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Czytaj książkę: «Il Quadriregio», strona 11

Czcionka:

CAPITOLO XIII

Come l'autore vede la Fortuna.

 
        Per l'aspero cammin di quella valle
        eravamo iti, al mio parer, un miglio,
        lasciando il van timor dietro alle spalle,
 
 
        quando per veder meglio alzai lo ciglio
    5 e dalla lunga la Fortuna io vide
        mirabil sí, ch'ancor me 'n maraviglio.
 
 
        Minerva a me: – Se ti losinga o ride,
        e s'ella mostra a te il viso giocondo,
        fa' ch'allor ben ti guardi e non ti fide.
 
 
   10 Quella è che molti inganna in questo mondo
        col rider suo e spesso alcun inalza
        per abbassarlo e farlo ire al fondo.
 
 
        Guarda la faccia sua quant'ella è falza
        e che di chiara in torba la trasmuta,
   15 quando da alto alcuno in terra sbalza. —
 
 
        Quando da presso poi l'ebbi veduta,
        conobbi quant'è grande quella donna,
        quant'è sinistra e quanto alcuno adiuta.
 
 
        Era maggior che non fu mai colonna,
   20 e sol dinanti avea capelli in testa,
        e d'oro fin dinanti avea la gonna.
 
 
        Ma dietro calva, e dietro avea la vesta
        tutta stracciata, ed era di quel panno,
        che vedoa porta in dosso, quando è mesta.
 
 
   25 Ghignando con un riso pien d'inganno,
        volgea con una man sette gran rote,
        che come spere in questo mondo stanno.
 
 
        La quarta er'alta insino onde percote
        con le saette Iove, ove il vapore,
   30 dal gel costretto, da sé l'acqua scuote.
 
 
        La terza d'ogni lato era minore,
        e le seconde poi minor che quelle;
        e minime eran poi quelle di fuore.
 
 
        Nella metá le ruote paralelle,
   35 dico nella metá, ch'alla 'nsú monta,
        erano orate e preziose e belle.
 
 
        Ma l'altra parte, quando su è gionta,
        giú vien calando a quella donna dietro;
        quanto piú cala, piú del mal s'impronta
 
 
   40 e fassi oscura; e da quel lato tetro
        descender vidi molti a capo basso
        con gran lamento e doloroso metro.
 
 
        Poiché caduti son con gran fracasso,
        ogni amico li fugge e li dispregia:
   45 chi li sospinge e chi lor dá del sasso.
 
 
        Ma alli salenti dalla parte egregia
        ognun si mostra amico ne' sembianti:
        chi li losinga e chi di loda 'i fregia.
 
 
        Come da due nel carro triunfanti
   50 mescolato era il dolce con l'amaro,
        usando inver' di lor contrari canti,
 
 
        cosí su ad alto e giuso due cantâro
        nel colmo delle rote e due di sotto,
        un d'allegrezza e l'altro del contraro.
 
 
   55 La dea Minerva giá m'avea condotto
        sino alla donna, che voltava il giro:
        allor parlò, che pria non facea motto.
 
 
        E disse: – Io, che a basso e ad alto tiro
        le sette rote, son la dea Fortuna
   60 e solo a quei dinanti lieta miro.
 
 
        Nullo su ad alto aggia fermezza alcuna
        in me di securtá ovver fidanza,
        ch'io mostro faccia chiara, e quando bruna.
 
 
        E nullo a basso perda la speranza
   65 tutta di me, ché spesso io son la scala
        di poner in ricchezza e gran possanza.
 
 
        Ma vegga ben ognun, anzi ch'e' sala,
        che non si lagni poi, né faccia grido,
        se 'l mando a quella parte che 'ngiú cala;
 
 
   70 ché, quando si lamenta, ed io mi rido;
        e se me chiama cruda, ed io lui pazzo,
        che 'n tanta sicurtá faceva il nido.
 
 
        E questo è 'l gioco mio e 'l mio solazzo,
        atterrar quel dalla parte suprema,
   75 ed esaltare un vestito di lazzo.
 
 
        Se falsa alcun mi chiama e mi biastema,
        io non me 'n curo, e lamentevol voce
        dell'allegrezze mie niente scema. —
 
 
        Io riguardai la rota piú veloce,
   80 di cui il cerchio quasi terra tocca;
        e lí stava uno a gran tormento e croce.
 
 
        E quando sotto va l'anima sciocca,
        tra 'l duro suolo e la rota s'accoglie,
        e gli strascina il ventre giú e la bocca.
 
 
   85 – Colui che su e giú ha tante doglie,
        è Ission ed ha tal penitenza,
        ché volle a Iove giá toglier la moglie;
 
 
        ché la sposa di Dio sua Provvidenza
        procacciò di veder col suo intelletto,
   90 sí come vano colla sua scienza.
 
 
        Saper si puote bene alcuno effetto,
        quand'è futuro, nella sua cagione,
        come puoi nella Fisica aver letto.
 
 
        Ma quel che vuol Fortuna e Dio dispone,
   95 se Dio non lo rivela, mai si vede
        da intelletto creato o per ragione.
 
 
        Or mira quel che su nel colmo siede
        del terzo cerchio e piú salir non pò,
        che cosí ride e securo esser crede.
 
 
  100 Quegli è il milanese Barnabò;
        ma tosto mostrerá Fortuna il gioco,
        com'ella sòle e s'apparecchia mò.
 
 
        L'altro, che sale dietro a lui un poco,
        è suo nipote, il qual del reggimento
  105 il caccerá e sederá in suo loco.
 
 
        E quanto ad una cifra cresce il cento,
        cotanto accrescerá il biscion lombardo
        e di Toscana fie in parte contento;
 
 
        se non che 'l giglio roscio, c'ha lo sguardo
  110 sempre a sua libertá, contro lui opposto
        fará che 'l suo pensier verrá bugiardo.
 
 
        Nella seconda rota in cima è posto
        Cola Renzo tribuno, ed è salito
        nel colmo, ond'altra volta fu deposto.
 
 
  115 Ma stato è troppo folle e troppo ardito,
        c'ha presa la milizia su nel sangue
        de' principi roman tanto gradito,
 
 
        per che Colonna ed altri ancor ne langue;
        ma tosto Roma a lui trarrá il veleno,
  120 c'ha nella lingua il malizioso angue.
 
 
        Nel primo cerchio, che si volge meno,
        stanno li duci che si mutan spesso:
        però da ogni parte n'è sí pieno.
 
 
        E quel, che sale al sommo ed è sí presso,
  125 tre volte a quella ruota gira intorno,
        e su e giú tre volte será messo.
 
 
        Egli è chiamato Antoniotto Adorno:
        Genova bella, nella quale è nato,
        metterá ne' malanni e nel mal giorno.
 
 
  130 Nel quinto cerchio lá dall'altro lato
        regina sta magnifica Ioanna
        col capo di Sicilia incoronato.
 
 
        Ma la Fortuna, che ridendo inganna,
        mostrerá a lei ed a quel che sal poi,
  135 che chi in lei fida, sta in baston di canna.
 
 
        Del sesto cerchio se tu saper vuoi,
        lí sonno posti i novelli Caini,
        consumatori de' fratelli suoi,
 
 
        quei Della Scala spiatati Mastini
  140 e piú crudeli che rabbioso cane;
        ma tosto abbasso calaranno chini.
 
 
        Dall'altra rota, che di lí rimane,
        Ioanni dell'Agnello fará il salto,
        mutando il fasto e le sembianze vane.
 
 
  145 E proverá quant'è duro lo smalto
        del suol di Lucca, quando la percossa
        egli averá, cadendo su da alto.
 
 
        Romperagli quel caso l'anche e l'ossa;
        ed in un punto le terre, ch'egli ha,
  150 e Pisa del suo iugo sará scossa;
 
 
ed ei saprá s'è duro: e ben gli sta.
 

CAPITOLO XIV

Dove trattasi della pena, che dá l'Amore, quando ha il vero fondamento.

 
        Poscia salendo un monte ruinoso,
        noi ci partimmo ed, in un pian saliti,
        trovammo altro martír molto penoso.
 
 
        Uomin vedemmo insieme molto uniti,
    5 come di molti corpi un si facesse;
        ma i volti eran distinti e dispartiti.
 
 
        Pensa, lettore, un mostro che avesse
        un grande busto, e, bench'egli foss'uno,
        un collo molti capi contenesse.
 
 
   10 Vero è che lor color o bianco o bruno
        e lor gionture e lor lineamenti
        aperti si parean in ciascheduno.
 
 
        Lí stan dimoni e con spade taglienti
        dividon quelli, e, quando alcun si parte,
   15 li capi piangon tutti e son dolenti.
 
 
        Non credo che spargesse giammai Marte
        cotanto sangue; né fo mai battaglia
        di tai ferite, né si legge in carte.
 
 
        Non vale qui lo scudo ovver la maglia;
   20 ché la iustizia dá le gran percosse,
        ed ei fatt'han le spade, che li taglia.
 
 
        Vidi un dimonio, che irato si mosse
        ed un recise intorno in ogni canto,
        sí ch'e' rimase come un fusto fosse.
 
 
   25 Un capo sol rimase e con gran pianto
        a me si volse e disse: – O tu, che mena
        seco Minerva, a me risguarda alquanto.
 
 
        Vedi l'amor quanto a noi torna in pena
        E tanto affliggon piú le parentele,
   30 quanto pria strinson con maggior catena.
 
 
        Ahi, quanto a' vivi torna amaro il mèle
        del dolce amor de' figli e de' congiunti,
        quando gli uccide la morte crudele!
 
 
        Diece figliuoli in salda etade giunti,
   35 nove nepoti ebb'io ed un fratello,
        e poi li vidi in un mese defunti.
 
 
        Com'io, che 'n questo inferno ti favello,
        intorno intorno son cosí tagliato
        e, perché troppo amai, ho tal flagello;
 
 
   40 cosí interviene all'uom, quando l'amato
        figlio o fratel gli è tolto, e piú tormenta,
        quanto piú forte è coniunto e legato.
 
 
        La casa, onde fui io, è tutta spenta;
        fui da Perugia, di santo Ercolano,
   45 e de' Vencioli la prima somenta. —
 
 
        Per la piatá ingavicchiai la mano,
        e volea dar risposta a sue parole;
        ma e' sparío sí come un corpo vano.
 
 
        Ond'io dissi alla dea: – Se tanto duole
   50 la cosa amata, quand'altrui si toglie,
        ben è stolto colui ch'ama e ben vuole.
 
 
        Se non voglio d'amor sentir le doglie,
        non posso avere al cor migliore scudo,
        se non che d'ogni amore mi dispoglie.
 
 
   55 E, se questo facessi, saría crudo;
        ché, se non amo le persone note,
        sarei di caritá e di piatá nudo.
 
 
        Né anco il posso far, ché mal si pote
        ben rifrenar a che natura inclina:
   60 tanto a quel corso son le cose mote.
 
 
        – Tra tutte l'altre cose la piú fina
        – disse Minerva a me – è 'l dolce amore,
        se dal ver fundamento non declina.
 
 
        Ma, se nel fundamento sta l'errore,
   65 quanto piú l'edifizio cresce o sale,
        tanto fa piú ruina e duol maggiore.
 
 
        Fundamento è che quanto alcun ben vale,
        tanto si stimi e tanto amore accenda,
        quant'egli ha di bontá e men di male.
 
 
   70 E, s'egli è ben che d'altro ben dependa,
        non s'ami quasi per sé esistente,
        se vuoi che, quando è tolto, non t'offenda.
 
 
        Fundamento è che quel, ch'è dipendente,
        non s'ami come fermo e per sé stante,
   75 ch'ei da se sol non ha essere niente;
 
 
        ché 'l Creator le cose tutte quante
        fe' di niente, e, s'egli le lassasse,
        niente tornerian come che innante.
 
 
        Adunque come il servo, che estimasse
   80 essere sue le cose del signorso
        e come proprie sue cosí le amasse,
 
 
        se poi gli fusson tolte, saría morso
        di gran dolore ed avería li duoli
        per quell'error, nel qual è in prima corso;
 
 
   85 cosí fanno li padri de' figliuoli,
        e de' coniunti li mondani stolti,
        che gli estimano stanti e per se soli.
 
 
        E 'l giusto Iobbe de' figliuoli adolti,
        quando fûr morti, fe' questa risposta:
   90 – Dio me gli diede e Dio me gli ha ritolti. —
 
 
        Tu mi dicesti nella tua proposta:
        – A nullo, amando, voglio avere affetto,
        dacché, perduto, tanto amaro costa. —
 
 
        Io dico ch'abbi amor, ma sia perfetto
   95 e temperato sí, che, se 'l divide
        o Dio od altro, non t'affligga il petto. —
 
 
        Ed io a lei: – Maestra, che mi guide,
        dimostra a me ancora un altro vero,
        ch'è sí oscur, che mai mia mente il vide.
 
 
  100 Tu di' che volontá ha 'l summo impero
        di nostra barca e che regge il timone
        di tutti i sensi e 'l carnal desidèro.
 
 
        S'egli è cosí, or dimmi qual cagione
        piú volte vince questa volontade,
  105 che non pò far quel che vuol la ragione,
 
 
        che par contrario alla sua nobiltade,
        poiché libero arbitrio gli è concesso,
        sí che 'l sí e 'l no sia in sua libertade.
 
 
        Io so d'alcun c'ha 'l piede in amor messo
  110 e non ha forza a poterlo ritrare:
        tanto Amor puote e vince per eccesso.
 
 
        Ben so che ogni cosa debbo amare
        in quanto è buona, e solo in Dio è buona;
        e, benché 'l sappia, io non lo posso fare. —
 
 
  115 Ed ella a me: – Vostra natura è prona
        agl'impeti de' sensi, e, se v'indura
        per molta usanza e troppo s'abbandona,
 
 
        allora l'uso converte natura,
        sí che ragion non può guidare il freno
  120 del desiderio bene a dirittura.
 
 
        Di diecemila uno ed ancor meno
        si trova, che co' sensi non s'accorde
        in tutto o in parte col voler terreno.
 
 
        L'amor vi può legar con quattro corde:
  125 la prima è di Cupido la gran fiamma,
        l'altra è di cupidigia e voglie ingorde,
 
 
        poi de coniunti, figli, padre e mamma,
        e 'l quarto amor d'amici ed è sí poco,
        quanto rispetto a mille è una dramma.
 
 
  130 Or sappi di Cupido che 'l gran foco
        e l'amor de' coniunti tanto lega
        e l'amor della borsa e d'ampio loco,
 
 
        ch'è molto forte che ragion il rega,
        se gran virtú non rompe il gran legame,
  135 che tanto forte inver' l'amato piega.
 
 
        E, benché Dio ne dica ch'ognun l'ame,
        ciascuna d'este fun sí forte tiene,
        ch'a lui non lascia ir, benché vi chiame.
 
 
        E perciò nel Vangelio si contiene
  140 che amiate Dio col core e colla forza,
        sí come il primo e piú sovrano bene.
 
 
        E, se avvien ch'altro amore vi torza,
        rompete quella fun, ch'altrove tira
        colla vertú, che giammai non s'ammorza.
 
 
  145 Siate come Sanson, commosso ad ira,
        quando li fe' la moglie il grave laccio,
        cioè l'amor carnal, a chi ben mira.
 
 
        E cosí, Dio amando senza impaccio,
        colla virtú che sta nelli capelli
  150 e non sta nella carne ovver nel braccio,
 
 
d'amor carnal non si senton fragelli. —
 

CAPITOLO XV

Come l'autore riconosce la cittá di Dite in questo mondo, e quindi trova Circe, la quale trasmuta gli uomini.

 
        Nel terzo regno su per quella piaggia
        noi devenimmo, ed, alzando le ciglia,
        sí come piacque alla mia scorta saggia,
 
 
        vidi di Dite la cittá vermiglia,
    5 di mille miglia intorno, ed in figura
        a Dite dell'inferno s'assomiglia.
 
 
        Di ferro ardente avea le grandi mura,
        a ogni cento piè avea una torre,
        con guardian, che mi facea paura.
 
 
   10 Attorno delle mura un fiume corre,
        ardente piú che non è il fuso rame,
        quando in campana per canal trascorre.
 
 
        Bolliva piú assai che 'l Bollicame,
        e, perché ferve, però Flegetonte
   15 il suo vocabol convien che si chiame.
 
 
        Dalla ripa alla porta era per ponte
        attraversato e steso un sottil filo,
        pel qual chi in Dite va, convien che monte.
 
 
        Non fe' sí sottil riga giammai stilo,
   20 né filò sí sottil giammai aragna,
        com'è la via che mena in quell'asilo.
 
 
        Su per quel fil sottil la mia compagna
        prima si mosse, e, poiché un passo diede,
        disse che andassi dietro a sue calcagna.
 
 
   25 Io non andai, ma tenni fermo il piede,
        dicendo a lei: – Non verrò, perché temo,
        ché non son io legger quanto tu crede. —
 
 
        Cosí, standomi fermo su l'estremo
        di quella ripa, dicea: – Non verraggio,
   30 se noi per altra via non anderemo. —
 
 
        Palla, per rifrancare a me il coraggio,
        tre volte lá e qua 'l filo trascorse,
        come colui ch'assecura il viaggio.
 
 
        E, poiché la sua man alla mia porse,
   35 resposi: – Io vegno, da che piú ti piace;
        ma forte temo e del cader so' in forse. —
 
 
        Su per lo fil piú sottil che bambace
        io passai Flegetonte e sua mal'onda,
        ch'ardea di sotto piú che una fornace.
 
 
   40 Quando giunse Minerva all'altra sponda,
        ella chiamò come chi chiama forte
        un che sia lunge e vòl che gli risponda.
 
 
        E disse: – Aprite a noi queste gran porte,
        ché siam discesi nel maligno piano
   45 per veder Pluto, il tempio e la sua corte. —
 
 
        Risposto fu: – Il vostro passo è vano:
        nullo entrar puote, s'e' non porta seco
        o presente o denar nella sua mano. —
 
 
        La dea subiunse: – Me' che denar reco:
   50 però apri a noi tosto, o portinaio,
        a me ed a costui, il qual è meco. —
 
 
        Mamon, che tra coloro era il primaio,
        la gran porta di Dite in fretta aperse,
        ratto ch'udí nominar il denaio.
 
 
   55 Ma, quando vide poi che nulla offerse,
        con grande sdegno ne guardò in tortoni,
        e poscia irato este parol proferse:
 
 
        – Or dimmi dove son questi gran doni,
        che di' ch'arrechi, o donna, e ch'a noi porti,
   60 che piú che li denar di' che son buoni.
 
 
        Ma entrasi cosí nelle gran corti?
        Uscite fuora e ritornate addietro
        tu e costui, a cui ha' i passi scorti.
 
 
        – Da tal Signor il mio andar impetro
   65 – disse Minerva, – ch'io non ho temenza,
        quantunque mostri a noi il volto tetro.
 
 
        E 'l don, che reco meco, è la scienza,
        che non si perde mai quand'io la insegno:
        però piú che null'oro è di eccellenza.
 
 
   70 Palla son io, che a questo loco vegno,
        e son dell'arme, d'arti e di scolari
        prima maestra e forma d'ogni ingegno. —
 
 
        Mamon rispose: – Chiunque vuol, impari,
        ché la scienza qui non è di pregio,
   75 e nulla vale a rispetto ai denari.
 
 
        Ma, se veder volete il gran collegio
        del nostro Pluto, andate alla man destra,
        e 'l mio consiglio non abbiate a spregio. —
 
 
        Minerva a lui: – Ognun male ammaestra,
   80 se pria no' impara; e mal guida saría
        chiunque non sa il cammin, pel quale addestra. —
 
 
        Cosí dicendo, non prese la via,
        ch'egli avea detto, ma salí s'un'erta,
        che ben due miglia d'un monte pendía.
 
 
   85 Nell'altra valle selvaggia e deserta
        Circe trovai, la maladetta maga,
        che fa che l'uomo in bestia si converta.
 
 
        Con gli occhi putti e con la faccia vaga
        losinga altrui e con ridente grifo,
   90 acciò che l'alme a sue malíe attraga.
 
 
        Nella sinistra man tenea un cifo,
        il qual empiè di sí brutto veneno,
        che ancor, pensando, me ne viene schifo.
 
 
        Io vidi un uomo, a cui lo porse pieno,
   95 diavolo farsi, quand'ella gliel diede,
        a membro a membro e l'uman venir meno.
 
 
        In piè di cigno in prima mutò il piede
        e poi le gambe, e poi d'un babbuino
        mise la coda e 'l membro ove si siede.
 
 
  100 Il ventre fe' squamoso e serpentino,
        e negro il petto piú che gelso mézzo,
        le man pelose e l'ugne quasi uncino.
 
 
        Mentre si trasmutava a pezzo a pezzo,
        mise due ali assai piú ner che corvo;
  105 cornuto il capo e 'l viso fe' d'un ghezzo.
 
 
        La bocca fe' d'un porco, il naso córvo:
        cosí dimon si fece a poco a poco
        cogli occhi rosci e collo sguardo torvo.
 
 
        Per tutti i nove fòr gittava foco;
  110 ma nella bocca egli era acceso piue
        che una fiamma, in che soffiasse coco.
 
 
        Mentr'i' ammirava, ancor ne vidi due
        del maladetto cifo abbeverarne;
        e l'un diventò lupo, e l'altro bue.
 
 
  115 Io vidi molti poscia trasmutarne
        in cani e volpi ed in leoni ed orsi,
        e draghi farsi dall'umana carne.
 
 
        Per tutti i lochi, ch'io avea trascorsi,
        non stetti cosa a veder tanto vaga
  120 quanto che questa, quand'io me n'accorsi.
 
 
        – Ahi, gente fatta alla divina imago
        – disse Minerva, – perché 'n te trasmuti
        la bella effigie in lupo ovver in drago?
 
 
        Perché visson giá questi come bruti,
  125 a lor Iustizia questa pena rende,
        che li sembianti umani abbian perduti;
 
 
        ché non è uom, se 'l vizio tanto apprende,
        che non conosce il male e non ha pena
        e non vergogna e téma, quando offende;
 
 
  130 ché Dio ha posta in voi luce serena,
        che fa che il mal da prima si conosca,
        e vergogna e timor dá, che 'l raffrena.
 
 
        Ma, quando alcun tanto il peccato attosca,
        che non vergogna e che non ha timore,
  135 segno è che quella luce in lui è fosca.
 
 
        E questo mena poi in piú errore,
        ch'e' piace a se medesmo quando pecca,
        e del mal suo s'allegra e dell'angore.
 
 
        Ogni bontá umana allor è secca,
  140 che loda il vizio per virtude vera,
        e piacegli chi uccide, robba e mecca.
 
 
        E, se in tal vizio indura e persevèra,
        allora 'n lui 'l peccar si fa necesse,
        e di emendarsi al tutto si dispera.
 
 
  145 Sappi anco che non toglie l'uman esse
        il male, al qual fragilitá conduce,
        né da ignoranza le colpe commesse;
 
 
        ché tutta non oscuran quella luce,
        che Dio ha posto in voi, della ragione,
  150 che téma, duolo e vergogna produce.
 
 
        Quel che vedesti, che si fe' demòne
        e fe' l'aspetto tanto brutto e rio,
        fu spoletino e detto Servagnone:
 
 
        ladro, assassin, biastimator di Dio
  155 e dispettoso d'ogni cosa bona
        e nemico ad ogni atto onesto e pio.
 
 
        L'altro s'assomigliò a Licaona,
        il terzo al mostro posto nel Labrinto,
        che uomo e toro fu 'n una persona.
 
 
  160 Né l'un né l'altro ben era distinto:
        or puoi saper di lor qual fu il peccato,
        che 'n lor l'aspetto umano ha tutto estinto,
 
 
e perché 'n bestia ciascuno è mutato. —