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Czytaj książkę: «Il figlio del Corsaro Rosso», strona 19

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CAPITOLO VII. IL RITORNO ALL’OCEANO PACIFICO

Il signor di Ventimiglia non aveva indugiato ad accettare l’invito, quantunque quella cortesia, troppo spinta da parte d’un nemico senza dubbio acerrimo, poiché poteva essere in giuoco la sua esistenza, avesse fatto arricciare il naso al sospettoso guascone e anche a Mendoza.

Il gabinetto del marchese era uno stanzino ammobiliato senza pretese ed illuminato da due candelabri, collocati sopra un enorme scrittoio coperto da un panno verde e da cumuli di carte.

Il marchese di Montelimar indicò al conte una sedia, poi, sedendoglisi di fronte, gli chiese:

– Ora mi direte che cosa volete da me. Mi avete cercato a Pueblo-Viejo, fors’anche a San Domingo e mi avete preso a Nuova Granata. Che cosa desiderate dunque?

– Domandarvi, innanzi tutto, se dinanzi a me la vostra coscienza è perfettamente tranquilla, – rispose il signor di Ventimiglia.

Il marchese socchiuse un po’ gli occhi, poi, dopo un breve silenzio, rispose:

– La vostra domanda mi stupisce un po’.

– Ah! – fece il conte. – Mi direte allora chi era, quindici anni or sono, il governatore di Maracaibo.

– Io, – rispose il marchese.

– Dunque voi avete fatto appiccare mio padre, – gridò il conte, con uno scatto improvviso.

– Non posso negarlo.

– Sapevate che era un gentiluomo.

– Sí.

– Che non combatteva per avidità di guadagno, perché i Ventimiglia avevano e hanno tuttora terre e castelli, quasi quanti ne hanno i duchi di Savoja.

– So che erano ricchissimi.

– Sapete per quale motivo mio padre ed i miei zii, il Corsaro Verde ed il Corsaro Nero erano venuti in America?

– Per vendicarsi del duca Wan Guld, mi hanno detto, – rispose il marchese, sempre calmo.

– Sapete che cosa aveva fatto quel duca?

– Veramente non lo so: l’America centrale è troppo lontana dall’Europa e certe informazioni si perdono durante la traversata dell’Atlantico.

Il conte si era alzato, in preda ad una vivissima agitazione.

– Francia e Piemonte combattevano contro la Spagna sui canali dell’Olanda e sulla Schelda, – disse. – Condottiero delle genti italiche era un fiammingo: il duca Wan Guld.

– Io ho udito parlare di questo, – disse il marchese, – molto vagamente però.

– I conti di Ventimiglia erano in quattro, tutti fratelli, e forti condottieri, che godevano la piú ampia fiducia del duca di Savoja. Racchiusi in una fortezza con due reggimenti, difendevano ferocemente una rocca, quando una notte il nemico entrò per una delle porte che un traditore aveva aperta, corrotto da un enorme compenso. Il primogenito dei Ventimiglia fu ucciso o meglio assassinato a tradimento da un sicario del duca, mentre cercava di opporsi a quell’invasione. Era Wan Guld, che si era venduto al nemico per diventare, piú tardi, governatore d’una delle piú importanti colonie spagnuole del Golfo del Messico.

– Me ne ricordo infatti, – disse il marchese di Montelimar. – I tre conti di Ventimiglia attraversarono a loro volta l’Atlantico per uccidere il traditore, e sotto il nome di Corsaro Rosso, Verde e Nero, coll’aiuto di Pietro l’Olonese, di Wan Horn, di Laurent, di Grammont e di altri celebri filibustieri, rovinarono le nostre colonie e misero a ferro ed a fuoco tutte le nostre città marinaresche del Golfo del Messico.

– E gli spagnuoli hanno appiccato mio padre, è vero?

Il marchese era diventato pallidissimo ed aveva avuto un sussulto troppo tardi represso.

– È vero? – ripeté il conte.

– Non posso negarlo.

– Se vostro padre fosse stato appiccato e voi un giorno foste riuscito ad avere nelle vostre mani colui che ha pronunciata la terribile sentenza, che cosa avreste fatto?

– Mio padre era un grande di Spagna e non già un filibustiere, – rispose il marchese di Montelimar.

– Ed il mio non era un ladrone di mare, – proruppe il conte. – I Ventimiglia non hanno intascato in America né un doblone, né una piastra.

– Li intascavano però i filibustieri che li accompagnavano, – ribatté il marchese, con violenza. – Per noi vostro padre non era altro che un corsaro pericolosissimo, che devastava le nostre colonie e rovinava le nostre città e noi avevamo tutto il diritto di punirlo.

– Come un volgare ladrone, è vero? – disse il conte, ironicamente.

Il marchese non rispose.

Il signor di Ventimiglia fece tre o quattro passi dinanzi allo scrittoio, poi, fermandosi bruscamente dinanzi all’ex governatore di Maracaibo, il quale lo seguiva con uno sguardo inquieto, disse:

– Di questa faccenda riparleremo piú tardi, signor marchese. Mi premeva avervi nelle mie mani per un’altra cosa.

– Dite.

– Mio padre, che era rimasto vedovo prima d’imbarcarsi per l’America insieme ai suoi fratelli, ha sposato qui la figlia di Hara, il grande Cacico del Darien, che gli diede una figlia. Quando mio padre, rimasto per la seconda volta vedovo, fu preso dai vostri compatriotti e condotto prigioniero a Maracaibo, aveva con sé quella bambina. Che cosa ne è successo? Voi dovete saperlo.

– Io!…

– Eh, signor marchese, non cercate d’ingannarmi. Quella piccola meticcia, che è mia sorella, è stata raccolta da voi, io lo so. A Pueblo-Viejo d’altronde mi hanno confermata la notizia ed il vostro segretario, il cavaliere di Barquisimeto, messo da me alle strette, non ha potuto negarlo.

– È nelle vostre mani il mio segretario? – gridò il marchese.

– Vi era: non essendomi ormai piú di nessuna utilità l’ho lasciato andare. Seccano troppo a noi i prigionieri.

– Ed ha tradito il segreto!…

– O parlare o morire, signor marchese, – disse il conte. – Egli, dinanzi al dilemma, ha preferito aprire la bocca.

Il marchese aveva fatto un gesto di collera e si era alzato impetuosamente, gettando sul figlio del Corsaro Rosso uno sguardo feroce.

– Che cosa volete dunque, voi? – chiese, coi denti stretti.

– Mia sorella.

– È per questo che siete venuto in America?

– Sí.

– E se mi rifiutassi di restituirvela?

– Vivaddio! – gridò il conte. – Non avrei riguardi per l’uomo che ha pronunciata la sentenza che condannava mio padre alla forca!…

– Vostra sorella non è qui.

– Non è qui?…

– No.

– Dove l’avete mandata, dunque? A Panama.

– Mille demoni! – gridò il conte, esasperato. – Qui non era sicura.

– Voi sapevate dunque che io la cercavo?

– Io sapevo che una partita di filibustieri s’avanzava verso questa città e, temendo che nell’assalto uccidessero quella fanciulla, mi sono affrettato a mandarla a Panama.

– Perché tanti riguardi verso la figlia d’un filibustiere?

– L’ho allevata come fosse mia, – rispose il marchese. – Giacché gli altri hanno parlato, vi avranno anche detto che vostra sorella venne sempre trattata nella mia casa come una gentildonna e non già come una schiava, quantunque meticcia.

– Infatti me lo hanno detto. Ed ora?

– Spetta a voi, signor di Ventimiglia, di andarvela a prendere.

– A Panama? Volete scherzare, marchese? I tempi di Morgan sono passati e nessuno oggidí oserebbe, nemmeno mio zio il Corsaro Nero, se fosse vivo, di tentare una simile impresa.

Un ironico sorriso sfiorò le labbra del marchese di Montelimar.

– Non so che cosa farci, signor conte, – disse poi.

– A chi l’avete affidata?

– A don Juan de Sasebo, mio amico e consigliere del vicereame.

– Mi avevano detto che prima la teneva un mayoral.

– Sí, quand’era piccina. Ora ha quindici anni e non deve frequentate che delle famiglie cospicue.

– E non posso averla in nessun modo?

– Sí, conducendomi con voi a Panama, perché ho dato ordine a don Juan di non consegnarla a chicchessia.

– Avete preso delle eccessive precauzioni.

– Io ormai la considero come mia figlia, signor conte.

– Eppure io non lascerò l’America senza averla, – disse il signor di Ventimiglia. – È mia sorella.

– Nessuno vi contrasterà questo diritto. Temo però, signor conte, – disse il marchese, con accento sempre ironico, – che a Panama non soffi aria buona per voi.

Lo vedremo. Intanto voi rimarrete mio prigioniero.

I prigionieri possono riscattarsi: fissate il prezzo.

Un Ventimiglia non ha bisogno né di cinquanta né di centomila piastre, signor di Montelimar. Per voi non vi è nessun prezzo.

Poi, volgendosi verso i tre avventurieri, i quali avevano assistito al colloquio, immobili e muti come statue, ma colle draghinasse in mano, pronti a qualunque sorpresa, disse loro:

– Affido a voi questo signore: è sotto la vostra sorveglianza.

Si toccò appena la tesa del suo ampio feltro e uscí, scendendo rapidamente la scala del castello.

Cominciava allora ad albeggiare e l’acquazzone era cessato. Le spianate del forte erano ingombre dì filibustieri occupati ad inchiodare i cannoni ed a saccheggiare le polveri, avendo estremo bisogno di munizioni.

Tusley, Grogner e Raveneau de Lussan stavano seduti su una balaustrata del forte, fumando e chiacchierando.

Vedendo comparire il conte, tutti si erano alzati.

– Dunque, signor conte? – chiese de Lussan, non senza una certa ansietà.

– Un’altra carta male giuocata, – rispose il signor di Ventimiglia. – Ho preso l’aquila e non ho potuto avere l’allodoletta.

– Vostra sorella?…

– Non è più qui.

– Per la morte di tutte le viti della Turenna! – gridò il francese. È un demonio quel marchese che indovina sempre i vostri progetti?

– Cosí pare, – rispose il conte.

– E prenderemo l’allodoletta?

– A Panama, se vorremo averla.

– Un affare serio, – disse Grogner, facendo una smorfia. – Panama non è Pueblo-Viejo, né Nuova Granata. Se fossimo in mille, la cosa potrebbe essere non difficile. Colle forze che disponiamo nessun filibustiere, nemmeno Morgan, oserebbe una simile impresa.

– Andiamo all’isola di Taroga, – disse Tusley, il quale fino allora era rimasto silenzioso. – Io so che una partita di filibustieri, montati su due fregate, dovevano giungervi da un momento all’altro, decisi a bloccare Panama. Se potremo trovarli, faremo tremare una volta ancora gli abitanti della città. Ciò che mi preoccupa è pel momento un’altra cosa.

– Parlate, signor Tusley, – disse il conte.

– Un prigioniero mi ha confessato or ora che grossi corpi di spagnuoli si sono messi in campagna, per tagliarci la ritirata verso l’Oceano Pacifico. Vi consiglierei quindi, nell’interesse comune, di sgombrare al piú presto Nuova Granata e di raggiungere la sponda. Ormai tutto quanto vi era da prendere si trova nelle nostre tasche.

– Poca cosa però, – disse Raveneau. de Lussan. – Il saccheggio non ha fruttato che ottantamila piastre.

– Ne avremo delle altre durante la ritirata, – rispose Grogner. – Sul nostro cammino incendieremo paesi, villaggi e città e non le risparmieremo.

– Io sono pronto a partire, – disse il conte. – Non terrò per parte mia che un solo prigioniero: il marchese di Montelimar.

– E noi una trentina di pezzi grossi della città, che ci forniranno a suo tempo un rispettabile riscatto, – disse Grogner. – Ci saranno utilissimi se potremo fare una dimostrazione navale contro Panama. Signor de Lussan, date l’ordine della ritirata. È meglio che raggiungiamo le fitte foreste, prima che le cinquantine spagnuole, che devono già essere in marcia, ci piombino addosso.

Non era trascorsa una mezz’ora che i filibustieri, i quali non avevano perduto, in tanto battagliare, che soli dodici uomini, mentre avevano fatto una vera strage degli abitanti che difendevano le mura, si trovavano pronti a sgombrare la città.

Oltre i prigionieri, si erano impadroniti anche d’un cannone, per meglio difendersi dagli attacchi che già s’aspettavano durante la ritirata verso l’Oceano Pacifico.

Per meglio ingannare le truppe lanciate sulle loro tracce, avevano deciso di risalire verso il settentrione, anche perché il paese, piú fertile, poteva offrire maggiori risorse.

Alle otto del mattino, i quattro piccoli corpi, dopo d’aver fatto saltare un’altra ala della fortezza, lasciavano la città, rifugiandosi sotto le immense foreste che allora coprivano gran parte dell’America centrale e che non erano occupate che da rade tribú d’indiani sfuggiti miracolosamente alla dura schiavitú degli spagnuoli.

Da uomini abituati alle continue guerriglie, sentivano però il nemico.

Ed infatti, a dieci miglia da Nuova Granata, un corpo di duemila e cinquecento uomini, giunto da Panama, li assalta in rasa campagna, cercando di circondarli.

Pochi colpi di cannone, sparati dal pezzo che per loro fortuna avevano condotto da Granata, lo mettono in piena rotta!…

Due ore piú tardi, presso la piccola città di Leon, posta a poche leghe da Granata, tenta pure di arrestarli un corpo composto di cinquecento lance, ma con un attacco furioso, condotto particolarmente dal conte di Ventimiglia e da Raveneau de Lussan, lo volgono pure in fuga. E questa è storia verissima! …

È bensí vero che gli spagnuoli avevano una grande paura di quei ladroni di mare che, come abbiamo detto, ritenevano figli di Belzebú.

Non erano però finite le peripezie dei filibustieri. Gl’indiani, per ordine del governatore di Panama, bruciavano boscaglie e piantagioni, per affamarli e li assalivano a colpi di freccia in mezzo alle sterminate foreste.

Presso la cittaduzza di Ginandejo, gli spagnuoli, raccolti in uno stretto passaggio, tendono un agguato e mandano alcuni abitanti incontro ai filibustieri per invitarli a recarsi nelle loro fattorie a ristorarsi, promettendo viveri e vino in abbondanza.

L’agguato però non ha anche questa volta nessun successo. I filibustieri, furiosi per tale tradimento, tagliano a pezzi le cinquantine spagnuole, saccheggiano la città e poi la incendiano, per punire gli abitanti di essersi prestati a preparare l’agguato.

Dopo quattordici giorni di marce continue, di combattimenti incessanti, i filibustieri giungevano finalmente, laceri, affamati, essendo tutto stato bruciato dinanzi a loro, sulle rive dell’Oceano Pacifico, di fronte all’isola di Taroga, sulla quale speravano trovare altri compagni venuti dall’Atlantico.

CAPITOLO VIII. UNA TERRIBILE BATTAGLIA NAVALE

Bisogna proprio credere che una fortuna straordinaria proteggesse quegli audaci ladroni di mare, ed un triste destino perseguitasse con ostinazione incredibile i discendenti di quei terribili conquistadores, che con pochi colpi d’archibugio, ma molta audacia, avevano rovesciati i piú potenti imperi dell’America del Nord e del Sud e anche del Centro.

Prendere d’assalto una città reputata una delle piú solide piazze forti del Nicaragua, sfuggire a duemila e cinquecento soldati, evitare i numerosi agguati e giungere ancora sani e salvi, attraverso un paese infestato da indiani ostili, erano fatti assolutamente stupefacenti, quasi inverosimili: eppure la storia di quella ardita scorreria, fatta da un pugno d’uomini, è sempre lí a provare l’esattezza di quelle imprese strabilianti.

La fortuna non doveva ancora venir meno a quei formidabili ladri di mare, poiché, ventiquattro ore dopo il loro arrivo sulle coste del Pacifico, li ritroviamo al sicuro all’isola di Taroga in mezzo ad altri filibustieri giunti dai mari del sud con due buone navi di battaglia.

Le quattro colonne, che durante la ritirata avevano subito perdite piuttosto rilevanti, si trovarono subito rinforzate d’altri duecento uomini, fra inglesi e francesi, non meno risoluti di loro a menar le mani e non meno assetati, piú che di conquiste, d’oro spagnuolo.

Possedendo, come abbiamo detto, due navi da battaglia, fu deciso, dai quattro capi, in un consiglio tenuto qualche giorno dopo, di tentare innanzi a tutto una spedizione verso Villia, città lontana appena venti leghe da Panama, per provvedersi di viveri, non essendo l’isolotto, coi suoi pochi alberi per la maggior parte infruttiferi, capace di mantenere tanta gente.

Le due navi, che erano giunte dai mari del sud, avevano consumate tutte le loro provviste, ed i filibustieri che avevano preso d’assalto Nuova Granata, non avevano portato con sé che delle piastre inutili, in quel momento, come i grani di sabbia ammonticchiati intorno a quell’isoletta deserta.

Prima di tentare un colpo di mano su Panama, volevano essere almeno ben forniti di viveri e anche di munizioni.

Fu Tusley che s’incaricò dell’impresa. Imbarcatosi con duecento uomini sulle due navi, approda a non molta distanza dalla città, poi muove risolutamente all’assalto ed in poche ore se ne rende padrone, malgrado la fiera resistenza opposta dagli spagnuoli.

S’impadronisce di trecento prigionieri, di quindicimila piastre, d’un milione e mezzo di merci, e, non ancora soddisfatto di tanta ricchezza, invia un messo all’alcade della città che si era salvato nelle boscaglie, per proporgli il riscatto dei prigionieri contro il versamento di cinquantamila piastre.

L’alcade fa rispondere che egli non poteva offrire a tali ladroni altro che della polvere e delle palle, e le une e le altre erano pronte, e che in quanto ai prigionieri li abbandonava alla Provvidenza e intanto li avvertiva che stava radunando forze imponenti per ricacciarli nell’Oceano Pacifico.

A tale risposta Tusley fa incendiare la città, caricano viveri e bottino su due grosse scialuppe che avevano prese sul vicino fiume e cominciano la ritirata.

Qui però cominciano i primi disastri.

Trecento spagnuoli, imboscati ad un gomito del fiume, s’impadroniscono delle due scialuppe e trucidano gli equipaggi.

I filibustieri, che si ritraevano attraverso le boscaglie, a tale nuova mandano altri messi all’alcade, minacciando di massacrare i trecento prigionieri se non viene loro restituito il bottino e pagato il riscatto.

Indugiando la risposta, Tusley fa fucilare una parte di quei prigionieri e manda le loro teste a Villia.

L’alcade, atterrito, restituisce il bottino e le due barche, e vi aggiunge diecimila piastre per salvare la vita agli altri disgraziati che si trovano nelle mani dei corsari.

Non dovevano tardare però gli spagnuoli a prendersi a loro volta delle splendide rivincite.

Sorprendono una partita di filibustieri, composta di trentasei uomini, che si era gettata sulla Boccachica per passare alla sponda orientale del continente e li fanno a pezzi, ad eccezione d’uno solo che viene condotto prigioniero a Panama.

Quasi nel medesimo tempo sorprendono pure due piccole colonne di filibustieri inglesi, formate di quaranta uomini ciascuna, e le annientano completamente in mezzo alle folte boscaglie dell’istmo.

Tusley però, quantunque perseguitato da tutte le parti, conduce la sua colonna fino sulle sponde dell’Oceano e giunge felicemente a Taroga, colle sue venticinquemila piastre intatte, le sue merci, i suoi viveri e le sue due navi.

Quella spedizione non era durata che una quindicina di giorni, durante i quali, i filibustieri rimasti sull’isolotto non erano vissuti che di testuggini marine e di poche frutta, con pochissimo piacere del guascone e dei due suoi compagni, i quali si erano specialmente lamentati della pessima qualità dell’acqua e dell’assenza completa di bottiglie di Xeres e di Alicante da vuotare.

Ben provvisti di viveri e soprattutto di munizioni, i filibustieri, dopo un nuovo consiglio, decisero di tentare il blocco di Panama, per imporre a quel viceré la consegna della sorella del signor di Ventimiglia e di alcuni prigionieri.

Dopo quattro giorni dal ritorno di Tusley, i filibustieri s’imbarcarono.

Non erano però piú numerosi come prima, poiché centoquarant’otto francesi si erano separati dai loro compagni, in causa delle solite questioni religiose, navigando verso settentrione, coll’idea di predare le coste della California.

Erano però ancora abbastanza bene in forza per farsi temere dagli spagnuoli, tanto piú che erano guidati da quattro valorosissimi capi.

Avendo saputo da un prigioniero che due grossi velieri spagnuoli erano attesi da Panama provenienti da Lima con un carico di farine e di denaro, i filibustieri decisero innanzi a tutto di abbordarli, prima che giungessero in porto.

La mancanza di viveri era sempre quella che piú preoccupava quegli uomini, non avendo nessun mezzo di procurarsene, fuorché nel saccheggi, poiché tutte le coste erano guardate e tutte le piantagioni erano state distrutte per molte leghe entro terra.

Guidavano il primo vascello, il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan; l’altro Tusley e Grogner.

Non sarebbe necessario dire che i tre terribili avventurieri avevano preso imbarco sulla nave del conte, ansiosi di aver nuova occasione per menare le loro formidabili draghinasse.

– Taroga è un’isola di tartarughe, aveva detto don Barrejo, mettendo i piedi sul ponte della nave. Non siamo già venuti in America per provare il filo della spada contro i gusci di quei rettili.

– Ed io non sono venuto per guardare le sabbie ed ascoltare il rumoreggiare della marea, – aveva aggiunto Mendoza.

– Ed io non ho lasciato il Brabante per veder arrugginire le mie braccia, – aveva detto il fiammingo.

E si erano imbarcati lietamente, promettendosi di compiere altre meravigliose imprese e di non perdere per un solo istante di vista il marchese di Montelimar, che era stato affidato alla loro sorveglianza.

Il primo giorno passò senza incidenti. Le due navi, che non erano molto grosse, né molto armate, avevano navigato sempre in vista dell’isolotto, colla speranza di sorprendere i due velieri provenienti da Lima.

Il secondo giorno, non avendo incontrato alcun bastimento, avevano fatto un’ardita punta verso Panama, senza però osare accostarsi troppo al porto, non ignorando che il viceré poteva, in poche ore, radunare una squadra considerevole.

La mattina del terzo, i gabbieri che erano di guardia sulle coffe mandarono il primo grido d’allarme.

– Vele a levante!

Il signor di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, i quali erano saliti appena allora in coperta, erano stati i primi a precipitarsi verso il castello di prora.

Quel grido di «vele a levante» non aveva mancato di produrre su di loro una certa sorpresa, poiché non era da quella parte che dovevano avanzarsi i due vascelli provenienti dai mari del sud.

– Che siano legni che vengono da Panama? si era chiesto il conte.

– È quello che purtroppo temo, – aveva risposto Raveneau de Lussan. – Gli spagnuoli devono aver le tasche piene di noi e avranno organizzata qualche flottiglia.

– Che noi prenderemo d’assalto e che affonderemo, – disse Mendoza, il quale non aveva indugiato a raggiungerli, insieme ai suoi due compari.

– Signor de Lussan, prepariamoci al combattimento, – disse il conte di Ventimiglia. – Abbiamo uomini decisi a tutto e artiglierie non del tutto in cattivo stato. Mostreremo ancora una volta agli spagnuoli come sanno lottare e morire i forti fratelli della Costa.

Le trombe avevano suonato.

– Tutti in coperta!

I filibustieri, sempre pronti a qualunque cimento, si erano slanciati ai loro posti di combattimento: i vecchi bucanieri in coperta, dietro le brande arrotolate sulle murate, ed i corsari nelle batterie.

La nave di Tusley e di Grogner aveva subito raggiunta, con una splendida bordata, quella del signor di Ventimiglia, la quale muoveva audacemente incontro alle vele segnalate.

– Don Barrejo, – disse il basco, il quale provava il filo della sua draghinassa. – Temo che questa volta la faccenda sia piú seria di quella di Pueblo-Viejo e di Nuova Granata. Quelle navi vengono da Panama; ve lo dice un vecchio uomo di mare che conosce i venti meglio che Eolo in persona.

– I capitani delle fregate, che voi sappiate, hanno sempre una buona riserva di bottiglie? – chiese il guascone, il quale stava pure esaminando la sua draghinassa.

– Che cosa diavolo mi domandate, don Barrejo? – chiese il basco, non senza un certo stupore.

– Il signor guascone ha parlato bene, – disse il fiammingo, colla sua solita gravità. – Rispondete alla sua domanda, don Mendoza.

– Io credo che abbiano piú palle che bottiglie, – disse il basco. – Non escludo però che posseggano una piccola cantina.

– Non voglio sapere altro, – rispose il guascone. – Andremo ad assaggiare quel vino e vedremo se è piú squisito quello che si trova sepolto nelle cantine o quello navigato.

Un grido, che scese in quel momento dalla coffa dell’albero maestro, interruppe la loro conversazione.

– Fregata in vista!…

– Ve lo dicevo io? – disse Mendoza. Altro che le navi cariche di farina e di denaro provenienti da Lima. Troveremo ferro e piombo.

– Ma anche una cantina, – aggiunse il guascone.

Per la terza volta la voce del gabbiere di guardia si fece udire.

– E due barconi di appoggio!…

– Quelle non hanno di certo delle bottiglie, – disse il basco. – Conteranno probabilmente un bel numero di corde per appiccarci.

– Appiccare noi! – gridò il guascone, trinciando l’aria colla sua draghinassa. – Ah!… Ci vuole ben altro per appiccare della gente come noi!…

– Già, – disse il fiammingo. – Gente come noi.

I filibustieri si preparavano animosamente alla battaglia, cercando di raggiungere la fregata prima che le barcaccie, pessime veliere, potessero accorrere per appoggiarla.

Il conte di Ventimiglia, dall’alto del cassero, impartiva con voce squillante gli ordini, mentre Grogner faceva altrettanto sul secondo vascello.

La fregata, che era di forte tonnellaggio ed armata di una trentina di cannoni, muoveva pure risolutamente contro i corsari, sicurissima di sgominarli con poche bordate.

Il signor di Ventimiglia, accortosi a tempo che gli spagnuoli muovevano all’arrembaggio con animo risoluto, aveva dato l’ordine alle due navi di scostarsi, per prenderli in mezzo, prima che giungessero le barcaccie, le quali contenevano numerosi combattenti e anche dei grossi pezzi d’artiglieria.

A mille passi, il combattimento s’impegnò ferocissimo da ambe le parti.

La fregata tuonava ed avanzava, tentando di disalberare i due legni corsari; questi rispondevano come potevano, non disponendo che di pochissimi pezzi.

A cinquecento passi, gli spagnuoli i quali si tenevano sicurissimi di aver ben presto ragione di quell’accozzaglia di ladroni di mare, imbrogliano le vele di parrocchetto e di pappafico, per essere piú liberi nella manovra e filare sulla nave del conte di Ventimiglia, la quale era piú vicina, per abbordarla.

I tamburi rullano fragorosamente sui suoi altissimi ponti ed il grande stendardo di Spagna sventola orgogliosamente al vento.

I suoi archibugieri ed i suoi alabardieri sono schierati dietro i bastingaggi, pronti a montare all’abbordaggio, mentre dalle due barcaccie partono scariche violentissime, quantunque quasi inefficaci, in causa della distanza.

– Fra poco qui farà molto caldo, – disse Mendoza, il quale non perdeva di vista la fregata. – Se gli spagnuoli muovono su di noi cosí risolutamente, è segno che sono ben decisi a sterminarci. Don Barrejo, temo che le bottiglie del capitano siano un po’ dure da guadagnare.

– Io ho l’abitudine di rispettare tutte le opinioni, però vi dico che il conte monterà all’abbordaggio prima degli spagnuoli. Ho sete: perché non dovrei bere?

– Ben detto, – disse il fiammingo. – Noi berremo il vino di Panama.

Le due navi corsare, con una manovra fulminea, avevano ripreso il largo, rispondendo vigorosamente coi loro pezzi. Subivano gravi danni per quel continuo cannoneggiamento, tuttavia non disperavano di dare ai loro nemici un’altra formidabile battuta.

La fregata, che precedeva sempre le due barcaccie di parecchie gomene, si getta improvvisamente fra i due legni corsari, alternando scariche di mitraglia e palle.

Era il momento atteso dai quattro capi della filibusteria, per tentare un attacco disperato.

I due velieri in pochi istanti si stringono addosso al vascello nemico e, come era loro abitudine, scagliano sui ponti un numero cosí enorme di granate, da mettere, in pochi minuti, fuori di combattimento la maggior parte degli archibugieri e degli alabardieri e poi, approfittando della Grande confusione prodotta da tutti quegli scoppi, montano arditamente all’abbordaggio, con un urlio assordante.

Bucanieri e artiglieri, tutti si precipitano all’assalto con una ferocia inaudita.

Il conte di Ventimiglia e Raveneau de Lussan, insieme ai tre avventurieri, sono i primi che montano sulla fregata.

Un combattimento omerico s’impegna. Anche gli uomini di Tusley e di Grogner hanno abbordata la nave e si rovesciano, con impeto irresistibile, attraverso ai ponti, battagliando come leoni scatenati.

Gli spagnuoli, già respinti a prora, attraversano a corsa sfrenata la tolda e si rifugiano sul cassero dove hanno un pezzo da caccia in batteria, ma la pioggia di bombe, scagliate dai filibustieri e dai gabbieri che sono rimasti sulle coffe e sulle crocette dei due vascelli, li raggiungono anche là, causando un panico indescrivibile.

Il loro valore nulla può contro quella pioggia di fuoco e contro l’urto formidabile dei corsari, troppo abituati alle strepitose vittorie, ed il grande stendardo di Spagna viene calato fra gli urrah degli assalitori, ai quali la fortuna, ancora una volta, ha arriso.

Di cento e venti uomini che si trovavano sulla fregata, ben ottanta erano caduti morti o gravemente feriti.

Sbarazzatisi del nemico piú pericoloso, i filibustieri, lasciati alcuni uomini sulla fregata, tornano ad imbarcarsi sui loro legni, i quali durante quel formidabile cannoneggiamento non avevano riportati che pochissimi danni, e si mettono nuovamente in caccia per catturare le due barcaccie che erano montate da numerosi equipaggi.

Un nuovo combattimento, non meno feroce e sanguinoso, s’impegna, ma i due legni corsari non tardano ad avere anche questa volta il sopravvento.

Con un attacco fulmineo s’impadroniscono della barcaccia maggiore, nonostante la terribile resistenza che oppone l’equipaggio, forte di settanta uomini, dei quali soli diciannove sfuggono alla morte; l’altra, vedendosi perduta, alza tutte le sue vele e cerca di raggiungere la costa. Invece urta contro una scogliera, si spezza a metà e perde la maggior parte della sua gente.

Non era però ancora finita e la stella che proteggeva quei formidabili scorridori dei mari non si era ancora offuscata.

Erano intenti a liberare la fregata dai morti che la ingombravano ed a rattoppare alla meglio le attrezzature delle loro navi, alquanto malmenate dalle grosse artiglierie nemiche, quand’ecco che altre due barcaccie, montate pure da equipaggi numerosi, compariscono all’orizzonte.

I filibustieri, inquieti, interrogano i superstiti della fregata e con minacce di morte riescono a sapere che quelle navicelle avevano ricevuto l’ordine di muovere al piú presto in soccorso della flottiglia.

I filibustieri, quantunque esausti per tante ore di combattimento, non si perdono d’animo. Comprendendo che a Panama si ignorava ancora la sconfitta subita dalle navi spagnuole, s’imbarcano sulla fregata e sulla barcaccia catturata, alzano ai corni d’artimone lo stendardo di Spagna e muovono verso quei nuovi nemici che s’accostano fiduciosi, credendo avere da fare coi loro compatriotti.

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12+
Data wydania na Litres:
30 sierpnia 2016
Objętość:
440 str. 1 ilustracja
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