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Due amori

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DUE AMORI
RACCONTO DI SALVATORE FARINA
VOLUME I

ALL'AUTORE

Voi mi chiedeste alcuni anni or sono il permesso di far pubblica per le stampe, in forma di romanzo, la narrazione che io vi ho fatto al focolare della vostra casa natale. Un riguardo ad una persona vivente, mi ha obbligato a rispondervi negativamente.

Quella persona è spirata un mese fa tra le mie braccia, dopo quaranta anni che era morta alla speranza ed all'amore.

Sento che i momenti che rimangono a me non saranno molti, nè amari.

Voi, giovine e vigoroso, rammentando talvolta il vostro vecchio amico, serbate gelosamente il consiglio che vi dà la vecchiezza: amate e benedite.

GIORGIO.

I

Ritorno col pensiero ad un tempo molto lontano, io non aveva compiuto ancora i tredici anni, e le camerate del collegio di B** m'avevano accolto da pochi giorni in mezzo ad una nidiata di vispi fanciulletti. Ve n'erano di grandicelli, ma la più parte erano più piccini di me; così che nel primo giorno che io vi era entrato, la mia comparsa era stata causa di molte gare fra i miei nuovi compagni. E l'uno cercava guadagnarsi la mia amicizia facendo pompa del suo coraggio, e l'altro coll'astuzia delle sue gherminelle. Solo i più maturi se ne stavano ritrosi, temendo in me un rivale pericoloso.

Il collegio è un'immagine viva della società-volgo di plaudenti e d'ammiratori da un lato; e un branco di autocrati, sempre rissosi fra di loro, che si contendono le bricciole dell'adulazione. Se non che là dove nella vita delle grandi città veggiamo l'astuzia e la fortuna in trionfo, e la povertà e la virtù divorare nel segreto le loro lagrime, nei collegi invece si bada agli anni. Così la gerarchia è stabilita sulle sicure basi dell'eguaglianza; però che ognuno sa che alla sua volta sarà anch'egli il despota, e che non gli sarà frodata la sua parte di regno.

E so d'aver provato più volte io stesso questo sentimento di compiacenza, e d'essermi domandato più tardi senza frutto la ragione di quell'intenso desiderio di crescere che ci fa precorrere nei primi anni la tribolata carriera della vita.

Fu in quel luogo che io conobbi Raimondo.

Da principio la sua mestizia, e l'abituale suo starsene solo e taciturno erami sembrato indizio d'alterigia; e poi che io non voleva essere il primo ad accostarmi a lui, sebbene una irresistibile attrazione mi spingesse a farlo, stetti gran tempo senza rivolgergli la parola. Ma in segreto io mi struggeva di diventargli amico, e cercava ogni modo per essergli vicino, per vederlo, per essere da lui veduto.

Il suo contegno aveagli procurato molti odii-a quell'età si odia, si sa odiare-però i più robusti dei suoi compagni lo temevano, non ch'egli fosse dotato di maggior forza, ma per quella natura ferma ed impassibile che faceva paurosi i più gagliardi.

Avevamo nella nostra camerata una specie di sorvegliante, un pretocolo sui 28 anni, il quale aveva preso a trattare bruscamente Raimondo; nè mai avvenne che questi se ne lamentasse. A poco a poco anche Don Giuseppe (così veniva chiamato il sorvegliante) avea subito il predominio della energica fermezza di Raimondo; e se ne inviperiva ogni dì più; così colla stizza crescevano i rimbrotti, le querele e le punizioni. Raimondo soffriva senza fiatare.

Nessuno di noi amava certamente Don Giuseppe; ma a me venne in tanta ripugnanza, che la sua voce mi faceva male. Cercai da principio di dissimulare; ma non andò guari che egli se n'accorse, e prese a vendicarsene. In breve Raimondo ed io fummo accomunati nelle persecuzioni; questo vincolo dovea stringere la nostra amicizia.

Don Giuseppe era ghiotto dei zuccherini. Un giorno un grosso cartoccio ch'egli nascondeva in un antico forziere che era nella camerata, cadde nelle mani dei nostri compagni. I zuccherini furono spartiti e divorati in un istante. Non s'avea ancora avuto tempo di far sparire l'involto di carta azzurra che li conteneva, che Don Giuseppe capitò fra noi, e dal turbamento cagionato dalla sua presenza e dalla vista della carta azzurra fu avvertito della nostra colpa. Aprì il forziere e conobbe la verità dei suoi sospetti.

Parve per un momento furibondo, e ci aspettavamo che si scagliasse contro di noi; ma con nostra sorpresa lo vedemmo allontanarsi senza dir motto. Nessuno seppe immaginare che cosa si passasse in quell'anima rabbiosa, ma io non andava errato pensando che Raimondo ed io avremmo scontato la pena per tutti.

Venne il mattino successivo. Don Giuseppe chiamò a sè Raimondo. Egli vi andò coll'abituale sua calma; poco stante fui chiamato anch'io, e vi andai trepidante, ma pur deciso a non tradire la mia debolezza.

Raimondo era in un canto col capo chino, e mi guardava con curiosità. Don Giuseppe era seduto; mi fece accostare a lui e m'interrogò in tuono burbero s'io sapessi chi per il primo avesse frugato nel forziere della camerata; minacciavami il digiuno e la chiusura se non lo palesassi.

Compresi che la stessa domanda era stata fatta a Raimondo, e involontariamente mi rivolsi a lui. Incontrai i suoi sguardi fissi nei miei, e parvemi di scorgervi il timore che io avrei palesato per sfuggire al castigo. Ma ciò non era nel mio cuore, e se pure vi fosse stato, quello sguardo mi avrebbe dato forza per vincere la codardia.

Risposi essermi trovato anch'io nella camerata; avere per conseguenza cognizione del fatto e del suo autore; ma non volere per nissun conto denunziare chicchessia.

Gli occhi di Don Giuseppe schizzarono fiamme; Raimondo li teneva come prima abbassati al suolo.

Se non che all'improvviso Eugenio S… entrò in quella camera. Era egli uno scapestratello, sempre allegro, sempre pronto ai colpi di mano, ai chiassi; e perciò Raimondo ed io avevamo avuto poco a fare con lui.

Don Giuseppe gli domandò imperiosamente che cosa venisse a fare senza essere chiamato. Rispose con accento fermo essere venuto ad indicare il nome di colui che aveva commesso il furto del giorno antecedente.

Raimondo ed io ci guardammo sorpresi. Sapevamo entrambi che egli stesso n'era stato l'autore, e stentavamo a dar fede a tanta codardia.

Nessuno di noi aveva in pratica il cuore d'Eugenio S…; però temevamo ch'egli venisse per riversare sovr'altri la propria colpa, non potendo immaginare che avesse intenzione di abbandonarsi all'ira di Don Giuseppe.

Ma il nostro stupore fu tanto più grande, quando udimmo quel giovinetto palesare coll'impudenza della sua età la sua colpa, ed implorare con aria di canzonatura il perdono del sorvegliante.

Quell'atto lo riabilitò ai nostri occhi. Compresi che Raimondo aveva concepito per lui in quell'istante una grandissima stima-nè io ne fui geloso, lusingandomi di poterla dividere.

Fummo posti tutti tre nel camerino di riflessione; e per tre giorni tenuti al semplice regime di pane ed acqua.

Non appena ci trovammo soli, l'irresistibile tendenza d'espansione che la natura ha chiuso nel petto degli uomini ruppe la giovane barriera che la chiudeva.

E ci vennero sulle labbra i nostri sentimenti, le nostre idee, i nostri propositi.

A quell'età non si hanno segreti; si recita la parte colla maschera nelle mani; si mostra il viso aperto, e nel viso l'anima.

Un'ora dopo noi eravamo vecchi amici. Ciascuno di noi conosceva il passato dell'altro. Quale passato, mio Dio? Una breve ora di vita volata fra i turbini del desiderio-un petalo di rosa che la nostra mano avea strappato e che il vento recava sulle sue ali. – Nessuno di noi si sarebbe certamente arrestato nel suo cammino per rivolgersi un istante a contemplarne la fuga, se il timore che alcuna parte di noi rimanesse celata ai nuovi amici non ci avesse spinto a farlo in quel giorno; perocchè non si pensa allora che verrà tempo in cui si tenterà a gran fatica ricostruire tutta la tela della nostra vita, e che quegli anni infantili così rapidamente fuggiti saranno i soli su cui vorremo arrestarci con compiacenza.

Il dolore e la colpa fanno la giornata dell'uomo, e il rimorso ne accompagna il tramonto; la vita ha un solo raggio di luce che le passioni non han deturpato-l'infanzia.

Raimondo per lo addietro così taciturno ci avea rivelato una folla di progetti; pareva ch'egli uscisse con voluttà da quella sua abituale riservatezza.

Eugenio teneva pronte le sue celie per ogni cosa. Era riuscito a trafugare alcune nocciuole prevedendo che gli sarebbe toccato il pane ed acqua, e rovesciò le tasche sul nostro desco.

Così fra i motteggi e le confidenze passarono quei tre giorni.

D'allora in poi fummo indivisibili.

II

Dodici anni appresso io mi trovava a Milano. Il collegiale s'era fatto uomo; e tuttavia io ripensava con mestizia a quei giorni di delirio. Da gran tempo non aveva saputo più novelle di Raimondo. Egli era partito per un lungo viaggio otto anni prima, quando, rimasto solo per la morte d'un vecchio zio che avealo educato, eragli nata vaghezza di veder cose nuove. L'ultima sua lettera recava l'impronta d'una melanconia profonda, inguaribile. Dicevami come egli viaggiasse in compagnia d'un indiano e come andasse mendicando la pace di borgo in borgo, e non sapesse risolversi a far ritorno in Europa.

Trovavasi allora a San Cosmo, borgata del Paraguay, e colà avrei io voluto rispondergli e pagargli tributo di conforti, se la sua vita nomade non m'avesse tolto ogni speranza di fargli pervenire la mia lettera.

Così erano passati due anni. Un mattino del 18… udii picchiare all'uscio della mia cameretta in un modo noto.

–Venite innanzi, Simplicio, gridai dal mio letto appuntando i gomiti sul guanciale.

Il vecchio portinajo entrò e mi porse una lettera; il cuore mi battè frequente; io aveva riconosciuto i caratteri di Raimondo.

 

Dicevami un mondo di cose-tutte meste; ma ciò che mi riconfortava era la promessa del suo ritorno in Italia. Sarebbe partito da Maldonado a bordo del bastimento francese La vitesse, contando di toccare Livorno due mesi dopo.

Immaginate la mia gioja. A calcoli fatti egli non doveva trovarsi a gran distanza da me, e al più tardi fra otto giorni io sperava di riabbraciare l'ottimo amico dell'infanzia.

Le mie speranze non andarono fallite; cinque giorni dopo io riceveva da Livorno avviso del suo arrivo; e il domani egli era meco.

III

Egli era meco. Ma posso io dire che egli fosse ancora quel Raimondo d'una volta, il collegiale taciturno e severo, ma ad ora ad ora confidente ed entusiasta? Io cercavo indarno sotto la sua nera barba le note linee di quel volto pallido ed affilato-il suo sguardo era sempre mesto, ma avea perduto quel fuoco che irraggiava a sprazzi vivissimi di luce la sua testa. Ov'erano quelle espansioni ingenue d'una volta, e quel tenero e soave raccoglimento alle speranze?

–Quanto siamo mutati! mi disse egli un giorno fissandomi in volto impensierito.

–Tu più di me, gli risposi.

–Lo credi. Ma provati a rimontare la corrente degli anni e non t'incresca di rovistare nelle ceneri di quello che fu già di te medesimo.

–Ho paura di farlo.

–Hai ragione, le sono ubbie. Il tempo fa il suo mestiere. Oggi abbiamo i peli sul mento; fra una ventina d'anni saremo canuti-ed ecco la vita.

–L'anima sola non muta, aggiunsi tocco melanconicamente dalle sue parole.

–L'anima!.. ripetè distratto. Tu ci credi…

Fui atterrito da questo dubbio.

–Ma che cosa dunque è avvenuto dentro di te? Qual terribile urto ha spezzato la tua fede così salda?

–La mia fede! So d'averne avuto una. V'è un'età nella vita in cui si è fanciulli; allora è un bisogno; si guarda il cielo, si vedono le stelle, si respira il profumo dei fiori, si è ignari del resto, e si crede.

Quel giorno non parlammo più oltre.

Quando fui solo, ricordando Raimondo e i nostri anni di collegio, fui tratto a pensare ad Eugenio. Egli si era recato da qualche anno a Roma per perfezionarsi nell'arte del disegno, e vi aveva fama di buon pittore. Gli scrissi una lunga lettera e gli palesai, come la fantasia me lo raffigurava, lo stato dell'anima di Raimondo, i suoi dubbii, le sue ansie. Ma non osai dirgli come io lo credessi tanto mutato da essere fatto insensibile all'affetto; non osai dirgli, e non osavo dirlo a me stesso, come io riputassi affievolita d'assai nel suo cuore quell'amicizia che già ne aveva uniti così teneramente.

Quand'ebbi chiuso quel foglio, lo rimirai buona pezza in silenzio. E in un momento di terribile scetticismo temetti anche d'Eugenio.

Che importa egli mai l'aversi ricambiato un saluto ogni mese, se due cuori han cessato di battere vicini da gran tempo? Ahimè! cotesto è il destino delle amicizie strette nell'infanzia. Ci separiamo fra le lagrime, e portiamo scolpita nel petto l'immagine diletta; il tempo ci trasforma e ci guasta, ma quell'immagine non ci abbandona giammai. Di tal guisa noi viviamo in qualche parte la vita d'allora, e alimentiamo col pensiero il nostro affetto. Ma nissuno di noi pensa che l'oggetto del nostro amore non è più; e che la pallida larva che avanza è menzognera. Però se egli avviene che i cadaveri si scontrino per via, e non si riconoscano, e ricordino appena d'essersi amati molto, allora essi scuotono il capo sfiduciati e si chiamano ingrati a vicenda.

IV

Il giorno successivo, appena fu l'alba, mi recai all'abitazione di Raimondo.

Era la prima volta che io vi andava; nè sapevo dire perchè vi andassi, e quale fosse l'animo mio. Ma so che così facendo io rispondeva ad una imperiosa esigenza del mio cuore.

Ho veduto degli uomini arrestarsi impensieriti dinanzi alle rovine di Pompei, e trepidare per un frammento di capitello novellamente scavato, come se egli ridestasse in loro i teneri ricordi d'un'età passata.

Quanto più a ragione non dovremmo noi commuoverci d'un sentimento severo di mestizia, accostandoci alle rovine di un cuore che ha sofferto ed amato, se quelle doglie e quell'amore ci hanno appartenuto in qualche guisa?

Era forse questo sentimento dissimulato che mi guidava in quell'ora mattutina al fianco di Raimondo.

Come io fui giunto al quartiere remoto che egli abitava, mi arrestai dubitoso; e parvemi imprudente il visitarlo a quell'ora. Ma poi che io mi ostinava a voler cancellato col pensiero il tempo che ci aveva tenuto divisi, conchiusi che il mio Raimondo di collegio non si sarebbe offeso di questa licenza, e in due salti fui ai terzo piano.

Fu ad accogliermi una specie di negro, di cui non era facile a primo aspetto indicare la razza. Vestiva all'europea, ma i suoi capelli abbandonati sulle spalle ondeggiavano in nerissimi anella. Di corpo era snello e di statura men che mezzano; ma a traverso la sua giubba di lana, e i suoi larghi calzoni di tela, si poteva indovinare la meravigliosa proporzione delle sue membra.

Mi salutò con un cenno del capo, come uomo che non è troppo avvezzo agli omaggi; e come ebbi posto piede nell'anticamera, mi rivolse la parola con accento gutturale in un linguaggio tra lo spagnuolo e l'italiano.

–Sia il benvenuto nella casa del mio signore il visitatore del mattino.

Poi senza dir altro mi accennò una sedia e si allontanò.

Sorpreso di questo strano servitore, io non aveva avuto tempo di dirgli il mio nome perchè Raimondo fosse prevenuto. Se non che il negro fu di ritorno in un baleno, ed accostatosi a me mi disse a voce bassissima:

–Il signore mio padrone dorme-il signore che ha visitato la casa del mio padrone può aspettare ch'ei si svegli.

Compresi ben tosto come con costui mi sarebbe tornata inutile ogni insistenza; d'altra parte il timore di riuscire importuno, e una certa curiosità d'esaminare alcun tempo quel personaggio misterioso mi consigliarono d'aspettare.

–Attenderò, dissi al negro.

–Il mio signore vuole che gli amici suoi sieno ricevuti come il signore medesimo. Il visitatore è egli l'amico del mio signore?

–Lo sono.

–La parola dell'amico del mio signore è buona; l'amico del mio signore comandi, e sarà obbedito.

–Il vostro nome?

Charruà, della tribù dei Charruà, nato sulle rive dell'Uruguay.

–Voi siete dunque indiano? Ed abbandonaste il vostro paese?

–Lo Charruà ama il suo benefattore, e lo segue. Le sue braccia e la sua vita gli sono dovute.

Così dicendo egli levava in alto le braccia nude, facendone spiccare i muscoli poderosi.

–Ma non lasciaste voi parenti colaggiù e come abbandonaste la tenda del padre vostro in riva all'Uruguay?

-La tenda del padre mio, le sue armi, e il suo poncho 1 sono state seppellite con lui nel monte-lo Charruà che mi ha svegliato nel mondo si è addormentato per sempre. Io mi sono nascosto per due giorni nella capanna; poi venne a me un compagno, mi pizzicò le carni delle braccia e vi confisse le scheggie della canna. Poi andai nel bosco; l'yaguarstè e le altre bestie feroci ebbero paura del buon figlio e fuggirono. Allora io ritornai nella capanna, levai le scheggie dalle braccia, e non mi cibai per due giorni. Così il buon Charruà saluta l'ultimo sonno del padre.

Nota 1: (ritorno) Il Poncho è una stoffa grossolana, intessuta di lane, che ha un buco nel mezzo del quale si fa passare la testa.

Così dicendo s'accendeva in volto, e muoveva gli occhi nerissimi con vivacità. Poi mi mostrava le braccia con fare orgoglioso, perché osservassi le larghe cicatrici che il suo lutto vi aveva lasciato.

Incominciavo a prendere interessamento per quest'uomo, che al selvaggio e virile ardimento della sua razza univa una tinta vaga di dolcezza e di bontà, dote assai rara fra le tribù indiane.

Ma in questa si udì un tintinnio di campanello.

–Quando il suo signore lo chiama, lo Charruà si fa più leggiero del serpente boi-hoby. Che cosa deve dire il vostro servitore al suo signore?

–Mi chiamo Giorgio.

–Dirò dunque al mio signore che il suo amico Giorgio gli fa la visita del mattino.

V

Poco dopo ritornò a me e mi pregò che lo seguissi.

Attraversai una lunga fila di camere. Da per tutto io vedeva con sorpresa l'impronta della ricchezza; poiché sebbene sapessi Raimondo unico rampollo d'una casa distinta, egli non mi aveva fatto alcun cenno della sua fortuna.

La camera in cui si trovava Raimondo era addobbata con squisita eleganza. Il suolo interamente coperto di tappeti e di pelli di tigre; le pareti tappezzate a drappi azzurri.

Raimondo mi aspettava con desiderio; e s'era rizzato per metà sui guanciali. Mi porse la mano affettuoso, e mi fe' sedere accanto a lui con compiacenza.

–Ti avrei fatto avvisare; mi disse quando ebbe congedato d'un cenno l'indiano; avevo tanto bisogno di vederti, di abbracciarti.

V'era tanta mestizia, e così dolce, nelle sue parole, che ne fui sorpreso, e non seppi rispondere nulla. Ma all'improvviso m'accorsi che il suo volto era pallido più del consueto, che il suo respiro era affrettato, e che grosse gocce di sudore gli bagnavano la fronte.

–Che hai tu dunque? gli domandai spaventato.

Sorrise.

–Nulla. Un po' di febbre. Me l'aspettavo; colaggiù era malato di nostalgia, ed ora… Gli è il mutamento di clima; io mi era abituato a quel cielo di fuoco.

Poi proseguì lentamente. – V'hanno ben altre doglie che serrano ben altrimenti il cuore e intisichiscono l'anima. Che avrai tu pensato di me dopo il mio linguaggio di jeri.

–Pensai che la tua anima è malata; che tu hai d'uopo d'un buon medico.

Raimondo mi porse un'altra volta la destra.

–Ahimè! dissemi; io dispero d'incontrarne uno. Vi sono veleni che non hanno antidoto-gl'Indiani lo sanno assai benevisono piaghe che consumano ed uccidono, e contro le quali nulla potrebbero il ferro ed il fuoco. Hai tu mai dubitato?

–Di che?

–Di tutto: di Dio, dell'uomo, della donna, dell'amore di noi stessi…

–E dell'amicizia, aggiunsi con amarezza.

–Sì; anche dell'amicizia. Or bene se tu l'hai provato cotesto supplizio, sai tu che vi esista un rimedio?

–Ve n'ha uno.

–Quale?

–Amare; gettarsi nel mondo, respirarne le colpe, e raccoglierne con ogni cura le poche virtù, udire la bestemmia dei mille e l'umile preghiera dell'innocente; soffrire l'indifferenza e l'odio fin che non s'incontri un uomo che ci faccia credere all'amicizia, una donna che ci faccia credere all'amore, e qualche raro esempio che ci faccia credere alla virtù. Amicizia, amore, virtù-questa triade benefica sarà la nostra rivelazione; allora leveremo gli occhi al cielo e troveremo il nostro Dio.

Per alcun tempo Raimondo non rispose, e parve meditare sulle mie parole.

–Sarà forse come tu pensi; prese a dire poi con abbandono; la mia anima lotta ancora per crederlo. Ma credi tu che io non abbia pensato a codesto, che io non abbia sospirato di desiderio, che io non abbia pianto di sconforto? Amare, aspettare; ma per tutto ciò conviene vivere, soffrire. Incontrerai una donna che ti amerà, un esempio dì virtù che mitigherà lo spasimo del tuo cuore-ma quale cammino per arrivare a questa meta? Noi siamo viaggiatori che ci avventuriamo nel deserto senza averne misurato l'estensione. E chi ne assicura che l'oasi che vagheggiamo lontana non sia l'effetto del miraggio-che le sabbie ardenti non si perpetuino senza fine, finché ci toccherà cadere sfiniti al suolo ad aspettarvi la morte? Ricercare smaniando! Ma a che giova? ed è egli possibile rassegnarsi a questo strazio, quando si è incerti dell'esito, quando s'ignora perfino l'esistenza dì ciò che si vagheggia? Che diresti d'un pazzo che corresse dietro alla sua ombra? E che altro sono essi gli uomini colle loro eterne chimere dì virtù e d'amore! Dove son esse cotali fantasime se non nella loro mente? E quale mai può vantarsi d'averle vedute?

–Ed ecco il tuo errore, ripresi con dolcezza. Ti sei fitto in mente che tutti gli uomini vedano attraverso la nebbia che oscura il tuo orizzonte. Ma oramai conviene che tu non dissimuli nulla a te stesso. Io non ti domando una confessione, perchè forse tu stesso non sapresti farmela; ma esigo dalla tua amicizia che tu getti uno sguardo scrutatore nell'anima tua. Molto spesso conoscere il male è guarirlo. Ora io ti domando: che hai tu fatto della tua vita? A diciotto anni ti colse desiderio dì viaggiare. Avresti potuto recarti nelle città popolose; la società ti sarebbe apparsa gigante in mezzo alle sue turpitudini; avresti contato le lagrime della miseria e le carrozze stemmate dell'ozio, e ti saresti sentito serrare il petto dallo sconforto. Ma dal turbine delle oscenità da trivio e degli amorazzi di gran dama, avresti forse sceverato una fanciulla modesta e povera, e l'affannoso lavoro di un operajo indigente. Increscioso del mondo in cui non avevi ancora vissuto, misantropo senza aver conosciuto gli uomini, senza ancora essere uomo tu stesso, hai visitato invece l'America meridionale e gli sbandati avanzi delle sue tribù di selvaggi. Così hai passato i più begli anni della tua vita respirando un'aria che non era la tua, ascoltando un linguaggio che tu comprendevi a stento, avvicinando uomini i quali per diversa cultura di spirito, per diversa eredità di genio, per costumi e bisogni diversi, non potevano migliorare od accrescere in alcun modo il patrimonio delle tue idee, dei tuoi sentimenti. Ritornasti al tuo paese stanco della vita, odiando vieppiù gli uomini, mentre degli uomini e della vita non hai formato un giusto concetto. La più gran parte di coloro che non devono pagare col lavoro il loro pane sono ammalati del tuo male, la noja. Se non che, mentre altri ricerca nell'ebbrezza e nel delirio dei sensi la dimenticanza, tu con più falsa logica domandi la pace alla solitudine, e frugando nel tuo cuore malato vorresti rinvenire in esso il farmaco del tuo male. Quando si è giovani, come tu sei, credilo, mio caro Raimondo, la solitudine è una compagna assai triste. Convien dare allo spirito le sue battaglie, i suoi battiti al cuore.

 

La franchezza del mio linguaggio sorprese Raimondo. Parvemi allora d'essermi spinto troppo oltre nel mio dire, e temetti che egli se ne fosse offeso. Lo osservai con inquietudine; era calmo. Poco dopo si scosse, e in un balzo discese dal suo letto.

–Che fai? gli domandai meravigliato.

–Voglio esser teco: pranzeremo insieme, andremo ai teatri, ai caffè…

–Ma tu sei malato. Poc'anzi avevi la febbre.

–È un nonnulla. Quel che più importa è di uscire da questa inerzia, quel che più importa è di vivere.

Così dicendo, Raimondo si vestiva; compresi come il tentare di distoglierlo dal suo proposito sarebbe stato in quel momento opera vana; e però mi tacqui.

In pochi istanti egli ebbe posto termine al suo abbigliamento; mi porse il braccio ed uscimmo dalla sua camera. Giammai erami sembrato così allegro come in quel punto; nell'attraversare il suo appartamento si arrestò innanzi ad un cassetto come colto da un'improvvisa idea; e trattine due pezzi d'osso che si configgevano l'uno nell'altro, mo li porse sorridendo perchè io li esaminassi.

–A che serve questo arnese?

–Domandalo a Charrnà; e ti saprà dire con quanto sagrifìzio egli si sia deciso a privarsi per amor mio dell'ornamento del suo labbro. Gli indiani lo chiamano il barbotto; appena nati lo fanno passare attraverso il labbro superiore e non lo depongono più nella vita. È il distintivo del loro sesso, perocchè essi non hanno barba nè diversità di vestimenta. Comprenderai come sia facile contrarre l'abitudine di tenere il broncio, quando si porta questo giocattolo sul labbro; aggiunse scherzosamente; e come il riso diventi una cosa difficile. Ho conosciuto fra le altre la razza dei Minuani, gente severa, e melanconica come i deserti che la chiudono nel suo territorio-un buon minuano non ride mai nella sua vita; ecco gli uomini coi quali ho creduto di vivere fin ora.