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Czytaj książkę: «Il Quadriregio», strona 4

Czcionka:

CAPITOLO X

Nel quale l'Amore discorre delle varie impressioni dell'aere con l'autore, a cui da Venere vien promessa la ninfa Ilbina.

 
        Oh Speranza vivace e sempre verde!
        Se ogni cosa all'uom toglie fortuna,
        ella sempre rimane e mai si perde.
 
 
        Questa soletto al lume della luna
    5 mi mise tra li boschi e tra li rovi
        con gran fatica e senza posa alcuna.
 
 
        Dicea fra me: – Ben converrá ch'io provi
        ogni mio ingegno e cerchi ogni paese,
        che Lippea bella mia ninfa ritrovi. —
 
 
   10 E giá cercando er'ito ben un mese
        per l'aspro bosco e per la selva amara,
        quando Cupido a me si fe' palese.
 
 
        E come quando Febo si rischiara,
        perché la nube grossa s'assuttiglia,
   15 che prima ostava alla sua faccia chiara;
 
 
        cosí una luce splendida e vermiglia
        mi die' nel volto; e, mentre l'occhio innalzo,
        per veder meglio aguzzando le ciglia,
 
 
        io vidi lui, che stava su in un balzo
   20 e disse a me: – Ricòrdati che tue
        giá tante volte m'hai chiamato falzo.
 
 
        Però t'ho tolto l'allegrezze tue;
        ma io prometto a te di ristorarte,
        se falso e traditor non mi di' piúe.
 
 
   25 Ma sappi prima che forza né arte
        al regno di Iunon giammai perviene:
        tant'ello dalla terra si disparte;
 
 
        ché 'l regno, il quale Saturnia mantiene,
        è posto in aere su nel freddo loco,
   30 onde la pioggia e la grandine viene.
 
 
        Lí non riscalda la spera del foco,
        che non riscalda in giú tanto da cesso,
        né anco il sol niente o molto poco;
 
 
        ché 'l raggio del gran Febo in giú riflesso
   35 non riscalda da lungi o molto oblico,
        ma ben dappresso è riflesso in se stesso.
 
 
        E quando a questo loco, ch'io ti dico,
        il vapor di quaggiú salendo giugne,
        ratto che sente il freddo a sé nemico,
 
 
   40 in sé si strigne ed in sé si congiugne
        e fassi nube; e, quand'egli è costretto,
        si fa la pioggia, perché l'acqua smugne.
 
 
        Ma nella state quel vapor, che ho detto,
        ha molto in sé del terrestro vapore
   45 sulfureo e secco e d'ogni umido netto.
 
 
        E questo, quando sente l'umidore,
        sí come fa all'acqua la calcina,
        s'accende, e con gran rabbia n'esce fuore
 
 
        quindi il baleno e 'l tuon con gran ruina.
   50 E di questo vapor Vulcano a Iove
        fa tre saette nella sua fucina.
 
 
        Che se ben miri quanto è piú forte ove
        sta sulfurea fiamma inclusa ed arda,
        tanto piú furiosa ella si move,
 
 
   55 sí come apparir può nella bombarda,
        ché poca fiamma accesa tanto vale,
        che tuona e rompe ed esce fuor gagliarda;
 
 
        perché la state vieppiú alto sale
        del chiaro Febo il suo riflesso raggio,
   60 e risal meno obliquo e piú eguale.
 
 
        Però questo vapor, che pria dett'aggio,
        conven che 'l sole il lieve in piú altura
        a farlo nube in piú alto viaggio.
 
 
        Ov'ei trova adunata piú freddura,
   65 ivi si stringe, e l'acqua da lui scossa
        grandine fassi: sí 'l ghiaccio la 'ndura.
 
 
        Ma, perché nell'inverno non ha possa
        il sol, che tanto insú il vapor lieve,
        'nanti ch'assai insú faccia sua mossa,
 
 
   70 ancor non fatto nube si fa neve;
        e raro e sperso fatto ghiaccio cade,
        come bambace in terra, lieve lieve.
 
 
        A cosí alte e sí fredde contrade
        da che salir non puoi, qui a te venni,
   75 ché di tanta fatica io t'ho pietade. —
 
 
        E, detto questo, con parole e cenni
        mi fece scender giú per una scheggia;
        e, quando in un bel prato giú pervenni,
 
 
        io vidi ninfe; e ciò, ch'occhio vagheggia
   80 mai di bellezza, risplendeva in loro:
        tanto ognuna era bella e tanto egreggia.
 
 
        Parean venute dal superno coro
        quaggiú nel mondo, creatur celeste
        use con Iove in l'alto concistoro.
 
 
   85 Quando mi viddon, fuggîr ratte e preste
        alquanto a lungi e poi voltôn lor volti,
        me risguardando tacite e modeste.
 
 
        – Io prego – dissi – che da voi si ascolti
        di questa mia venuta la cagione,
   90 che m'ha condutto in questi boschi incolti.
 
 
        Cercando vo il regno di Iunone:
        da che fortuna m'ha condutto a voi,
        prego vostra pietá non m'abbandone.
 
 
        – Al regno di Iunone andar non puoi
   95 – mi rispose una, – ché sí in alto è posto,
        che montar non potresti insino a loi. —
 
 
        E quando questo a me ebbon risposto,
        passâro un monte e sí ratto fuggîro,
        che appena il vento si movea sí tosto.
 
 
  100 Ed io dirieto a lor, con gran suspiro,
        presi la costa e salsi il monte ratto;
        e quando giú nell'altra valle miro,
 
 
        io vidi l'arco di Iunon lí fatto
        ed alto in aere, il qual per segno diede
  105 Dio a Noè, con lui facendo il Patto.
 
 
        E come re ovver regina siede
        nell'alto tron, cosí su quel si pose
        Venus vestita d'òr da capo a piede,
 
 
        con la corona di mirto e di rose,
  110 con lieta faccia ed aspetto sí bello,
        piú che mai dèe ovver novelle spose.
 
 
        Cupido allor volar come un uccello
        vidi per l'aere; e credo sí veloce
        Cillen non corse mai, né tanto snello.
 
 
  115 Venus mi disse in questo ad alta voce:
        – O giovin, c'hai montata insú la costa,
        spronato dall'amor caldo e feroce,
 
 
        la bella ninfa, che a te fe' risposta,
        da me e dal mio figlio a te è sortita,
  120 che l'abbi a tuo voler ed a tua posta.
 
 
        Fa' che tu passi qua, dov'è fuggita
        nell'altra valle, e tanto lí rimagne,
        che da Cupido per te sia ferita. —
 
 
        Per questo io trapassai l'aspre montagne,
  125 tanto ch'io la trovai nell'altro piano,
        che stava a coglier fior con le compagne.
 
 
        Cupido lí non molto da lontano
        di quella bella ninfa mi ferío
        d'una saetta d'oro, ch'avea in mano.
 
 
  130 Però io con ingegno e con desio
        m'appressa' a loro e dissi: – O ninfe belle,
        in questo loco sí silvestre e rio
 
 
        per consigliarmi alcuna mi favelle:
        deh! non v'incresca che alquanto qui stia,
  135 stancato tra le selve amare e felle. —
 
 
        La ninfa, che risposto m'avea pria:
        – O giovin – disse, – non abbiam temenza,
        né anco incresce a noi tua compagnia.
 
 
        Ma noi Minerva, dea di sapienza,
  140 aspettiam qui; e da noi qui s'aspetta
        con lo gran carro della sua eccellenza;
 
 
        ché qui tra noi è una giovinetta,
        che vuoi menare al suo regno felice,
        la qual tra le sue ninfe ha per sé eletta;
 
 
  145 e non sappiam di qual di noi si dice.
        Noi non voramo, quando ella discende,
        che alcun uomo con noi trovasse quice.
 
 
        Per quella cortesia, che 'n te risplende,
        ti prego che di qui ti parti alquanto,
  150 ché tua presenza sospette ne rende.
 
 
        – O ninfa, veder te m'è grato tanto
        – risposi a lei – e tanto a te mi lego,
        che io non posso andar in alcun canto.
 
 
        Ma io a me stesso la mia voglia niego
  155 contra mia voglia ed al partire assento,
        da che ti piace: tanto può 'l tuo priego.
 
 
        E, da che io mi parto con tormento,
        dimmi chi se'; e quando qui ritorno,
        prego, del tuo parlar fammi contento. —
 
 
  160 Per la vergogna arrosciò il viso adorno,
        e ch'io non fossi udito ella temea:
        però ella mirava intorno intorno.
 
 
        Poscia rispose: – Io nacqui giá 'n Alfea,
        Ilbina ho nome e tra li duri scogli
  165 vo seguitando la selvaggia dea.
 
 
Piú non ti dico: omai partir ti vogli. —
 

CAPITOLO XI

Come la dea Minerva discese e seco menò Ilbina ninfa.

 
        Io me n'andai in un boschetto alpestro,
        distante a quelle ninfe, a mio parere,
        ben quasi una gettata di balestro,
 
 
        sí ch'io poteva udire e ben vedere
    5 tutti lor atti e tutte lor parole,
        ed aspettando mi stava a sedere.
 
 
        Ed ecco, come quando il chiaro sole
        tra le men folte nubi sparge il raggio,
        che quasi strada in cielo apparir sòle,
 
 
   10 cosí da cielo ingiú si fe' un viaggio;
        e la via lattea, che pel caldo s'arse,
        piú che quella in splendor non ha vantaggio.
 
 
        Le ninfe tutte alla strada voltârse;
        e come quando rischiara l'aurora,
   15 cosí lucente in cielo un carro apparse.
 
 
        E poco stando io vidi una signora
        splendente quanto il sol su la mattina,
        quando dell'orizzonte egli esce fòra,
 
 
        incoronata come la regina,
   20 che venne a Salomon dal loco d'Austro
        per udire e saper la sua dottrina.
 
 
        Quando piú presso ingiú si fece il plaustro,
        lo scudo cristallin gli vidi in mano,
        lucente quanto al sol nullo alabastro.
 
 
   25 Ed era sí scolpito e sí sovrano,
        che tanto adorno nol fece ad Achille,
        per preghi della madre, dio Vulcano.
 
 
        Appresso al carro stavan le sue ancille,
        inclite ninfe, intorno a coro a coro,
   30 ed ogni coro in sé n'ha piú di mille.
 
 
        Non ebbe piú splendor, né piú lavoro
        il carro, a cui Fetòn lasciò lo freno,
        quando trasse i corsier dal cammin loro.
 
 
        Vedendo lo splendor tanto sereno,
   35 l'alpestre ninfe stavan ginocchioni
        con reverenza sul basso terreno.
 
 
        Quando discesa fu con canti e suoni
        la dea Minerva e che fu posto fine
        a tanti balli ed a tante canzoni,
 
 
   40 le ninfe alpestre riverenti e chine
        dissono: – O dea, qual vorrai che vegna
        di noi e che al tuo regno al ciel cammine? —
 
 
        Rispose ella: – Di voi ognuna è degna;
        ma ora eleggo Ilbina e voglio questa,
   45 che venga meco ove da me si regna. —
 
 
        E, detto questo, con canti e con festa
        la coronò d'alloro e poi d'uliva,
        e di fin òr gli fe' vestir la vesta.
 
 
        Poi per la strada, che da ciel deriva,
   50 la menò seco pel cammin ad erto,
        forte a salire ad uom mortal, che viva.
 
 
        Io, che m'era occultato in quel deserto
        tra dure spine e pungenti cespogli,
        il viso alzai di lacrime coperto.
 
 
   55 – Perché, o Palla, Ilbina mia mi togli?
        – dissi piangendo; – e perché a questa volta
        d'Ilbina, o dio Cupido, ancor m'addogli? —
 
 
        E fuora uscii e con fatica molta
        per la celeste strada insú mi mossi
   60 dietro alla ninfa, la qual m'era tolta.
 
 
        E ben un miglio cred'io andato fossi,
        che la dea Venus si chinò a pietade:
        tanto con li miei preghi io la commossi.
 
 
        Nell'aere apparse con grande beltade;
   65 poi scese al carro con faccia proterva,
        il qual saliva le splendenti strade.
 
 
        – Non senza gran cagione, o dea Minerva
        – disse Venus, – io vengo tra la schiera,
        che segue te e tuo comando osserva,
 
 
   70 ché insino al cielo, ove il gran Iove impera,
        d'un vago giovinetto è giunto il grido,
        che sempre ha 'n me sperato e sempre spera.
 
 
        Ed io ed anche il mio figliuol Cupido
        una ninfa, ch'è qui, gli abbiam promessa,
   75 sí come a nostro caro amico e fido.
 
 
        E se tu vuoi sapere quale è essa,
        Ilbina ha nome, che la dea Diana
        la mandò a te ed halla a te concessa.
 
 
        E perché la mia spen non fosse vana,
   80 Iunon la confermò e fe' che scese
        Iris, sua nuncia, presso una fontana.
 
 
        Acciò che mie parol sien meglio intese,
        mira colui che sal su per la via:
        il mio figliuol colui d'Ilbina accese.
 
 
   85 Costui è quel, di cui prego che sia
        la detta ninfa; ed egli è quel che fue
        dato da Iuno a lei per compagnia.
 
 
        Vedi che move ratto i passi insúe
        e per la costa omai è tanto stanco,
   90 che a pena dietro a te può seguir piúe. —
 
 
        Minerva, vòlta verso il destro fianco,
        mi rimirò; ed io era da lunge
        tre gettar di balestro o poco manco.
 
 
        Come che 'l servo se medesmo punge,
   95 che è visto ed aspettato dal signorso,
        che affretta i passi insin che a lui aggiunge;
 
 
        cosí fec'io insin ch'io ebbi corso
        al carro, ove Ciprigna s'era posta,
        che mi aspettava per darmi soccorso.
 
 
  10 °Come persona a compiacer disposta
        a chi la prega, cosí Palla fece
        a Citarea benigna risposta:
 
 
        – Se a Iunone, a cui imperar lece,
        io ho rispetto ed a te che 'l domandi,
  105 che puoi dir: «Voglio», e fai cotanta prece,
 
 
        io mi contento far ciò che comandi;
        ma chiama Ilbina e vedi se consente
        innanti che 'l mio carro piú su andi. —
 
 
        Come donzella, che tra molta gente
  110 si dé' sposar, ed ègli detto: – Vuoi
        per tuo marito costui qui presente? —
 
 
        che, vergognando, abbassa gli occhi suoi;
        cosí Ilbina si fe' vergognosa,
        parlando questo le dèe amendoi.
 
 
  115 Però gli disse Venere amorosa:
        – O ninfa, che tra l'altre piú elette
        piú bella se' e piú pari graziosa,
 
 
        perché della vergogna sottomette
        il tuo bel volto? perché hai temenza
  120 del mio parlar, che gran ben ti promette?
 
 
        Vien' su nel carro di tanta eccellenza:
        io ti voglio parlar quassú da presso:
        vien' su avanti alla nostra presenza. —
 
 
        Come la zita col volto sommesso
  125 va per la via e move il passo raro,
        tal andò al carro e poi montò su in esso.
 
 
        Mentre salea, io vidi un foco chiaro,
        che gli abbruciò l'estremitá del panno,
        ond'ella mise un gran suspiro amaro.
 
 
  130 Quando s'avvide Palla dello 'nganno
        e che conobbe il foco, il fumo e 'l segno
        del sospirar, che fe' con tanto affanno,
 
 
        si volse a Citarea con grande sdegno:
        – Come se' tanto ardita, o rea e falza,
  135 tradir le ninfe, che son del mio regno?
 
 
        Nata nel mare giú tra l'acqua salza,
        de li membri pudendi, e tra le schiume,
        qual è quella superbia, che t'innalza?
 
 
        Madre e maestra d'ogni rio costume,
  140 pártite e vanne al regno tuo, lá dove
        ogni tuo atto è vano e torna in fume.
 
 
        Tu lodi il tuo figliuol, che ferí Iove;
        ma non fu il vero: Iove anche è diverso
        da quel che il cielo ed ogni effetto move.
 
 
  145 Quel sommo re, che regge l'universo,
        porta odio a te e 'l tuo figliuol descaccia,
        sí come falso amor, rio e perverso. —
 
 
        Come chi scorna, ch'abbassa la faccia
        e mormorando seco il capo scuote,
  150 mostrando irato e con segni minaccia;
 
 
        cosí Ciprigna con le rosse gote
        partíssi quindi ed al figliuol ricorse,
        come chi sé vendicar ben non puote.
 
 
        E giá ad Ilbina sarebbon trascorse
  155 le fiamme e 'l sacro foco insino al core,
        se non che Palla il suo scudo gli porse,
 
 
        che ha tanta virtú, tanto valore,
        che ogni fiamma di Cupido ammorta,
        ogni atto turpe ed ogni folle amore.
 
 
  160 E questo scudo, che Minerva porta,
        è di cristallo e 'l capo gorgoneo
        ha sú scolpito di Medusa morta,
 
 
vinta per forza e ingegno di Perseo.
 

CAPITOLO XII

Come la dea Minerva racconta all'autore l'eccellenza del suo reame.

 
        Con miglior labbia poscia a me rivolta
        la dea Minerva splendida e serena,
        mi disse: – Attento mie parole ascolta.
 
 
        Se vuoi lassar Cupido, che ti mena
    5 tra' duri scogli dell'aspro deserto
        con tanti inganni e con cotanta pena,
 
 
        e vuoi salir la strada suso ad erto,
        meco venendo all'alto mio reame,
        chiuso agli stolti ed alli saggi aperto,
 
 
   10 io ti farò amar dalle mie dame,
        che fanno i lor amanti esser felici,
        e te faran beato, se tu l'ame.
 
 
        Le ninfe di Diana servitrici,
        rispetto a quelle, ti parran villane,
   15 incolte, indotte, zotiche e mendíci.
 
 
        O ben dell'aspre selve, o cose vane,
        tanto veloce lo tempo vi toglie,
        che come d'ombra nulla ne rimane!
 
 
        Non posson contentar l'umane voglie,
   20 che 'n sé non hanno esistente bontade,
        e 'l ciel le logra, mentre sopra voglie.
 
 
        E, perché il ciel voltando sempre rade,
        quel che fu nuovo riveste l'antico;
        però le cose belle si fan lade.
 
 
   25 E, perché meglio intendi ciò ch'io dico,
        vien' su nel carro mio, che alla 'nsú monta,
        tra l'esercito mio saggio e pudico. —
 
 
        Io salsi il carro e nella prima gionta
        io dissi: – O dea Minerva alta e benegna,
   30 del regno tuo alquanto mi racconta.
 
 
        E dimmi qual è 'l modo ch'io vi vegna
        e dove sta e chi 'l regge e nutríca,
        e della sua beltá ancor m'insegna.
 
 
        – Al regno mio, del qual vuoi ch'io ti dica
   35 – rispose quella – e vuoi ch'io ti dimostri,
        non vi si può salir senza fatica;
 
 
        ché nel cammino stanno sette mostri
        con lor satelli ad impedir la strada,
        che l'uom non giunga a' miei beati chiostri.
 
 
   40 E chi losinga acciò che a lei non vada,
        chi fa paura e chi occulta il laccio,
        che impacci altrui o che dentro vi cada.
 
 
        E s'alcun vince e trapassa ogni impaccio,
        lassati i mostri, trova una pianura.
   45 ove non caldo è mai troppo, né ghiaccio.
 
 
        Chi su per l'erbe di quella verzura
        s'ingegna sempre di salire avante,
        del regno mio poi trova sette mura.
 
 
        E ogni muro dall'altro è piú distante
   50 che cento miglia, e dentro alla sua mèta
        un regno tien di ninfe oneste e sante.
 
 
        Ed una donna umíle e mansueta,
        a chiunque sale, il sacro uscio disserra
        benignamente e mai a nullo il vieta.
 
 
   55 Ma pria conven che l'uom basci la terra:
        allora quella ratto apre la porta
        e va con lui; se no, 'l cammin egli erra.
 
 
        Tra quelli regni dietro a questa scorta
        chi entra trova le muse elicone,
   60 ed ognuna gli applaude e lo conforta.
 
 
        Con lieti balli e soavi canzone
        il menano a diletto su pel monte,
        facendo melodia dolce e consone.
 
 
        Pervengon poi al pegaseo fonte,
   65 ove i poeti bevon la sacra onda;
        e poi d'alloro inghirlandan la fronte.
 
 
        All'altro giro, che vieppiú circonda,
        va poi chi prega la guida che 'l mene,
        e dietro a' passi suoi sempre seconda.
 
 
   70 Sette reine, nobili camene,
        che dienno alli gran saggi le mamille,
        di latte di scienza tanto piene,
 
 
        si trovan lí e nitide e tranquille
        mostran sette scienze, ovver sett'arti,
   75 con dolce dire e con soavi stille.
 
 
        Altra regina trovi, se ti parti,
        che splende quanto il sol nel mezzogiorno,
        quando ha li raggi meno obbliqui o sparti.
 
 
        Quella regina è tutta intorno intorno
   80 fulcita d'occhi assai vieppiú che Argo
        ed ha del sole il nobil viso adorno.
 
 
        Con tutti gli occhi il regno lungo e largo
        ella contempla e rende tanta luce,
        ché quivi non può 'l viso aver letargo.
 
 
   85 La scorta saggia altrove anco conduce,
        dov'è l'altra regina sí modesta,
        ch'ogni costume e senno in lei riluce.
 
 
        Fabricio e Scipion nutricò questa.
        Ella è che ad ogni troppo pone il freno
   90 ed è negli atti e nel parlare onesta.
 
 
        Altra reina è anco dentro al seno
        d'esto mio regno, di tanta fortezza,
        che a nulla violenza mai vien meno.
 
 
        Né mai menacce, né losinghe apprezza;
   95 né fortuito caso mai la piega;
        né muta faccia a doglia, né a dolcezza:
 
 
        il piombo solo è che la vince e spiega
        sí come il diamante, e cosí face
        di questa dea chi umilmente la prega.
 
 
  100 Da questo regno sí alto e capace
        la guida sale alla nobile Astrea,
        che con Saturno resse il mondo in pace.
 
 
        Ma, poiché fu la gente fatta rea
        e l'avarizia resse il mondo male,
  105 ritornò al cielo, ov'ella è fatta dea.
 
 
        Al nobil mio reame poi si sale,
        ove si trovan tre altre reine,
        ognuna in nobiltá a me eguale.
 
 
        Con queste tre sí alte e sí divine
  110 contemplo Dio, che regge l'universo,
        principio d'ogni cosa, mezzo e fine.
 
 
        Il regno mio è fatto a questo verso,
        com'io t'ho detto: or di' se vuoi venire
        o per le selve errando andar disperso. —
 
 
  115 Io era pronto e giá volea dire:
        – Io voglio, o dea, seguire il tuo consiglio
        e dietro a' piedi tuoi sempre vo' ire. —
 
 
        Ma, quando in aer su alzai il ciglio,
        vidi Venus, la quale una donzella
  120 mi mostrò lieta e Cupido suo figlio,
 
 
        non vista mai al mio parer sí bella;
        e cenno mi facían che su non gisse,
        ché fermamente mi darebbon quella.
 
 
        E parve che Cupido mi ferisse
  125 di piombo e d'oro; e con quelle due polse
        fece che allora non mi dipartisse.
 
 
        Quella del piombo il buon amor mi tolse,
        ch'avea d'Ilbina, e con quella dell'oro,
        oh lasso me! che a boschi anco mi volse.
 
 
  130 Per questo non seguii quel sacro coro;
        per questo lascia' io la compagnia,
        che mi menava all'alto concistoro.
 
 
        Risposi a Palla: – O dea, la possa mia
        non si confida e forse non può tanto
  135 che vinca i mostri e saglia sí gran via. —
 
 
        Cosí discesi di quel plaustro santo
        e giú nell'aspre selve ritornai
        intra le spine e punto d'ogni canto.
 
 
        Ratto ch'io giunsi, Venere trovai,
  140 che mi aspettava in una valle piana,
        sí bella quanto si mostrasse mai.
 
 
        Di mirto e rose e d'erba ambrosiana
        portava su la testa tre corone
        e faccia avea di dea e non umana.
 
 
  145 Ella mi disse: – Or di': per qual cagione
        volevi lasciar me e 'l mio figlio anco
        o per Minerva o per muse elicone?
 
 
        Se sí poco salendo fosti stanco,
        se tu fossi ito per quelle erte vie,
  150 saresti, andando insú, venuto manco.
 
 
        Ma, se verrai nelle contrade mie,
        le ninfe del mio regno al tuo desio
        saran condescendenti e preste e pie.
 
 
        E quella ninfa, ch'io e 'l figliuol mio
  155 t'abbiam mostrata, ancor te la prometto;
        e mezzo e guida a ciò ti sarò io.
 
 
        – O Citarea – diss'io, – a te soggetto
        sempre son stato ed anco al tuo Cupido,
        sperando aver da voi alcun diletto;
 
 
  160 onde per tue parole mi confido
        la bella ninfa aver, che mi mostrasti,
        e, ciò sperando, dietro a te mi guido
 
 
per questi lochi sí spinosi e guasti. —