 20

Epilogo: Oliver

Ringraziamenti e Note dell’Autrice

Titolo Originale

Note

L’autore

Voglio morderti il...

Gemma Cates

Voglio morderti il...

Storia d’amore quasi umana di una vampira

Secondo volume

Titolo originale: I Wanna Bite Your…

Traduttore: Roberto Felletti

Introduzione

Voglio morderti il...

Qualsiasi cosa. Tutto. Perché mi fai impazzire e mi fai sentire speciale.

Non dovrei essere attratta da te, ma lo sono.

Sei un bambinone. Un ragazzo che non è mai diventato un adulto. Un musicista barista che non saprebbe cosa sono una buona assistenza sanitaria e un piano pensionistico neanche se ti mordessero quel tuo culo delizioso.

E custodisci dei segreti. Su chi sei, forse su che cosa sei.

Sei tutto quello che evito negli uomini. Non corrispondi a nessuno dei miei criteri per uscire con qualcuno.

Ma il sesso non è uscire con qualcuno... giusto?

Una vampira ossessionata dagli elenchi con l’amore per le regole (io) conosce uno schianto non-proprio-umano con troppi segreti (lui) e facciamo yoga nudi. Anche il sesso. Il sesso lo facciamo, decisamente. Ma è tutto quello che abbiamo. Non siamo compatibili sotto tutti gli aspetti adulti che una vera relazione richiede. O lo siamo?

Avvertenza dell'autrice: questo libro contiene bravate erotiche vampira/non-proprio-umano, abbastanza parole osé da far arrossire qualcuno (non me) e una vampira che desidera il suo vissero felici e contenti, ma che non necessariamente lo riconosce quand’esso la fissa negli occhi.

1

C’era un fastidioso bambinone alla mia festa.

Ad essere sinceri, ce n’erano alcuni. Anche Robert, normalmente un tipo un minimo decente al lavoro, stava manifestando il coglione che era in lui mentre si ubriacava con cocktail a tema Halloween e troppe birre.

E poi, chi è che va a una festa vestito da versione vampiresca di Jon Snow? Questo era strano.

Ma c’era un bambinone in particolare che non avevo invitato, non conoscevo e che pensavo di buttare fuori a calci.

Le mie feste sono esclusive? No. La gente porta amici, e quegli amici sono i benvenuti. Avevo da bere e da mangiare in abbondanza. Ce n’era abbastanza per tutti. Anche se qualcuno – probabilmente un gruppo di voraci selvaggi – aveva fatto man bassa dell'enorme vaschetta di queso che avevo preparato. Becca si sarebbe incazzata se si fosse fatta vedere.

Sospettavo l’extra-fastidioso bambinone irsuto.

Aveva quello sguardo. Era come un vagabondo affamato che migra da festa a festa, sostentandosi con stuzzichini e queso. Il tipo di ospite che beve tutta la tua birra, rutta i suoi grazie e semina peli umani nel tuo bagno.

Aveva una folta barba, scura con tracce di rosso, e una zazzera altrettanto folta di capelli castano scuro che gli dava un aspetto un po’ selvaggio ma comunque con stile. Potevo solo immaginare il tempo che aveva impiegato per sistemarsi quel casino di barba onde evitare che gli nascondesse la faccia.

Beh, non era un casino. Era ben curata.

Ma gli orli sfilacciati dei suoi pantaloncini cargo, le infradito (a ottobre, a una festa) e la logora maglietta a righe la dicevano lunga. Quando mi era capitato di stare accanto a lui, prima, in fila al bar, avevo chiesto, “Tu chi saresti? Un barbone da spiaggia?”

Il sorrisetto del bambinone era cresciuto lentamente per poi diventare un gran sorriso cala-mutande. “Sono semplicemente me stesso.”

Poi ero abbastanza sicura che stava per presentarsi quando ero stata informata della scarsità di queso. Andare a indagare – e stabilire che effettivamente eravamo senza queso, per quanto improbabile fosse – non mi era passato ancora per la mente. Fino a quel momento.

Lui mi stava infastidendo.

Lui mi stava guardando.

E non il solito sguardo da “wow, quella tipa ha le tette grosse”. Quello dura da due a tre secondi, fino a cinque se il tipo è un pervertito o ubriaco. Ma quello di Mr. Sono Semplicemente Me Stesso era più persistente - e lui fissava tutto di me.

Mi faceva rizzare i peli sulla nuca. Io ero la predatrice, che cazzo. Non venivo braccata; ero io quella che braccava. E questo tizio non aveva recepito il messaggio.

Non stava socializzando.

E apparentemente non era venuto insieme a qualcuno.

Quello era strano. Perché era venuto se non socializzava o non era con qualcuno? Cosa aveva in mente? Come faceva a sapere che io organizzo fantastiche feste in cui ci si può imbucare, se effettivamente non conosceva nessuno?

Inoltre, poteva anche smettere seduta stante quella stronzata di fissare. Mi ero avvicinata a lui, cercando per prima cosa tracce di sale delle patatine o gocce di queso. Era lui il colpevole del queso; ne ero sicura. Non avendo trovato nulla – la sua logora maglietta era assottigliata dai troppi lavaggi, ma era pulita - lo avevo guardato negli occhi fingendo un sorriso. “Conosci qualcuno, qui?”

Lui aveva inarcato le sopracciglia, come se fosse sorpreso di essere stato sgamato per la sua apparente mancanza di invito. Tendendo una mano, aveva detto “Conosco te, se questa volta mi permetti di presentarmi. Oliver Watson.”

Si dava il caso che fossi una fan di Sherlock Holmes, e io ero rimasta offesa dal nome di quel tizio. Quella bestia di bambinone, con i suoi bicipiti sporgenti, le gambe robuste e le spalle larghe, non era un personaggio di contorno. Era l’attrazione principale.

Aspettate, torniamo indietro. Era sciatto e sembrava un barbone, e non corrispondeva affatto agli standard del fidato assistente di Holmes.

E, dannazione, la sua mano. L’appendice che mi aveva proteso, come se io fossi felice di prenderla, parlava da sé. Avrei dovuto capirlo guardando quel tizio con una sola occhiata. Aveva dita lunghe e forti, con calli ai polpastrelli. La mano di un chitarrista. Era mancino, altrimenti mi sarebbe sfuggito.

Ero indecisa se accettare il gesto, ma poi avevo perso l'occasione quando l'aveva ritirata. Aveva sorriso, come se la mia sgarbata esitazione lo avesse divertito.

“La tua barista è discreta.” Aveva inclinato la testa in quel modo impudente, egocentrico, tipico degli uomini che pensano di governare il mondo.

“Io sono più bravo, ma lei non è male.”

“Quindi, sei un barista?” Quando non era un musicista colpito da povertà. Figurati. Aveva l’aria di uno che scopava molto. Musicista più barista equivaleva a una fottuta vagonata di sesso.

Una piccola parte del mio cervello saltellava su e giù, sottolineando il fatto che lui avesse un impiego, uno dei requisiti del mio elenco. E nel mio elenco degli scopabili, avere un impiego poteva essere assai ampiamente interpretato come qualsiasi lavoro che contribuisse a pagare le bollette.

Un impiego… con orari infernali, circondato da donne arrapate che ci provavano costantemente, e probabilmente lui non metteva da parte niente per quando sarebbe andato in pensione. Questa osservazione l’aveva fatta l’altra parte del mio cervello, quella scettica.

“Preparo un buon margarita, e un ancor più buono Bloody Mary.” Aveva stretto gli occhi e il suo sguardo mi trafiggeva.

Avevo la spiacevole sensazione che stesse insinuando… qualcosa con quel commento sul Bloody Mary. Ma non che fossi una vampira. Era assai improbabile che quel trasandato, testosteronico barista suonatore di chitarra sapesse qualcosa sui vampiri. Stavo cominciando a sentirmi sbronza, quindi probabilmente era soltanto l’alcol che mi rendeva paranoica. Non che l’alcol, di solito, facesse quell’effetto, ma d’altronde, di solito, non tracannavo nemmeno bicchierini di Fireball.

“Dovrai lasciarmi il tuo biglietto da visita. Giusto in caso abbia bisogno di qualcuno per la mia prossima festa.” Lo stavo prendendo in giro. Era improbabile che quel tizio avesse un biglietto da visita.

Invece aveva tirato fuori il portafoglio e me ne aveva dato uno. Oliver Watson, un numero di telefono e un indirizzo email. Nient’altro.

Chi è che va ancora in giro con i biglietti da visita? Specialmente i biglietti da visita che non sono da visita. Che cavolo di biglietto era quello?

Forse li tirava fuori quando si proponeva per qualche serata… sebbene quello non fosse tipico dell’appartenenza a una band di ragazzi cattivi.

“Suoni la chitarra?”

Aveva guardato il suo biglietto, poi me, chiaramente confuso su come avessi fatto a giungere a quella conclusione.

“La tua mano. I calli sono caratteristici.”

Aveva annuito e si era rilassato. “Righteous and Feral.” Poiché non mi ero messa a saltare su e giù immediatamente come una fangirl, aveva spiegato, “È una band locale.”

Ma non mi dire. Ma non avevo alzato gli occhi al cielo.

“I Giusti e gli Spietati?” Sì, sembrava un vagabondo con la barba, e poi c’erano quei capelli selvaggi, seppure con stile. Ma spietato? Per favore.

Aveva annuito, con un barlume di divertimento negli occhi.

Pensava che la mia incredulità fosse divertente? Vabbè. Poteva pensare di essere giusto e spietato finché voleva. Quello non lo rendeva vero, a parte il suo precedente sguardo fisso da predatore.

“Siete una cover band?” avevo domandato, cercando di non sembrare una stronza altezzosa. Mi piaceva una buona cover band tanto quanto la persona accanto. Ma molti musicisti aspiravano a suonare la loro musica… e fallivano.

“Un po’ di questo e un po’ di quello.” Aveva fatto spallucce. “Puoi chiamarmi a quel numero se ti serve qualcuno al bar. Mi piace preparare un buon cocktail speciale.”

Perché quella proposta sembrava così indecente? Come se lui avesse sottolineato “cock”1 facendolo seguire da “tail”.

Ce la stavo mettendo tutta per sbronzarmi.

E che razza di musicista era questo tizio? Non andava avanti a parlare della sua musica, delle sue influenze, dell’erba che raccoglieva strada facendo suonando nei dive bar2 del Texas centrale. C’era qualcosa di ambiguo in questo tizio. Conoscevo dei musicisti, e lui era fuori schema.

Una cosa che avevo imparato dopo diciassette anni vissuti insieme a un chitarrista stronzo come sua c’era-una-volta una groupie era che i musicisti sono presi fino al punto di essere narcisisti e vogliono parlare sempre di musica. La loro, quella che amano, quella che amano odiare, qualsiasi cosa purché riguardi la musica. Mio padre, i suoi ex compagni della band e i loro amici rocker non perdevano mai l’occasione di parlare a profusione del loro argomento preferito.

Ma non Watson.

Mi ero infilata il biglietto nel bustino lanciandogli un’occhiata sospettosa.

Lui aveva seguito la mia mano mentre sistemavo il biglietto vicino al seno; avevo lasciato che il suo sguardo indugiasse sulla mia scollatura.

Grazie, bustino da Wonder Woman. Le mie ragazze avevano un aspetto particolarmente favoloso quella sera.

Per questo Halloween avevo deciso di mettere in mostra le mie curve. Non che non ci fossero altre ragioni per scegliere il costume. Wonder Woman era la più cattiva dei cazzuti. Primo, il Lazo della Verità – non è necessaria alcuna spiegazione ulteriore. Ma nel caso in cui non fosse stato sufficiente, avevo anche un paio di fantastici stivali da dominatrice da indossare come parte del costume.

Sono bassa per fare l’amazzone – cavolo, sono semplicemente bassa – ma quello non significava che non avessi un look da sballo.

Watson sembrava essere d’accordo.

A parte il bustino, avevo trovato dei fortissimi pantaloncini da uomo a stelle e strisce che abbracciavano le mie curve. Tra le spalle scoperte e le cosce nude, esibivo un bel po’ di pelle. Avevo persino eliminato la mantellina perché la serata era rimasta abbastanza calda. O forse quello era successo dopo il quinto o sesto bicchierino. È difficile dirlo.

Pelle nuda o no, quello non significava che lui avesse un lasciapassare gratuito per continuare con quella stronzata del fissarmi.

“Hey.”

Il suo sguardo errabondo era tornato sulla mia faccia.

Quando, alla fine, il contatto visivo era stato ripristinato, io avevo riportato la conversazione sulla rotta originale. “Non mi hai ancora detto con chi sei venuto.”

“Non mi ero reso conto che fosse una festa a invito.”

“Ti mostri, non socializzi, non provi a rimorchiare nessuno. Te ne stai lì a guardare e basta. È inquietante, e non nel senso di Halloween. Perché sei qui?”

“Chi ha detto che non provo a rimorchiare nessuno?” Aveva fatto una smorfia. “Ma veramente la gente dice così? Rimorchiare qualcuno. Sembra qualcosa uscito da un brutto film degli anni ‘70.”

Chi voleva prendere in giro questo tizio? Mr. Artista del Rimorchio in persona. Forse, questa stronzata del “Aw, ma dai!” di solito funzionava per lui, ma non funzionava per me.

“Certo che la gente lo dice.”

“Ma lo fa?” Mi aveva sorriso, i denti brillanti in mezzo a tutta quella barba.

“Sei uno stronzo fastidioso.”

“Dipenderà da te. Molte persone mi trovano affascinante.”

Proprio mentre stavo prendendo in considerazione l’idea di andarmene, lasciando il suo villoso corpo sexy a osservare e fissare le persone, lui aveva detto, “Millie.”

“Cosa?”

“Millie. Hai chiesto con chi sono venuto. Tecnicamente, esco con lei.”

Primo, la mia vicina Millie ha più di 70 anni, è esuberante, spiritosa, forte da morire, è un’assoluta arrapata e non il tipo di donna che mi aspetterei per Watson.

Secondo, Millie non si vedeva da nessuna parte.

“Peccato che non sei qui con Millie.”

Si era guardato intorno, come se fosse sorpreso di ritrovarsi senza la sua donna. “Oh, giusto. Lei mi ha dato buca.” Poi aveva fatto spallucce, come per dire che sono cose che capitano. A lui? Improbabile.

Avrei scommesso sul fatto che nessuno avrebbe mai dato buca a Oliver Watson in tutta la sua vita. La sua specie non doveva affrontare quel genere di offesa. Poteva ficcare la sua nonchalance giù per la gola di qualcun’altra. Una che non fosse stata lasciata in un bar tre giorni prima a bere due Mexican Martini da sola, mentre aspettava che un grande stronzo si presentasse all’appuntamento.

Era stata una fregatura, e me ne ero pentita non appena avevo accettato. Ma mia madre – sì, quell’imprevedibile e attraente donna che mio padre aveva sposato e che mi aveva dato alla luce per poi dimenticarsi prontamente della mia esistenza – si era ricordata per due secondi di avere una figlia e aveva organizzato un appuntamento con… il cugino del suo commercialista? Il fratello del suo avvocato? Il figlio del suo consulente finanziario personale?

Non ricordo i dettagli, soltanto la parte in cui mi è stata data buca. Non avrei nemmeno accettato se non avessi provato una certa ansia per il mio incombente compleanno e per il non avere qualcuno per questa festa. La stessa festa invasa da un cazzone irsuto che aveva mangiato tutto il queso.

Avrei dovuto ridere – per il cazzone irsuto – ma ero troppo infervorata.

Dirigevo la frustrazione che covavo e che provavo nei confronti degli uomini in generale verso quel bambinone presuntuoso, barbuto e sotto-occupato, in piedi davanti a me in quel momento.

“Ti diverti a dare buca alle donne?” avevo domandato, incrociando le braccia.

“No. È incredibilmente sgarbato.” Sembrava confuso.

E doveva esserlo, poiché gli stavo attribuendo una qualche brutta intenzione che probabilmente non meritava. Non questa volta. Ma Oliver Watson aveva tutte le caratteristiche di quel genere di uomo.

Quello che non si fa vedere al bar per un drink, nemmeno dopo avere mandato un messaggio per confermare che non sei tu a scaricare lui.

Quello che si presenta a cena con una maglietta logora e i jeans sfilacciati, mentre tu ti sei presa la briga di andare dalla parrucchiera.

Quello che ti chiede i risultati delle analisi al primo appuntamento, perché dà per scontato che non solo farai sesso con lui dopo aver mangiato insieme una volta soltanto, ma anche che tu prendi la pillola e che non dovrà usare il preservativo se tira fuori un pezzo di carta che attesta che non ha nessuna malattia venerea.

Gli uomini sono tutti dei fottuti pezzi di merda.

“Hai ragione. È sgarbato.” Gli avevo lanciato un’occhiataccia. “Ricordalo.”

“Certo, lo farò, ma tu ricordi che sono io quello a cui è stata data buca questa sera, vero?”

“Come vuoi. Sembri il tipo d’uomo che dà buca alle donne.” Il mio tono era troppo sprezzante, il risultato di sette bicchierini di Fireball e più di dieci anni di delusioni amorose.

Apparentemente avevo permesso a quel cugino del commercialista, o fratello dell’avvocato, che mi aveva dato buca di irritarmi. La goccia che fa traboccare il vaso. Inoltre, non avrei dovuto scegliere dolci cocktail speciali, perché avevo bevuto un Poison Apple Martini e deciso che per quella sera avrei preso il resto del mio Fireball in un bicchierino.

La mia tolleranza all’alcol era migliore della media – salve, c’è una vampira qui – ma del resto non avevo avuto la possibilità di consumare il mio normale pasto, ricco di carboidrati e grassi, per compensare l’alcol… perché qualcuno aveva mangiato tutto il queso.

Gli avevo lanciato un’occhiataccia, incerta del perché quell’uomo, quella sera, fosse il destinatario di tutta la mia rabbia; ma guardarlo mi faceva solo incazzare di più, perché lui se ne stava lì, in piedi, tutto muscoli e barba e completamente divertito da me.

E quello aveva premuto i miei pulsanti.

Il che era l’unico motivo che mi veniva in mente (a parte i sette bicchierini di Fireball) per la mia ulteriore discesa nella terra delle accuse infondate.

“Hai mangiato tutto il queso.”

L’espressione divertita che gli si leggeva in faccia si era trasformata in un sonoro scoppio di risa, come se lo avessi sorpreso con le mani nel sacco. “Sei fatta? C’era un’intera pentola di quella roba. Nemmeno un esercito sarebbe riuscito a mangiare tutto quel queso.”

“Fatta? No.” Forse era giunto il momento di confessare il mio potenziale stato alterato. “Ma ho bevuto sette bicchierini di Fireball a stomaco vuoto, perché…”

“Qualcuno ha mangiato tutto il queso.” Aveva alzato le mani nel classico gesto che indica innocenza. “Non sono io il colpevole, ma sai una cosa? Penso di poter risolvere il tuo problema col queso.”

Aveva tirato fuori dalla tasca dei suoi pantaloncini logori un telefono super figo da un fantastilione di dollari e aveva mandato un messaggio. Perché i ragazzi squattrinati spendono sempre tutti i loro soldi in prodotti tecnologici? È una decisione talmente strana che non capirò mai.

Cavolo, avevo davanti a me un esempio perfetto di Tipo Squattrinato Che Spende Soldi in Tecnologia alla Moda. Dovevo decisamente chiedere.

“Risolvi questo mistero per me.” Avevo sorriso in ritardo, rendendomi conto che, forse, il mio tono aggressivo non era l’opzione migliore se volevo una risposta.

Con le labbra ancora contratte da un divertimento che non avrebbe dovuto provare – si sarebbe dovuto vergognare per le mie parole di verità – aveva detto, “Certo. Sarà bello.”

“Perché i tipi come te, barista part time e musicista part time, spendono sempre fino all’ultimo centesimo per dei gadget costosi che non possono permettersi?”

Le sue labbra si erano assottigliate, rivelando una tensione che non avevo ancora visto sulla sua faccia. Forse, finalmente, avevo premuto i suoi pulsanti, ma lui aveva inspirato a fondo e si era visibilmente rilassato. Una frazione di secondo dopo quell’ormai familiare inclinazione delle sue labbra era tornata.

“Domanda interessante. Forse ci dà l’impressione che possiamo ottenere qualcosa. Tipo vestirsi bene, ma in stile tech.” Aveva fatto una pausa e inarcato le sopracciglia. “O forse i nostri gadget costosi non sono stati comprati con l’ultimo centesimo ma sono stati un regalo.”

“Oh.” Quello non era per niente utile. Gli avevo dato delle pacche sul petto. Wow, quello sì che era un petto saldo. “Tante grazie, ma non penso che tu abbia risolto il mistero del mio uomo.”

Aveva emesso un suono di scontento. “È questo il punto, un solo uomo non rappresenta tutta l’umanità.”

Mi ero fermata a riflettere su quello. Fermata letteralmente… accarezzandogli il petto. Perché, apparentemente, lo stavo palpeggiando a livello subconscio da quando gli avevo messo le zampe addosso. Una pacca ed ero stata risucchiata dai suoi muscoli e dal suo silvestre odore di pino.

Annusando a fondo, cercavo di analizzare i vari profumi, ma senza fortuna. Tutto quello che percepivo erano pino e bosco, deliziosi.

“Cosa stavi dicendo?” Avevo spostato lo sguardo dal suo petto, che avevo ripreso ad accarezzare, alla faccia.

Gah. Perché lui mi faceva sentire così bene e aveva un così buon odore? Non era per niente il mio tipo. Non mi interessavano i bambinoni, nemmeno per una botta e via, cosa per cui gli umani andavano bene, perché non era come…

Oops. Avevo perso la concentrazione mentre il suo odore mi faceva sballare e mi eccitava.

“Um, penso di essermi persa qualsiasi cosa tu abbia detto.” Stavolta avrei dovuto cercare di concentrarmi sulle sue parole.

“Adesso mi stai oggettivando?”

Dall’espressione del suo viso non potevo dire se fosse compiaciuto o infastidito dal pensiero, per cui avevo scelto la via della sincerità. Separando il pollice e l’indice di circa due centimetri, avevo alzato la mano e avevo detto, “Un pochino. Tu sei sexy e hai un odore ridicolo.”

Inarcando le sopracciglia aveva risposto, “Non sono sicuro di cosa intendi dire. Tu sai di cannella.”

Perché stavo trangugiando Fireball come un ragazzo di una confraternita, ma vabbè.

Quello che era successo dopo era inatteso. Ero nel mezzo di una festa. Erano presenti alcuni dei miei colleghi di lavoro. Certo, organizzavo regolarmente feste alcoliche, ma avevo degli standard per il mio comportamento.

Standard che non comprendevano maltrattare un ospite, anche se era un imbucato.

Non sono del tutto sicura del perché avessi deciso per quella festa, quella sera, quel tipo… ma lo avevo fatto.

Avevo fatto scivolare la mano – quella che aveva ripreso a sfregare i duri piani del suo petto – sulla clavicola e lungo la nuca, abbassando la sua testa verso la mia.

Cercando di abbassare la sua testa verso la mia.

Essendo a malapena sette centimetri sopra il metro e mezzo, avevo difficoltà a baciare Mr. Sexy e Villoso e Buon Profumo senza il suo aiuto. Doveva essere alto più di 1,80.

Come poteva avere un odore così buono e non baciarmi all’istante? Non andava bene così. Avevo alzato lo sguardo per vedere che cavolo di problema avesse e aveva ancora quella medesima espressione divertita. Che mi aveva fatto lanciare un’occhiataccia.

Un’occhiata alla mia espressione da stronza dagli occhi di ghiaccio e lui…

Si era messo a ridere.

Ridacchiare, per l’esattezza. Sembrava che il mio atteggiamento da stronza cattiva non lo spaventasse, e quello mi eccitava fottutamente.

Se non mi avesse baciato seduta stante, mi sarei arrampicata su di lui come se fosse stato un fottuto albero e l’avrei fatto succedere.

Questa volta, quando avevo cercato di abbassargli la testa, lui mi aveva lasciato fare. L’odore di bosco e di uomo pulito aveva riempito il mio naso prima che le nostre labbra si incontrassero.

Questo coglione stava sorridendo?

Sì. Sì, stava sorridendo.

E in quel momento era cominciato lo strapazzo.

Avevo infilato entrambe le mani tra i suoi capelli folti, scuri, non-proprio-selvaggi, avevo premuto le mie tette contro di lui, avevo inclinato la testa e mi ero concentrata sul farlo volere.

Quello che era cominciato come una delicata esplorazione era diventato un attacco violento con pressione e respiro affannoso e un desiderio di mordicchiare, morsicare, lasciare segni che non avevo mai provato prima.

Avevo intrappolato il suo labbro superiore tra i miei denti e lo avevo succhiato. Il suo ringhio mi aveva colpito basso, nell’addome, e proprio mentre stavo pensando a come fare per avvicinarmi, lui mi aveva preso per le natiche e mi aveva sollevata.

Dea. Volevo sentire ogni centimetro di lui premuto contro di me. Volevo strofinarmi contro di lui. Volevo… volevo e basta.

Aveva risposto alla mia aggressione frontale, la sua bocca dura ed esigente, e mi piaceva.

Le nostre lingue si erano attorcigliate in una guerra di calore e passione per non so quanto tempo.

A un certo punto mi era venuto il pensiero fugace che, praticamente, eravamo nel bel mezzo della mia festa.

Ma… chi se ne frega?

Lui era sexy, il suo bacio rovente, e io volevo imprimere il suo corpo muscoloso, il suo sapore, la sensazione delle sue labbra nel profondo della mia anima.

Poi aveva ammorbidito il nostro bacio.

La qual cosa era avvenuta quando il mio cervello aveva ripreso a funzionare.

La qual cosa era avvenuta quando mi ero resa conto di essere avvinghiata a lui come una spogliarellista squattrinata nel mezzo di una lap dance privata.

Poiché non lavoravo per le mance ed ero nel mio soggiorno, circondata da amici e colleghi di lavoro, probabilmente sarebbe stata una buona idea scendere da quell’albero villoso e sexy sul quale mi ero arrampicata.

Ero scivolata giù dal suo corpo, desiderando che lui non si sentisse il mio personale regalo di compleanno. Non poteva essere un regalo per me? Per piacerissimo?

Magari.

Non nel mezzo della mia festa di Halloween.

Ma magari.

“Sei ubriaca.” Mi aveva sussurrato le parole all’orecchio, ma comunque erano cadute con una spiacevole fermezza.

“No. Non lo sono.” Sfortunatamente, in quel momento il mio corpo aveva scelto di tradirmi e mi era venuto il singhiozzo.

“Uh-huh.” Mi aveva girato i capelli dietro l’orecchio, passato il pollice sulle labbra e in generale mi aveva fatto rimpiangere – duramente – quegli ultimi bicchierini. Perché altrimenti, forse, avrei preso altro di lui. Altro suo calore, altro suo odore e altro della sua bocca. Proprio lì e in quel momento, alla mia festa di Halloween.

Poi era sparito.

Il patetico bastardo se n’era andato.

Gli uomini fanno schifo.

Certo, aveva salutato.

E mi aveva ricordato che avevo il suo numero.

Aveva anche detto che sarebbe stato interessato a sentirmi. E quando aveva detto “interessato”, avevo pensato che intendesse… forse, entusiasta?

Ma che cazzo, poi. Mi aveva lasciato eccitata e insoddisfatta, il coglione. Anche se ero circondata da amici e colleghi a una festa che io ospitavo, comunque lui aveva lasciato me.

Prima che potessi decidere se ero arrabbiata, triste, o forse anche solo minimamente grata, un tizio che reggeva un’enorme borsa di carta aveva gridato, “Megan! Sto cercando una certa Megan.”

Alcuni ospiti avevano indicato nella mia direzione.

“Sei tu Megan?”

“Sì.” Sembrava proprio che la mia festa avesse ufficialmente una porta aperta. Lasciavamo entrare chiunque, anche chi portava borse di carta.

Aspetta un attimo.

Un tizio che portava una borsa di carta? Perché c’era un fattorino della consegna a domicilio alla mia festa?

“Consegna per te. Qualcuno ha ordinato questo e ha detto che dovevo assicurarmi che venisse consegnato direttamente a Megan.” Mi aveva guardato come se avessi dovuto saperne qualcosa. Come se l’avessi pianificato. Come… oh, voleva la mancia.

“Seguimi.” Avevo degli spiccioli in cucina. Gli avevo dato una banconota da venti dollari per un ordine che non avevo fatto, lui mi aveva ringraziato e aveva posato la borsa.

Dopo averla spacchettata, avevo trovato alcune vaschette grandi di queso. Ma certo. Se non fossi stata mezza sbronza, lo avrei capito prima.

Avevo trovato anche una ricevuta che mostrava l’addebito per il queso, le spese di consegna e una lauta mancia per il fattorino, tutto prepagato.

Mi sentivo un’idiota totale e non solo per la mancia da venti dollari.

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