Czytaj tylko na LitRes

Książki nie można pobrać jako pliku, ale można ją czytać w naszej aplikacji lub online na stronie.

Czytaj książkę: «Il Quadriregio», strona 12

Czcionka:

CAPITOLO XVI

Delle tre Furie infernali e delli tradimenti mondani.

 
        Nullo, se non Iddio, conosce il cuore,
        e vede ogni palese ed ogni occolto;
        ma l'uom pò iudicar sol quel di fòre.
 
 
        Però chi estima altrui secondo il volto
    5 ovver nell'apparenza che fuor vede,
        spesse volte gli avvien ch'egli erra molto.
 
 
        E per questo intervien ch'è poca fede
        e che gli antichi ed ognun ch'è ben saggio,
        si guarda piú, e meno ad altri crede.
 
 
   10 Io era ancor nel loco che detto aggio,
        ove sta Circe nella valle trista,
        che 'n bestia sa mutar l'uman visaggio.
 
 
        Lí era gente piú piacente in vista
        che nullo albergator nel proprio albergo
   15 o mala putta di losinghe artista.
 
 
        E mentre dietro a dea Minerva pergo,
        ella mi disse: – Fa' che qui ti guardi,
        e fa' che sempre tu mi venghi a tergo.
 
 
        Se tu per mezzo del mio scudo sguardi,
   20 tu vederai pel mio cristallin vetro
        i cor di tutti questi esser bugiardi. —
 
 
        Onde, sguardando ed a lei stando dietro,
        io vidi ciò ch'a me prima era oscuro;
        e forte mi fia a dirlo in questo metro.
 
 
   25 Per queste rime mie, lettor, ti giuro
        che alcun di quelli dentro era un serpente
        e nella vista fuor pareva uom puro.
 
 
        Ed alcun altro, quando posi mente,
        di fuor pareva pur un sant'Antonio
   30 e dentro un lupo rapace e mordente.
 
 
        Agnol di fòre, e dentro era un demonio
        alcun di quei, quando li vedea nudi:
        se dico il ver, Dio mi sia testimonio.
 
 
        – O sacra dea, che tanto ben mi scudi
   35 – diss'io a lei: – oh quanto tradimento!
        quanti Gani stan qui e quanti Iudi!
 
 
        Sí come ad Amasa giá prese il mento
        Ioab e disse a lui: – Salve, fratello! —
        mentre l'uccise con pena e tormento;
 
 
   40 cosí sotto al sembiante blando e bello
        molti di questi nascondon l'inganno,
        che portan dentro al cor malvagio e fello. —
 
 
        Ed ella a me: – Quando risurgeranno
        questi cotal dalla falsa apparenza,
   45 la vista, che han dentro, prenderanno;
 
 
        ché Dio ha dato lor questa sentenza,
        che forma umana da lor non si pigli,
        da che han mutata in bestia lor semenza.
 
 
        Or mira in alto ed alza su li cigli. —
   50 Ond'io li alzai e vidi le tre Furie
        col volto irato e cogli occhi vermigli.
 
 
        Figura avean di donna, a cui iniurie
        un'altra donna pel tolto marito,
        quando si turba che con lei lussurie.
 
 
   55 Col viso irato, crudele ed ardito
        strigneano i denti e strabuzzavan gli occhi
        inverso me, menacciando col dito.
 
 
        – Regina mia – diss'io, – or non adocchi
        che di paura io vengo tutto manco
   60 e tremanmi le gambe e li ginocchi? —
 
 
        Ed ella a me: – Sta' forte e col cor franco,
        e non temer niente i lor fragelli,
        mentre hai lo scudo mio e staimi a fianco.
 
 
        Quella che di scorzoni ha li capelli,
   65 Megera ha nome, crudeltá dell'ira:
        vedi c'ha tutti i peli a serpentelli.
 
 
        Aletto è l'altra, che 'n torton ti mira,
        che ha tanti serpi d'intorno alle tempie,
        e nasce di colei ch'al ben sospira.
 
 
   70 L'altra, c'ha le sembianze tanto scempie,
        è quella falsa crudeltá, che nacque
        del mostro che di cibo mai non s'empie.
 
 
        Ella gridò, ch'al mio parer gli spiacque
        ch'io dicessi: – Cosí venne Medusa
   75 per l'amor di colui che regge l'acque.
 
 
        Tesifone, costui a faccia chiusa
        vedrá il Gorgon: or t'è venuto in fallo
        che 'l faccia pietra, sí come e' far usa. —
 
 
        Per mezzo del mio scudo del cristallo
   80 vedrai quel mostro, ed io a viso nudo
        veder nol curo; ed ella il perché sallo. —
 
 
        Io stavo a prova ben dietro allo scudo,
        quando apparve Medusa, il crudel mostro,
        superbo, orrendo, dispettoso e crudo;
 
 
   85 e sopra quelli di quel tristo chiostro
        sol con lo sguardo un tal veneno asperse,
        ch'era piú ner che non fu mai inchiostro.
 
 
        Allor tutti pigliôn forme diverse
        dentro alla mente, e secondo le colpe
   90 cotal figure avean nel cor submerse.
 
 
        Alcun si fe' leon ed alcun volpe,
        alcun dimonio, alcun lupo rapace;
        ma tutti avían di fuore umane polpe.
 
 
        – O sacra dea, chi è colui che pace
   95 mostra nel volto e par soave e piano,
        e dentro al cor come un diavol giace? —
 
 
        Ed ella a me: – È Iacopo d'Appiano.
        Molti son qui de' traditor di Pisa;
        ma egli sopra tutti è il piú sovrano.
 
 
  100 'Nanti che fusse l'anima divisa
        dal corpo suo, tal era nel pensiero;
        però è trasmutato in questa guisa.
 
 
        Egli tradí il nobil messer Piero
        de' Gambacorti e fe' dei figli preda,
  105 mentre a lor si mostrava amico vero.
 
 
        E lasciò dopo lui l'avaro ereda
        colui che fe' la bella Pisa schiava
        e per dinar la die', che si posseda.
 
 
        E quel secondo, in cui tossico e bava
  110 sparse Medusa e venenolli il petto,
        e c'ha la mente dentro tanto prava,
 
 
        fu re di Cipri, chiamato Iacchetto.
        Al suo fratel maggior diede la morte,
        mentre a riposo giaceva nel letto,
 
 
  115 cioè al re Pietro magnanimo e forte,
        che 'n Alessandria giá mise la 'nsegna
        dentr'alla piazza e vinse le sue porte.
 
 
        Quel terzo, c'ha la faccia sí benegna
        e dentro è tutto quanto serpentino
  120 e c'ha la mente di venen sí pregna,
 
 
        fu Della Scala e fu crudel Mastino.
        Il suo fratel maggior uccise pria
        e poi fu del minor ancor Caino.
 
 
        Morto il primaio, ed ei sen fuggí via
  125 per la paura, ed allor di Verona
        l'altro fratel pigliò la signoria.
 
 
        Mandò pel fratricida e a lui perdona;
        e tanto amore inver' di lui accese,
        che la bacchetta signoril li dona.
 
 
  13 °Costui il donator ligato prese
        e stretto el fece mettere in prigione:
        cosí fu grato a chi fu a lui cortese.
 
 
        E poi 'n quell'ora ch'ognun si dispone
        in su l'estremo, e contrito e confesso
  135 si rende a Dio con gran divozione,
 
 
        costui mandò il dispiatato messo,
        e fe' mozzare al suo fratel la testa,
        e di vederla contentò se stesso.
 
 
        Or fu mai crudeltá maggior che questa?
  140 Non quella ch'a Tieste fece Atreo,
        quando i figli mangiar gli die' per festa;
 
 
        non quella di Nettunno e di Teseo;
        ch'ognun di questi, a chi ponesse cura,
        iniuria il fece cosí esser reo.
 
 
  145 Ma costui non offesa, non iniura,
        non la cagion, per che fu morto Remo,
        che pria bagnò di sangue l'alte mura.
 
 
        Ma sol si fece d'ogni piatá scemo,
        ché dopo lui 'l fratello non regnasse:
  150 per questo il fe' morir su nell'estremo.
 
 
        O doppio fratricida, se tu lasse
        la doppia prole, il tuo paterno esempio
        degno è ch'ancor da lor si seguitasse;
 
 
        ché l'uno uccise l'altro crudo ed empio,
  155 e della Scala fu l'ultima feccia,
        che sen fuggí del veronese tempio
 
 
dietro a colei che solo in fronte ha treccia.
 

CAPITOLO XVII

Come l'autore vede il tempio di Plutone.

 
        Continuando per la gran foresta
        io vidi il tempio di Pluton da cesso,
        presso ad un'acqua, che avea gran tempesta.
 
 
        E, quando giunto fui insino ad esso,
    5 vidi ch'era fundato in sulla rena
        di quel gran fiume, che li corre appresso.
 
 
        Io forte ammiraria che non sel mena
        quel gran torrente: tanto forte corre,
        quando tra' vento e quando egli è 'n gran piena,
 
 
   10 non fusse che quel tempio ha una torre,
        che su la pietra viva sta fundata:
        però quell'acqua non la pò via tôrre.
 
 
        Quando Minerva fu in sull'intrata,
        mi die' la mano; e, quando dentro fummo,
   15 ratto dal portinar fu domandata:
 
 
        – O voi ch'entrate qui, adorate il Nummo? —
        La dea rispose: – Certo adoro Deo;
        ché fuor di lui ogni altra cosa è fummo. —
 
 
        Similemente anche risposi eo,
   20 perché mi ricordai della risposta,
        che fe' san Paulo dentro al Coliseo.
 
 
        Io vidi su in una sede posta
        seder Plutone e poscia Radamanto,
        Minos ed Eaco star dall'altra costa.
 
 
   25 Ben mille poi sedíen dall'altro canto
        nel crudel tempio, formato al contrario
        a quel che fece Cristo umile e santo;
 
 
        ché in quel di Cristo il pover volontario
        era il piú ricco, ed umiltá fa grande,
   30 sí come apparve in Pietro, suo vicario.
 
 
        In questo, in cui avarizia si spande,
        quell'è maggior che piú aver possede,
        e quel si fa che regga e che comande.
 
 
        Iustizia, caritá e ferma fede
   35 fundâr quest'altro, e 'l sangue e dura morte,
        che die' 'l martirio dietro al primo erede.
 
 
        Però sta fermo ed anco è tanto forte,
        che nol vincon Satán e tutti i suoi,
        né posson contro lui l'infernal porte.
 
 
   40 In mezzo a quel collegio venne poi
        un mostro armato in forma tanto brutta,
        che, pur pensando, ancor par che mi nòi.
 
 
        La faccia umana avea di mala putta
        e tutto il busto in forma serpentina;
   45 ed ella d'oro era coperta tutta.
 
 
        Sotto suoi piè teneva una regina
        tanto formosa, che la sua beltade
        non parea cosa umana, ma divina.
 
 
        E colla coda armata di tre spade
   50 la percoteva tanto asperamente,
        che ogni gran crudel n'aría piatade.
 
 
        – Quel c'ha la faccia umana ed è serpente
        – disse Minerva, – della belva nacque,
        che diede ad Eva il cibo fraudulente. —
 
 
   55 Poi, rimirando, sí come a lei piacque,
        io vidi l'idol Nummo del talento,
        che stava presso alle tempestose acque.
 
 
        E credi a me, lettor, ché non ti mento,
        che da Pluto e da' suoi era onorato
   60 vieppiú che Dio assai per ognun cento.
 
 
        Plutone in prima a lui inginocchiato,
        poi tutti gli altri gli offersero un core,
        il don che al sommo Dio saría piú grato.
 
 
        E come Ignazio «Iesú Salvatore»,
   65 cosí tra quelli cori io vidi scritto
        «denar», «denar», «denar» dentro e di fuore.
 
 
        La vergine, a cu' il petto avea trafitto
        colla sua coda armata il mostro fello,
        menata fu all'idol quivi ritto.
 
 
   70 E come Pirro innanzi al tristo avello
        del padre Achille uccise Polisena,
        stando ella mansueta come agnello;
 
 
        cosí la fèra con dispregio e pena
        sacrificò la verginetta pura,
   75 spargendo quivi il sangue d'ogni vena.
 
 
        Ed ella intorno intorno ponea cura
        a' circumstanti per aver difese,
        e nullo la subvenne in tanta iniura.
 
 
        Un angel venne ed in braccio la prese,
   80 dicendo: – La donzella ch'è qui morta,
        è viva in ciel, onde prima discese. —
 
 
        E poscia verso la celeste porta
        con lei in braccio mosse il santo volo,
        come falcon che 'nsú la preda porta.
 
 
   85 Il mostro, che del drago fu figliuolo,
        inver' la gente, ch'era quivi, corse,
        blando leccando alcun come cagnolo.
 
 
        Ed alcun altro crudelmente morse
        prima col dente acuto e venenoso,
   90 poi con la coda, che come uncin torse.
 
 
        Nel tempio, a quel di Dio fatto a ritroso,
        Proserpina era reina infernale,
        adulterata spesso dal suo sposo;
 
 
        ché, non guardando chi, come, né quale,
   95 purch'al marito suo si dica: – Io pago, —
        la 'spone ad adulterio e ad ogni male.
 
 
        E presso al fiume su in un gran drago,
        che diece colli avea e diece teste,
        stava a seder coll'occhio putto e vago.
 
 
  100 Il vestimento suo, il qual ei veste,
        di purpura era, e teneva il piè manco
        dentro nell'acqua di sí gran tempeste.
 
 
        Poi in un cifo ben pulito e bianco
        vidi ch'e' bebbe sangue e inebriosse
  105 piú che briaco, ch'io vedesse unquanco.
 
 
        In questo il mostro inver' di noi si mosse;
        e diece teste mison sette corni;
        e fieramente l'un l'altro percosse.
 
 
        Quando será, o putta, che tu torni
  110 al primo stato, alla tua madre antica,
        nel prato, ove coglievi i fiori adorni?
 
 
        Tu giá vivesti nel mondo pudica,
        e Luna in cielo e ne' boschi Diana
        innanzi ch'a Pluton tu fussi amica,
 
 
  115 allora quando in ogni cosa vana
        davi del calcio, e quando eri tenuta
        come regina e non come puttana.
 
 
        Poscia che quella donna ebbi veduta,
        Minerva di quel tempio rio mi trasse
  120 per quella porta, ond'ella era venuta.
 
 
        E su per una via volle che andasse,
        ove demòni stavan con uncini,
        con reti e lacci, ch'alcun ve cascasse.
 
 
        – O dea – diss'io, – qual via vuoi che cammini?
  125 Or chi será colui, che quinci vada,
        che in alcun d'esti lacci non ruini? —
 
 
        Ed ella a me: – Per mezzo della strada
        chi va e non declina a nulla parte,
        securo va che ne' lacci non cada.
 
 
  130 E, perché qui bisogna senno e arte,
        il fren ti metterò; e, s'io ti meno,
        non temer mai che possi illaquearte. —
 
 
        Cosí dicendo, ella mi mise un freno;
        poscia mi mise nell'aspro viaggio,
  135 ch'era d'uncini e lacci e reti pieno.
 
 
        Quando io vi penso, ancor paura n'aggio
        di que' dimòni e di que' lacci tesi,
        ne' quai cade ciascun che non è saggio.
 
 
        Da ogni parte io vidi molti presi,
  140 fra' quai conobbi messer Gualterotto;
        e vennemi piatá quando lo 'ntesi.
 
 
        E' disse a me: – Perché da me fu rotto
        nel mondo ogni statuto e li decreti,
        però tra questi uncini io son condotto.
 
 
  145 Leggi iustiniane e que' de' preti
        non usa il mondo se non per guadagno:
        però lassú son fatte come reti.
 
 
        Come rompe il moscon la tela al ragno,
        e non la mosca, cosí gli uomin grandi
  150 straccian le leggi e danvi del calcagno. —
 
 
        Poi disse: – Or satisfa' a' miei domandi:
        dimmi s'è ver che li pisan sian schiavi,
        e de' Lanfranchi miei, mentre tu andi. —
 
 
        Ed io a lui: – Le signorie soavi
  155 non si conoscon mai dalli subietti,
        se non poscia ch'e' provan le piú gravi.
 
 
        Sappi ch'i tuoi pisan son sí costretti
        sotto quel giogo, che 'l dinar lor mise,
        che i Gambacorti sono or benedetti.
 
 
  160 Poscia che 'l traditor d'Appiano uccise
        messer Pier Gambacorti e i figlioli anchi
        a tradimento e piangendo ne rise
 
 
        ed uccise anche i primi de' Lanfranchi,
        egli vendette la cittá d'Alfea,
  165 sí che li tuoi pisani or non son franchi. —
 
 
        Tanto m'avea menato oltre la dea
        continuando per l'aspero calle,
        che, se piú detto avesse, io non l'odea.
 
 
        Quando noi fummo in una lunga valle,
  170 la dea Minerva allor mi trasse il camo,
        che m'avea posto in bocca e sulle spalle.
 
 
        E, quando un altro monte salivamo,
        vidi color che dietro son cavalli,
        e son dinanzi nepoti di Adamo,
 
 
175 avvolti di serpenti verdi e gialli.
 

CAPITOLO XVIII

Dove si tratta delli centauri.

 
        Quando giunsi nel monte suso ad alto,
        mirai la valle, maledetta chiostra,
        ove i centauri stanno a far l'assalto.
 
 
        Come soldati, quando fan la mostra,
    5 spronando lor cavalli, van gagliardi,
        o come cavalier che vanno a giostra;
 
 
        cosí i centauri lí con archi e dardi
        descorron per la valle a mille, a cento,
        veloci piú che tigri o leopardi.
 
 
   10 Palla scendea la costa a passo lento:
        e 'l sesto miglio avea a scender forse,
        quand'io ebbi timore e gran pavento;
 
 
        ché 'l maggior de' centauri sí s'accorse
        di noi che scendevamo, e presto e fiero
   15 con ben mille de' suoi, venendo, corse.
 
 
        Non si mosse corsier mai sí leggiero,
        né capriolo ovver corrente cervo,
        com'ei correva superbo ed altiero
 
 
        coll'arco teso in man. Ed in sul nervo
   20 egli avea giá una saetta posta;
        e, giunto, disse col parlar protervo:
 
 
        – Fermate i passi e fate la risposta:
        con qual licenza qui, con qual valore
        ardite voi di scendere la costa,
 
 
   25 senza licenza del nostro signore,
        che 'n mezzo il mondo siede triunfante,
        come re principale e imperadore?
 
 
        A te saettarei, che vien dinante,
        se non che allo scudo mi rassembre
   30 amica di Perseo ed al sembiante. —
 
 
        La dea rispose: – O animal bimembre,
        a cui ha dato forza il fiero Marte,
        e con cui 'l sol sta in mezzo di novembre,
 
 
        l'onor dell'arme è anco mio in parte.
   35 Io son Bellona, che costui scorgo,
        che do nelle battaglie ingegno ed arte.
 
 
        Veder lo puoi, se bene sguardi il Gorgo,
        ch'io porto nel mio scudo de cristallo,
        che per difesa innante al petto porgo. —
 
 
   4 °Chiron, che inseme è uomo e cavallo,
        udito questo, gli fe' reverenza,
        e féla far a ciascun suo vassallo.
 
 
        Allora io scesi giú senza temenza
        ivi fra loro; e, poi ch'io vi fui giunto,
   45 uomini vidi stare a gran sentenza;
 
 
        ché da' centauri a lor bevuto e smunto
        era lo sangue da tutte le vene,
        quanto ve n'era insin ch'era consunto.
 
 
        E, quando è vòto, che piú non ne viene,
   50 e' son compressi e messi allo strettoio,
        e trattogli ogni umor con guai e pene.
 
 
        Io vidi alcun solo aver l'ossa e 'l cuoio,
        e volergli esser anche il sangue tratto,
        gridando lui: – Oimè, oimè, ch'io muoio! —
 
 
   55 Tra lor iustizia ha posto questo patto:
        che poscia son lasciati insin che cresce
        in loro il sangue e l'umor sia rifatto,
 
 
        e poi ripresi, ed anco quanto n'esce
        lor tolto è 'l sangue, e, poiché son bevuti,
   60 restretti sonno e messi alle soppresce.
 
 
        Fra quegli spirti magri e desvenuti
        Minerva, andando, tanto mi condusse,
        che tra quei duoli pungenti ed acuti
 
 
        io trovai 'l Laberinto; e ch'ello fusse
   65 nol conoscea, se non ch'io vidi dentro
        quel che del toro Pasife produsse.
 
 
        Egli mugghiava fortemente, e, mentro
        stav'io a vederlo e ad udir i lamenti,
        che l'anime facean nel cieco centro,
 
 
   70 venían tre alme a quelli gran tormenti
        belle e membrute, pien di sangue e grasse,
        ma nella vista angosciose e dolenti.
 
 
        Come leon, che allegro e crudo fasse,
        vista la preda, e mostra maggior ira,
   75 non altramente Nesso inver' lor trasse,
 
 
        il quale amò la bella Deianira.
        Trasse il centauro che nutrí Achille,
        e come sanguesuga il sangue tira.
 
 
        Trasse Medon ed Imbro e piú di mille;
   80 ed ognun le succhiava quanto puote,
        come cagnol che succhia le mammille.
 
 
        Poscia che l'alme fûn del sangue vòte,
        divennon magre, ed ognuna si fece
        qual è la fame indosso e nelle gote.
 
 
   85 Diss'io: – O spirti, se parlar vi lece,
        chi foste e perché sète sí destrutti?
        per qual iustizia o colpa o in qual vece?
 
 
        – Capitan di campagna fummo tutti
        – rispose l'uno, – e qui per un cammino
   90 venuti a queste pene e a questi lutti.
 
 
        Ed io, che parlo a te, sono Ambrosino,
        figliuol di Barnabò, del gran lombardo,
        e sol qui tra costor io fui latino.
 
 
        L'altro, ch'è qui, è Annichin Mongardo;
   95 fra Moriale è 'l terzo; e questa asprezza
        abbiam, ch'ognun fu crudo e fu bugiardo.
 
 
        E molt'erra chi crede aver fermezza
        fede d'uom d'arme ovver di meretrice,
        da che 'l denaio a suo piacer la spezza.
 
 
  100 Se ben attendi al mio parlar che dice,
        vedrai ch'amor e fede mal si fonda,
        quando l'utilitate ha per radice.
 
 
        Perché alla colpa la pena risponda,
        noi siam succhiati, che smongemmo altrui,
  105 quando noi fummo in la vita gioconda.
 
 
        Se tra li vivi perverrete vui,
        dite a color che vanno a saccomanno,
        che faccian sí ch'e' non vengan fra nui.
 
 
        Dite a Ioanni Aguto il nostro affanno,
  110 a Ioan d'Azzo, agli altri compagnoni,
        che per centauri su nel mondo stanno,
 
 
        che la lor crudeltá li fa pregioni,
        ed e' si fan la corda che li mena,
        ove stan questi del sangue ghiottoni. —
 
 
  115 Ed io a lui: – Ai miseri c'han pena,
        avervi compagnia, o n'han diletto,
        o veramente alquanto il duol raffrena.
 
 
        Però mi di' perché hai tu suspetto
        che alcun non venga qui in questa soglia,
  120 ché non intendo ben perché l'hai detto. —
 
 
        Ed egli a me: – Non per ben ch'io lor voglia,
        ma come su in ciel di piú consorti
        è piú letizia, qui è maggior doglia. —
 
 
        Poi, perché funno allo strettoio attorti,
  125 per quella afflizion piú non mi disse;
        onde n'andammo tra' centauri forti.
 
 
        E poco er'ita Palla, che s'affisse;
        e trovammo un gran mostro, in cui coloro
        curson cogli archi, e ciascuno el trafisse.
 
 
  130 Sí come fa il leon che prende il toro,
        che 'l morde e per la fretta nol manduca,
        ma succhia il sangue dove ha fatto il foro,
 
 
        ovver come fa l'orso, quando suca
        il favo mèl; cosí facean ad asto,
  135 succhiando il sangue a quel per ogni buca.
 
 
        – Diomede son io, che son sí guasto —
        – diss'egli a me, – che giá gli uomini vivi
        diedi a' cavalli miei per biada e pasto.
 
 
        Se tu nel tuo emispero mai arrivi,
  140 prego che di lassú da te si dica
        (ed a chi nol puoi dir, fa' che lo scrivi)
 
 
        che chi degli altru' affanni ovver fatica
        pasce cavalli o altra cosa vana,
        e chi, robbando, sua vita nutríca,
 
 
  145 sará menato in questa valle strana,
        ove stan questi del sangue assetiti
        vieppiú che 'l cervio alla viva fontana. —
 
 
        Poscia che avemmo i suoi sermoni uditi,
        Minerva verso un monte la via prese,
  150 nel qual senz'ali mai saremmo iti;
 
 
        ch'avea le ripe sue tanto distese,
        che, secondo che disse la mia scorta,
        nullo mai vi salí ovver descese.
 
 
        Vero è che giú ai piè era una porta,
  155 la quale aveva scritto su l'usciale
        queste parole in una pietra smorta:
 
 
        «Chi vuol montare insú, di qui si sale;
        e suso sta in una gran pianura
        il gran Satán altiero e triunfale».
 
 
Allora intrammo quella porta scura.