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Czytaj książkę: «I Mille», strona 13

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CAPITOLO XLIV
LA CAMORRA

Robbers all!

Gl’inglesi sono una gente graziosa: fra tante loro scoperte, troviamo anche il Robbers all!– Mi capitò in questi giorni un libro inviatomi da un amico d’Inghilterra, con tale titolo: Robbers all!– che tradotto nella bella lingua del sì, suona: Tutti ladri!

E se devo confessare ciò che vado imparando ogni giorno di più, credo che l’epigrafe del presente capitolo vada a capello al periodo che noi percorriamo. Dagl’imperatori ai soldati di finanza e dal papa al sagristano non sono essi tanti ladri?

Per governar bene, essi non abbisognano di tanti milioni, quei primi signori per la grazia di Dio: il loro superfluo è non solamente un furto ma un mezzo di corruzione.

I secondi signori, cioè dal marciapiede del trono in giù, e che servon di cariatidi allo stesso, non sono forse per la maggior parte birbanti che ingrassano alle spalle dei minchioni?

Nelle classi alte, mi limiterò a queste due principalissime di ladri, e toccherò soltanto una delle loro succursali.

I finanzieri, per esempio, vulgo preposti. – Io abito in un paese ove la dogana è una potenza. – Tale potenza! che una missiva della gente più raccomandabile ed onesta della Maddalena – mi diceva ieri: Le elezioni nell’isola nostra vanno sempre a piacimento dell’ispettore di dogana. Egli marcia all’urna co’ suoi preposti serrati, e cotesta falange sostenuta da quella del vicario-prete fanno sempre rimaner nel nulla quella parte buona della popolazione che potrebbe eleggere un buon sindaco ed un buon deputato.

Vi è un banchetto alla spiaggia del mare, adornato dalle bellezze del demi-monde? – Sono i preposti!

Una sposa alquanto in ostilità col marito? – per motivo d’un preposto!

Una vezzosa giovinetta da marito che si sposerà fra diciassette anni coll’uomo con cui s’è già accoppiata? (perchè tale è il regolamento) – quell’uomo è un preposto!

Si chiede d’un giovinotto che avrebbe fatto un eccellente marinaro da guerra, come sono generalmente i marinari di queste isole? – si è fatto preposto!

M’arriva una cassetta di confetti, od altro, inviati da un amico, è aperta, e ne mancano molti – sono i preposti.

Farei un volume di queste prodezze de’ preposti, se non mi annoiassero, e se non temessi di annoiare chi ha la pazienza di leggermi.

Ne terminerò la serie con un’arnia modello, regalo d’un illustre professore. Credete voi, che per esplorare il gran contrabbando, contenuto nell’arnia, di cui tutte le parti erano connesse a vite, abbiano voluto, quei comodi signori, servirsi d’un giravite per non guastarla? – Oibò! con uno scalpello han fatto a pezzi il coperchio per farlo saltare, o forse con una mannaia.

In quindici anni ch’io sono in quest’isola, io non conosco un solo arresto di contrabbando importante fatto da questi finanzieri; anzi, corre voce che un po’ di contrabbando lo faccian essi stessi, e si dice di peggio ancora.

E quando si considera tanta povera gente, sottoposta a tasse d’ogni specie, per mantenere grassamente codeste camorre di fannulloni, è roba da dar i brividi.

I Borboni di Napoli, maestri anch’essi di ogni specie di camorra, ne proteggevano una, e la stimolavano al loro servizio con ogni specie di favori, concessioni e soldi. Camorra, veramente di genere particolare, che contava come membri i più grandi scellerati del regno.

L’origine di quest’associazione di malfattori, proveniva dalle prigioni. I più forti tra i prigionieri imponevano una tassa ai nuovi arrivati, e la imponevano colla minaccia di busse, e qualche volta anche di coltello.

Il nuovo arrivato, generalmente solo, e quindi più debole, non solo era obbligato di pagare la tassa imposta, dovea pur far parte di codesta bella e reale associazione.

Dalle prigioni l’associazione si estese nelle bettole, nei postriboli, nelle osterie, nell’esercito, nella grande metropoli, e finalmente in tutto il felice regno. Felice! poteva chiamarsi, giacchè con tutti i vizi di cui era incancrenito il suo governo, occupavasi almeno che non morissero di fame i sudditi50, occupazione che disturba poco la digestione di coteste cime che governano l’Italia. – Giù il cappello però, esse, le cime, hanno fatto l’Italia, ed avranno fra giorni una statua in Campidoglio, non so di che roba.

La camorra divenne una potenza, ed il Governo di Napoli, codardo come quello dei preti che patteggiava con briganti, patteggiò colla camorra, e dalla stessa estraeva le spie più astute e pratiche, ed i sicari più sicuri, quando per ragione di Stato, dovevasi por fine all’esistenza di un individuo.

Il consorzio, l’appoggio del governo, e la sua ingerenza sull’esercito, la fecero potente non solo, ma per la Dinastia borbonica la camorra diventò una vera e terribile guardia pretoriana. Composti però i camorristi della feccia inferiore del popolo, e per la maggioranza pasto da preti, essi abborrivano noi, rappresentati dal clero come eretici; ma più di noi, i piemontesi, cioè coloro che dipendevano direttamente dalla monarchia sabauda, tutta gente non popolo, come noi. E tale odio inveterato menomò forse il danno che la camorra avrebbe potuto fare all’esercito meridionale.

Dopo la ritirata di Francesco II il 6 settembre, e quella dell’esercito Borbonico da Napoli, la fiducia principale dei Sanfedisti, nella capitale, fondavasi sulla camorra, ed il maggiore Fior di Bacco su questa faceva assegnamento.

Nelle carceri di S. Elmo esistevano varii dei caporioni dell’ordine e fra loro il più formidabile era un calabrese nominato Tifone, che avea fatto parte della banda brigantesca di Talarico, nella quale avea servito come cappellano, circostanza non straordinaria, essendo i preti gli eccitatori ed i compagni dei camorristi e dei briganti.

Avendo lasciato Corvo, Fior di Bacco avea fatto una visita in cantina, ove per costume di questi venditori dell’anima alla pancia, facea d’uopo rifocillarsi con buoni bocconi e con un boccale di quello che pittura la guancia a musi più pallidi di quello del nostro maggiore, per affrontare imprese difficili. Ora, essendo la barca in zavorra, si poteva, come egli diceva, affrontare qualunque tempesta, e difilato, si recò negli appartamenti di Tifone.

Avranno osservato i miei lettori, non esser il mio forte le descrizioni, e quando avrò descritto il nauseante abituro d’un condannato, essi non ne saran contenti. È vero, che Tifone, freschissimo d’omicidio, era però uno dei paladini della camorra, e come tale dal 2º Comandante del forte S. Elmo, trattato coi guanti bianchi, ed alloggiato in sito abitabile.

«Tifone» cominciava il maggiore al camorrista fatto condurre in un gabinetto segreto del forte «hai già sofferto abbastanza di prigionia per una misera pugnalata somministrata a quello stupido di Gambardella51 che ci tradiva assumendo l’aria di liberale. Per me, sei libero! (e dopo alcuna pausa) e ti permetterò di andare in città quando vorrai, anzi io stesso t’invierò in missione importante».

«Gnor sì» rispondeva il masnadiero al comandante, fissandolo in viso, mentre questo da parte sua scrutinava pure la sinistra fisonomia del primo per scoprirne l’effetto delle sue parole.

«Gnor sì. – E V. S. sa quanto io son devoto alla causa sacrosanta del re e della chiesa: soltanto la prevengo di farmi restituire il ferro che mi tolsero quando mi condussero qui».

«Non solo ti farò restituire il ferro, replicò Fior di Bacco, ma ti darò molti mezzi onde poter adempire colla tua solita solerzia la delicata impresa che voglio affidarti. Ti raccomando soltanto, essendo fresco il tuo omicidio, di non comparire di giorno per le strade. – Mangiare, bere e dormire di giorno, per poter circolare poi tutta la notte.

«Devi dunque sapere, che il nostro esercito, forte di cinquantamila uomini, dopo d’aver debellato gli scomunicati a Caiazzo, padrone di Capua, e di tutta la sponda destra del Volturno, si dispone ad attaccare quei pochi miserabili che restano da questa parte.

«Il re in persona sai, comanda l’esercito nostro, e con lui vi sono tutti i principi, la casa reale, ed i più famigerati de’ nostri generali».

Tifone, che come prete, non era poi tanto stupido, rimase soddisfatto dei cinquantamila soldati, piuttosto di buona truppa, non così dei famigerati generali, dei principi, della casa reale, ecc., tutta gente più assuefatta all’espugnazione d’un paté trufé, che a quella dei nemici della monarchia.

«La vittoria è quindi sicura» continuò Fior di Bacco, «ma noi, capisci bene, non vogliamo starcene colle mani alla cintola, mentre pugnano per la salvezza della patria tanti nostri valorosi!».

Questo discorso di Fior di Bacco – eccitato dal cordiale con cui egli avea inaffiato la sua merenda con profusione – era pronunciato con tanta energia, come se fosse stato un bullo davvero. – E colla testa alta, quadrando le poderose spalle, sguainò a metà la terribile scimitarra, con cui si compiaceva di spaventare i sorci della sua stanza, anch’essi dilettanti delle fortezze e carceri, e poi lasciolla cadere rumorosamente nel fodero di metallo.

Tanto entusiasmo non potea mancare di eccitare l’anima più esaltata d’assai del brigante, e dopo d’aver contemplato in estasi la fisionomia illuminata del vecchio soldato, il figlio dei Vulcani esclamò più impetuosamente del primo:

«Vergine santissima! basta! inviatemi, e per S. Gennaro, questo mio ferro (che gli era stato restituito dal maggiore) somiglierà la spada di fuoco con cui l’arcangelo percuoteva i condannati da Dio!».

«Bene così» ripigliava il maggiore, «ma conviene che tu m’ascolti sul da farsi prima di far giocare il ferro».

Soddisfatto di sè stesso, e pettoruto per l’effetto prodotto dal proprio eloquente discorso, Fior di Bacco, dopo d’aver dato un’occhiata intorno la stanza, e prestato l’orecchio al famigliare rumore dei topi, che riconobbe non esser di gente, dopo d’aver famigliarmente posta la mano sul braccio di Tifone, e con dolce violenza trascinatolo lontano dalla porta, continuò con voce più sommessa:

«Le buone notizie a te comunicate e la prossima vittoria del nostro esercito, tu devi annunziarle a tutti i nostri nella città, nei principali centri della camorra, che ben conosci, in tutti i conventi e in tutte le chiese, che lì non puoi sbagliare, e finalmente devi adoperarti perchè tutti propaghino in Napoli e nelle provincie il grande evento».

L’occhio di tigre del brigante, fisso in Fior di Bacco, ed un profondo inchino del capo, furono la più eloquente delle risposte, ed il maggiore era sicuro di poter contare sul formidabile calabrese.

CAPITOLO XLV
GIORGIO PALLAVICINO

 
Or superbi, or umili,
Infami sempre.
 
(Alfieri).

Il fiero e grandissimo Astigiano tali epiteti infliggeva alla sua casta, quando sdegnoso ed irato ai patrii numi. E veramente le eccezioni sono poche, e sventuratamente sempre vediamo servir di cariatidi al dispotismo, sotto qualunque forma, i titolati antichi e moderni.

Giorgio Pallavicino Trivulzio è un’onorevole eccezione però, alla regola; e quando l’Italia, scevra da certe miserie, che la tribolano anche al dì d’oggi, farà l’enumerazione de’ suoi martiri più benemeriti, certo non conterà fra gli ultimi il nome del nostro Giorgio.

Rinchiuso nello Spielberg dall’Austria per quattordici anni, col solo delitto d’aver amato la libertà del suo paese, egli s’è mantenuto incrollabile ne’ suoi principii di libertà ed unità nazionale.

A Pallavicino e a Manin, più che ad altri, si deve certamente l’avvicinamento della Monarchia ai Repubblicani d’Italia. Fatto importante per le sorti del nostro paese, e che comunque si dica, ha prodotto, se non la libertà, certo la quasi unificazione nazionale, primo bisogno della penisola.

Fatto importante, coadiuvato veramente da felici combinazioni, ma che non tolgono all’Italia, anche con meschinissimi reggitori, di scuotere l’antica sua cervice sovrana, e far intendere a certi suoi insolenti detrattori, che questa non è poi la terra dei morti, e della gente che non si batte.

Dovendo conciliare principii diametralmente opposti, essi dovettero certamente accarezzare una parte e l’altra, e ne avvenne, com’è naturale, sembrar dessi troppo repubblicani ai monarchici, e viceversa ai repubblicani.

Ripeto: quando l’Italia sarà guarita da certe miserie, essa ricorderà gli eminenti servigi di quei suoi grandi.

Pallavicino era prodittatore a Napoli ne’ tempi da noi descritti. Egli è pieno di capacità politica ed amministrativa, ma come succede generalmente alla gente onesta, era poco diffidente. – Conosceva l’esistenza della camorra, vi aveva mandato i segugi della polizia locale a vigilarla, ma era lontano d’aver delle informazioni esatte sulla terribile associazione, essendovi affiliati molti dei poliziotti; – e quindi egli stesso era la prima vittima designata al pugnale dei vendicatori, come si chiamavano allora i sostenitori dell’altare e del trono.

L’assassinio del Gambardella, virtuoso popolano, e d’alcuni altri plebei di parte nostra, era stato un saggio, o piuttosto una prova di ferri, che doveva continuare dal basso all’alto, e finire poi coll’eccidio generale nel giorno del giudizio, come lo chiamavano i preti, cioè nel giorno della vaticinata vittoria.

Spinte le cose dalle impazienze monarchiche, insofferenti di stare a bocca asciutta davanti alla splendida preda, quale è la ricca Partenope, i sabaudi si misero a vociferare annessione, e mi obbligarono quindi, come già accennai, a lasciare l’esercito sulla sponda sinistra del Volturno in presenza d’un esercito superiore, ed alla vigilia d’una battaglia, per recarmi a Palermo, ove il popolo, messo su da’ cagnotti cavouriani, voleva anch’esso annessione, ed in conseguenza cessazione della brillante campagna da parte nostra, per lasciar fare a chi tocca.

Come miglior partito, e più breve, io mi decisi d’imbarcarmi per Palermo, ove non mi fu difficile persuadere quel bravo popolo, non esser giunto il tempo di parlare d’annessione, ma bensì di proseguir l’opera di unificazione nazionale, anche sino alla città eterna, se possibile. I figli del Vespro m’intesero subito, ed in pochi giorni io potei essere di ritorno all’esercito.

Comunque, la mia breve assenza avea stimolato i reazionari della Metropoli Napoletana, e senza l’attività del Pallavicino e del generale Türr, che in quei giorni facea da capo di polizia, non so come sarebbero andate le cose.

Era nella seconda quindicina di settembre; la brezza del mare avea soffiato tutto il giorno, e rinfrescata l’atmosfera.

La popolazione della grande città inondava, per prendere il fresco verso sera, tutti i dintorni della stessa, ed una circolazione straordinaria di carrozze e pedoni stipava una delle vie secondarie, che dal centro di Napoli guidano verso la stazione di Caserta. In quella via piuttosto angusta, e già quasi per uscirne ed abbordare la stazione della via ferrata a destra andando trovasi uno di quei bugigatti di meschinissima apparenza, ma in sostanza molto importante, come vedremo procedendo. Lunga e stretta la stanza terrena, avea piuttosto l’aria d’un corridoio che d’un appartamento d’albergo. Due lunghissime panche e strettissime tavole, erano il solo adornamento del sudicio locale, e tali suppellettili lasciavano un passaggio strettissimo nel mezzo. A destra e a sinistra entrando, per compir l’apparato di casa, trovavansi due cucine ambulanti, ove due untissime donne stavano eternamente occupate a friggere, ciò che provava esser numerosi gli avventori.

Circa all’antichità poi dell’osteria della Bella Giovanna, si raccontava con orgoglio dagli odierni tenitori (discendenti dagli antichi), che la vigilia della famosa rivoluzione napoletana contro la dominazione spagnuola, il prode Masaniello colla sua schiera di coraggiosi pescatori Partenopei, avea mangiato le triglie fritte, e che fra tutti avean vuotato due grandi fusti di lacrimacristi, e due barili di Falerno. – Pare in quel tempo facessero miglior vita dei moderni, quei pescatori, giacchè oggi, essi pescano bensì le triglie, ma mangiano generalmente gattuzzi.

Nel fondo della stanza-osteria, sedeva dietro un banco guernito d’ogni ben di Dio, alla distanza di circa tre metri dall’entrata, la dea titolare del tempio, giacchè questo dal di lei nome e da quello d’una sua nonna, nomavasi col modesto titolo di Osteria della Bella Giovanna, e dagli avanzi rispettati da trentacinque anni compiti, potevasi congetturare esser stata la Giovanna a vent’anni un boccone plebeo sì, ma sempre un bel boccone e da preti. Speriamo tale denominazione sarà presto posta tra le anticaglie dal buon senso de’ miei concittadini: non più bocconi da prete. Essa però avea cominciato ad impinguare troppo, sia per la vita sedentaria, sia forse per soddisfazioni e contentezze d’una esistenza fuori dei trambusti e delle avventure.

Giovanna era gentile con tutti, e dovea esserlo facendo l’ostessa; comunque, la sua riputazione di sobrietà e di pudicizia era incontestata. Il 7 settembre però, colla cacciata dei Borboni, avea cacciato pure la pace dall’anima della nostra ostessa, e l’entrata dei rompicolli avea marcato un’era nuova nei sentimenti sin ora invariabili della bella Giovanna.

Un furbaccione, ma proprio dei bulli della compagnia o battaglione dei Carabinieri Genovesi, col pretesto di andare a mangiar le trippe dalla bella Giovanna, era pervenuto a destare un vesuvio d’affetti in quel cuore fino allora inespugnato.

Per fortuna della Giovanna, Bajaicò non era un depravato, e corrispondeva santamente alla bella innamorata.

Nel fondo del fondaco che non abbiam finito di descrivere, innalzavasi il tempio di Giovanna, e potevasi chiamare realmente così, poichè era il solo punto nel locale che meritasse di fermar l’occhio, sia per l’avvenenza dell’ostessa sempre pulita e risplendente d’abiti a colori simpatici, sia per la profusione di frittelle, pesci fritti e tanti altri manicaretti, che se non erano teoricamente e francesemente preparati, potevano, senza rischio di essere rifiutati, presentarsi a qualunque palato; massime poi dacchè la nostra Giovanna era innamorata cotta di Bajaicò, il suo abbigliamento era più accurato, il banco più adorno e più pulito ancora, ed una vera profusione di fiori completava il gastronomico altaretto della nostra buona e bella popolana. – Ed a me, plebeo sino alla midolla delle ossa, solletica cotale semplice ma fervido innamoramento, ove l’amore presiede generalmente più sincero che nelle regioni principesche.

Due lampade, una a destra e l’altra a sinistra del tempietto, quasi eternamente accese, per l’oscurità del locale anche in pieno meriggio, indicavano l’entrata d’altri due corridoi, conducenti nell’interno; e quell’interno era veramente la parte più importante dello stabilimento. – Congiungevansi i due corridoi laterali in un sotterraneo spaziosissimo, capace di contenere migliaia di persone, e tale sotterraneo era adorno di tavole, sedie e panche, e lateralmente di una ragguardevole quantità di fusti, pieni di vino, acquavita e bibite d’ogni specie.

Due robusti giovani, fratelli di Giovanna, avean la vigilanza dell’interno, e distribuivano, aiutati da garzoni, ogni cosa richiesta dagli avventori.

CAPITOLO XLVI
OSTERIA DELLA BELLA GIOVANNA

 
L’ardue non temo e l’umili
Non sprezzo imprese.
 
(Tasso).

Osteria della bella Giovanna, sì! E perchè non potrei narrare anche delle osterie?

Alcuni diranno: ma potevi, stupido che sei, adornare il tuo lavoro con alcuno di quei titoli alto sonanti che di più solleticano gli oziosi e le oziose, giacchè confesserai, esser quella la sola gente che può leggerti, e non coloro che abbiano occupazioni. Per esempio: Grand Hôtel des princes, Grand Hôtel des empereurs! come si vede in tutti i canti della tua cara Nizza. – O almeno Albergo non fosse altro: del Leon d’oro o del Tigre d’argento, titoli che soli bastano a riempire lo stomaco sino all’indigestione. Ma osteria! oibò! si vede bene che sei un ex-Dittatore, proletario sino alle ugne. – Eppure, malgrado le opinioni contrarie, io tornerò all’osteria della bella Giovanna che palpita d’amore per quel battuso di Bajaicò, uno dei più originali tipi dei Mille, e nello stesso tempo dei più valorosi, ed i nostri lettori vedranno se ambi i miei protagonisti sieno indegni di menzione.

Nel sotterraneo a volte, che avea servito forse a Masaniello per riunirvi ed arringare i suoi bravi pescatori, forse in tempi non lontani ai carbonari, per ordire la trama che nel 21 dovea rovesciare il borbonismo, in quel sotterraneo riunivansi abitualmente centinaia dei caporioni della camorra, e com’è naturale, ai tempi andati, ove si trattava nientemeno che di annientare gli scomunicati rompicolli, le adunanze camorriste erano eseguite spesso, ma nel più profondo segreto, e nessun profano sotto qualunque titolo poteva assistere alle importanti riunioni.

Ad un tavolo, nella parte più remota del sotterraneo, sedevano una dozzina dei più robusti avventori. Un potente doglio collocato nel centro d’un tavolo, e questo ben guernito di bicchieri pieni o da riempire, attestavano non voler gli astanti conversare a bocca asciutta.

I fumi del vino e l’atmosfera calda del locale, perchè poco aerato, facean gradito ai nerboruti interlocutori, lo starsene in maniche di camicia, e anche colle maniche rialzate sino all’ascella: licenze non vietate nel locale, veramente plebeo, e che servivano pure a facilitare una partita alla morra, ciocchè si eseguiva spesso, anche per nascondere alla moltitudine, sotto il manto del divertimento alcuna deliberazione importante. La terribile setta della camorra non ammetteva indugi. Potevasi, per esempio, giungere al banco della bella Giovanna, essendo profani, bevervi o mangiare qualche cosa seduti sulle panche e tavole esterne di cui già narrammo, ma per penetrare nella catacomba camorrista, nelle ore delle conferenze, dovevasi essere iniziati, o morire. E molte atrocità eransi commesse verso imprudenti che, contro il divieto delle sentinelle, volevano internarsi.

Conchiudiamo dunque: che camorristi erano i due fratelli di Giovanna e camorrista essa stessa (per poter vivere), dicevano, ma in sostanza trascinati in quella cloaca, dalla fatalità dei tempi, e massime, da pessimi governi, che sembrano scaturire apposta dall’inferno per la sventura d’una delle più belle regioni del mondo.

«Una volta eravamo tredici come gli apostoli» esclamò Tifone agli undici compagni, «e noi siamo stati ingannati da Cristo divenuto Giuda, poichè Talarico, il traditore, facea le funzioni di redentore tra di noi. Ed ora quel miserabile si è dato anima e corpo a questi eretici rompicolli». «Non te n’incaricare» rispondeva Agnello al capitano della camorra «un traditore, è meglio per noi si sia allontanato – la causa del re nostro e della Religione trionferà senza Talarico». «Manaccia!» ripigliava il focoso calabrese «avrei voluto almeno che quell’uomo non fosse della terra mia. – Eppure era valoroso come un demonio quel figlio d’Aspromonte. E non sono favole, tutti noi l’abbiamo veduto all’opera, quando si trattava di menar le mani davvero». Queste ultime parole furono dirette ad un nuovo venuto che con aria di famigliarità e comando erasi avvicinato al tavolo dei dodici.

«Lasciamo da parte le lamentazioni» sorgeva a dire quel tale da noi conosciuto, «e pensiamo al serio, pensiamo che fra pochi giorni il re nostro attaccherà ed annienterà questa masnada di malviventi, che perciò bisogna tenersi pronti, non solo, ma operare una diversione qui in Napoli, che obblighi il capo degli avventurieri a distrarre una parte delle sue forze, per facilitare l’impresa del nostro esercito».

Chi avea articolato tali assennati propositi, altro non era che il Monsignor Corvo, sotto le umili vesti d’un bazzaccone. Il gesuita era maestro nell’arte di mascherarsi, e vero proteo o camaleonte, le sue trasformazioni eran ben fatte, fatte a tempo ed a proposito, ed il Sanfedismo non avea certo un altro che fosse sì attivo, sì idoneo e di tanta capacità. I talenti di tal uomo, sarebbero stati un vero tesoro, se applicati alla causa della giustizia.

Comunque, tra i rozzi capi della camorra, l’eloquente ed energica osservazione del prete ottenne quell’ascendenza incontestabile che tanto lo avea distinto in ogni circostanza.

«Dice bene il nostro amico» riprese ardentemente Tifone, cui era preferibile un’azione immediata. «E manaccia! questa notte stessa bisogna operare qualche colpo a pro della religione santissima e del re nostro – io lo giuro!» E così gridando trasse fuori la daga, diè col pugno un fortissimo colpo sul tavolo, che fu seguito da una simile dimostrazione dei compagni, per cui doglio, bicchieri e quanto trovavasi sulla tavola, andarono rotolando sul sudicio selciato del sotterraneo.

La fervida manifestazione dei capi naturalmente mise in sussulto tutta la comitiva, ed in un momento, centinaia di daghe brillarono nel chiaro-scuro dello speco, accennando esser tutti pronti agli ordini dei capi.

Corvo contemplò con compiacenza la focosa risoluzione dei soldati della fede, e montando sopra una sedia, volto alla folla, fece intendere le seguenti parole: «Che Dio vi benedica, figliuoli! e che vi conduca per la mano allo sterminio de’ suoi nemici! bruciate, svenate, uccidete! annientate sino i neonati di quegli eretici perversi, che mettono la mano sacrilega su tutto ciò che vi è di più santo, che vogliono strappare ad uno ad uno i capelli santi del venerando Dio in terra che siede in Vaticano; che commettono le loro orgie nella chiesa della beatissima Maria, e che condiscono l’insalata coll’olio santissimo! a loro maledizione! maledizione! Amen». E tutti in coro risposero: «Amen! amen! amen!» – Ecco il prete! Eccolo col suo ascendente sulle moltitudini ignoranti su cui le parole: Gloria di Dio! gloria del paradiso! che non comprendono e che non sanno esser votissime di senso, fanno un effetto magico! – Poi: bruciate, svenate, uccidete per la maggior gloria di Dio, e sarete ricompensati colla felicità eterna? Che morale! che scuola! E stupiremo di veder commettere ogni nefandezza, ai briganti, che altro non sono se non docili alunni dell’impostura!

Volto a Tifone, il gesuita disse finalmente:

«Amico mio, con uomini di tal fatta si può tentar qualunque impresa. Incaricatevi con questi vostri bravi della pro-dittatura, e particolarmente del capo; io vado subito ad avvisare i nostri che corrispondano degnamente alla grande opera».

Così dicendo, accomiatossi l’astuto, incamminandosi nell’interno ed uscendo per porta segreta. – Tifone, dopo d’aver accompagnato Corvo collo sguardo, dirigendosi a’ suoi disse:

«Ora a noi, compagni, non si dica che siam millantatori, ma uomini d’azione, e peran sotto le nostre daghe, come perì quel perverso di Gambardella, quanti scomunicati si trovano in Napoli e nel regno».

Egli poi diè ordini ai capi di riunire le loro sezioni, ed impartì ordini precisi da far invidia ad un generale d’armata.

Eran circa le 10 pomeridiane, quando il sotterraneo della bella Giovanna presentava l’aspetto d’un campo militare, pronto a muoversi per dar battaglia al nemico. – Era uno spettacolo imponente: quelle centinaia di figli del popolo pronti ad assaltare e sterminare, se possibile, i loro fratelli non solo, ma coloro che per il popolo davano volenterosi la vita, coloro che venuti da lontano, avean superato le insidie della tirannide, e mille disagi e pericoli sui campi di battaglia. Che importa! i preti han detto loro che i Mille erano eretici, nemici del re, della religione e scomunicati dal Santo Padre, e quindi la gloria del paradiso era assicurata a chi li sgozzava, li bruciava, li sterminava.

Eran tutte fisonomie abbronzate, robuste, quei popolani, lavoratori d’ogni professione, uomini che educati convenientemente e stimolati dall’amor di patria, della nostra patria, non di quella vana e bugiarda dei negromanti, avrebbero potuto servir eroicamente l’Italia contro lo straniero insolente e sottrarla dal fango e dall’abbrutimento ove la tengono i preti ed i reggitori.

Oggi eran camorra la più sudicia, la più indecente delle società umane, pronta a tuffarsi nel sangue e nei più orribili delitti, colla coscienza d’esser perdonati non solo, ma ricompensati colla felicità eterna! «Pronti!» risposero tutti all’interpellanza del capo; e già la massa degli armati di daga movevasi verso l’interno della catacomba. Un rumore però che si fece all’entrata d’uno dei corridoi, fermò la marcia ed eccitò da quella parte l’attenzione della comitiva. – Ed eccone la ragione.

Bajaicò, che già conosciamo come amante della bella Giovanna, era un bravo giovane e valorosissimo – non apparteneva però alla società di temperanza, o se vi apparteneva n’era sovente un trasgressore; – ed in quella sera essendosi fermato più del solito presso al banco della sua Giovanna, vi aveva alzato il gomito oltremodo.

Padrone del cuore della padrona, il nostro Bajaicò si credè nel diritto di passeggiare il locale tutto, e ad onta delle ammonizioni e preghiere della Giovanna che cercava con varii pretesti di allontanarlo dal proposito d’internarsi, il focoso discendente di Balilla avventurossi nell’andito del corridoio di destra, ove fu fermato dalla sentinella. Peggio, allora, giacchè se aveva poca voglia di andare avanti, senza opposizione, ora glie ne nacque moltissima, impedito materialmente e bruscamente dalla sentinella nel suo disegno.

L’atto primo di Bajaicò, trattenuto con poco garbo da un individuo qualunque, senza distintivi, fu di mandarlo gambe all’aria con un pugno, ciocchè egli eseguì con facilità essendo svelto, nerboruto ed audace; – ma in un momento egli venne attorniato da molti e condotto in presenza di Tifone. – Il suo processo fu presto finito e la sua sorte decisa. – Un’occhiata del capo bastò per condannarlo, legato colle mani addietro, e condurlo nell’interno per esservi immediatamente sacrificato.

In questo il giudizio di Tifone somigliava a quello d’un vecchio romano che, consultato sul da farsi con molti prigionieri nemici che ingombravano il campo, mentre questo stava per essere attaccato, rispose: «Ammazzateli!»

È cotesto anche uno dei tanti spedienti che i monarchi ed i loro satelliti adoperano in quel bel loro passatempo di stragi che si chiama guerra. Tali furono i procedimenti degli Hainau, dei Villata, dei Bazaine che, senza trovarsi spinti dall’eccidio, da terribile necessità d’una posizione arrischiata, massacrarono i Bresciani, i volontari a Fantina, ed il signor Bazaine, il nostro generale Ghilardi, prode difensore di Roma, al Messico mentre era ferito. Ed Ugo Bassi dai preti austriaci! E Ciceruacchio con due figli e sei compagni da un principe di casa d’Austria! E le migliaia di vittime d’un popolo generoso, immolate alla paura di quel saltimbanco politico, mascherato da repubblicano, che il giornalismo salariato chiama salvatore della Francia! – E perchè trovan strano allora che pochi briganti si sbarazzino d’un individuo che, lasciato libero, avrebbe certamente svelato il loro ricovero? – Orribile misura di quella giostra fatale che si chiama guerra – orribilissima quando eseguita in dettaglio, ma che quando, per esempio, si tratta d’un’ecatombe di milioni, allora diventa gloriosa, fruttando alla prosperità, all’onor nazionale, e sopratutto all’onor delle aquile o delle bandiere!

50.Si sa quanto solerte era il Governo borbonico per far mangiar a buon mercato il pane ed i maccheroni.
51.Gambardella fa pugnalato dalla camorra poco dopo la nostra entrata in Napoli. Era un pescivendolo, eccellente popolano.
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12+
Data wydania na Litres:
28 września 2017
Objętość:
320 str. 1 ilustracja
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Public Domain