Czytaj tylko na LitRes

Książki nie można pobrać jako pliku, ale można ją czytać w naszej aplikacji lub online na stronie.

Czytaj książkę: «I figli dell'aria», strona 8

Czcionka:

IL TRADIMENTO DEL TARTARO

La casa del tartaro, quantunque avesse le muraglie di fango secco e il tetto di paglia, era un ottimo rifugio, sufficiente ad impedire alle palle di entrare nella stanza inferiore e anche in quella superiore.

La veranda che la circondava era solida e la porta massiccia, formata da grosse tavole di quercia con robusti arpioni di ferro. Quindi poteva servire da fortino contro uomini che dovevano possedere solamente dei pessimi fucili ad avancarica, vecchi di qualche secolo.

Il capitano, assicuratosi con un solo sguardo della robustezza delle pareti, le quali avevano uno spessore di mezzo metro, fece chiudere la porta barricandola con dei macigni che dovevano aver servito da sedili, poi salì nella stanza superiore per spiare meglio le mosse dei manciù. Come quella inferiore, non aveva per mobili che delle stuoie di nervature di bambù e una lanterna di carta oliata e scolorita dal lungo uso. In un angolo però si vedeva uno di quei letti usati dai contadini cinesi, fatti di mattoni con uno spazio vuoto al disotto onde collocarvi il fuoco durante le notti fredde e poche coperte di grosso feltro molto logoro.

Vi erano invece numerosi vasi di terra ripieni di acquavite di riso e una collezione di pipe per fumare l’oppio.

I tre aeronauti, accertatisi di essere soli, si affacciarono alla finestra che metteva sulla veranda e dalla quale si dominava un vasto tratto di foreste. I soldati manciù erano ancora lontani tre o quattrocento metri, e s’avanzavano lentamente, senza alcuna precauzione, chiacchierando e ridendo forte. Erano una dozzina, luridissimi, stracciati, con dei cappelli di feltro nero a tesa ripiegata e infioccati, lunghe zimarre di cotone azzurro e alti stivali di grossa stoffa nera colla suola bianca. Sulle spalle portavano una cappa di pelle di montone colla lana all’infuori e dei moschettoni lunghi, pesanti e a miccia.

– Che splendidi guerrieri! – esclamò Rokoff. – Non saranno certamente quelli che ci metteranno fuori combattimento.

– Bada – disse Fedoro. – Sono robusti e coraggiosi.

– Che ci siamo ingannati? – si chiese il capitano. – Non mi pare che abbiano idee bellicose costoro. Non vedete come si avanzano tranquilli, senza nemmeno accendere le micce dei loro fucili?

– È vero – rispose Fedoro. – Che vengano qui per bere un po’ di acquavite? Quel tartaro doveva essere qualche taverniere.

– Tuttavia si dirigono verso questa casa e non potremo rifiutarci dal riceverli – disse Rokoff. – Ah! che idea!

– Che cosa volete dire? – chiese il capitano.

– Riceviamoli e facciamo gli onori di casa.

– Ma riconoscendo in noi degli stranieri non ci lasceranno andare liberi – disse Fedoro. – L’europeo non può spingersi oltre le frontiere della grande muraglia, senza esporsi a gravi pericoli.

– Che siano i soldati che ci hanno cannoneggiati?

– Certo, signor Rokoff – rispose il capitano – ed è per questo che non vorrei aver da fare con loro.

– Cerchiamo un mezzo per cavarcela.

– Vorrei ben trovarlo e… se ritirassimo la scala e lasciassimo i soldati padroni della stanza inferiore?

– E portiamo giù questi vasi onde si ubriachino presto, – disse Fedoro. – Giacché il tartaro non c’è, approfitteranno volentieri.

– Buona idea – disse Rokoff. – Sbrighiamoci, i manciù non sono che a cento passi.

Presero le tre pentole più grosse e le portarono nella cucina, poi tolsero i massi e socchiusero la porta, senza che i mangiatori d’oppio aprissero gli occhi. Russavano così sonoramente, che nemmeno il cannone li avrebbe svegliati.

Il capitano e i suoi compagni risalirono rapidamente nella stanza superiore, ritirarono la scala e chiusero il vano con una fitta stuoia.

Avevano appena terminato, quando i manciù giunsero dinanzi alla porta. Il capofila l’aprì con un poderoso calcio, gridando con voce imperiosa:

– Changhi, portaci del ciam-sciù; abbiamo tanta sete da vuotare tutti i tuoi vasi.

Non ricevendo risposta, entrò seguito da tutti gli altri.

– Changhi è scomparso, – disse un manciù – ed ha lasciato a guardia della sua casa questi sei ubriachi. Bah! Non protesteranno se noi diamo l’assalto a questi vasi che pare siano stati messi qui per noi. Tanto peggio per Changhi se non troverà più una goccia di sciam-sciù.

I manciù, bevitori formidabili quanto i cosacchi e gli irlandesi, si sedettero intorno ai vasi e cominciarono a bere a garganella senza occuparsi dei mangiatori d’oppio, i quali d’altronde non avevano interrotto il loro sonno.

I tre aeronauti, sdraiati al suolo, spiavano i bevitori attraverso uno strappo della stuoia. Di quando in quando, or l’uno e ora l’altro, s’alzavano per dare uno sguardo alla foresta, temendo il ritorno del tartaro.

– Appena saranno ubriachi ce ne andremo lestamente – aveva detto il capitano. – Se quel tartaro compare prima, guasterà ogni cosa e vorrei che rimanesse lontano qualche ora ancora.

I manciù, trovandosi liberi, ne abusavano per bere a crepapelle. Le tazze s’immergevano e si vuotavano con rapidità straordinaria, senza estinguere la sete che divorava quei robusti stomaci.

Cominciavano però a provare i primi sintomi dell’ubriachezza. Ridevano, schiamazzavano, parlavano tutti a un tempo, si dimenavano come ossessi e altercavano.

A un tratto uno di loro s’alzò e staccò una pipa che si trovava appesa al muro.

– Cerchiamo dell’oppio! – gridò. – Abbiamo ancora due vasi da bere e Changhi non è ancora giunto.

– Così si ubriacheranno più presto – disse Fedoro.

– Si vede il tartaro? – chiese il capitano a Rokoff, il quale si era allora recato sulla veranda.

– Non ancora.

– Se quei manciù continuano a bere con quell’avidità, fra un quarto d’ora saremo padroni del campo.

I manciù, già quasi ebbri, avevano trovato in un vano della parete una grossa pallottola d’oppio, del vero chandoo, il migliore che si conosca e che è molto apprezzato dai cinesi, e anche parecchie pipe adatte per fumarlo.

Sono un po’ diverse da quelle usate dai fumatori di tabacco.

Si compongono d’un tubo cilindrico, lungo ordinariamente mezzo metro, aperto da una parte e chiuso dall’altra e d’un fornello di forma conica situato a circa dieci centimetri dall’estremità che è chiusa.

Essendo l’oppio sciropposo e impregnato sempre d’umidità, prima di versarlo nella pipa lo si mette in un cucchiaio e lo si riscalda fino a che abbia preso una certa consistenza.

Ciò ottenuto lo si versa sull’orlo del fornello e lo si accende avvicinandolo a un bastoncino d’incenso o semplicemente alla fiamma del focolare.

I manciù, preparate ed accese le pipe, ricominciarono a bere con maggior ardore, alternando oppio e acquavite di riso. Una densa nuvola di fumo oleoso invase ben presto la stanza sfuggendo lentamente attraverso la stuoia.

– Ci ubriacheremo anche noi – disse Rokoff, alzandosi.

– Credo che sia il momento di andarcene – disse il capitano. – Ormai i soldati non lasceranno i vasi, finché rimarrà in fondo una goccia di liquore. Si vede nessuno fuori?

– No – rispose Fedoro.

– Dove sarà andato il tartaro? Questa assenza così prolungata non mi tranquillizza affatto.

– Lasciamolo dove si trova e sgombriamo – disse Rokoff. Afferrò la scala e la calò fuori della veranda.

– A voi, capitano – disse.

– Eccomi – rispose il comandante, afferrando il fucile.

Diede un rapido sguardo sotto le piante e non vedendo o almeno credendo che non vi fosse alcuno, scese rapidamente.

Era appena giunto a terra e Rokoff e Fedoro stavano scendendo l’uno dietro all’altro, quando un lampo balenò dietro un cespuglio, seguito da una fragorosa detonazione e dal ben noto fischio della palla.

Il capitano si volse rapidamente, puntando il fucile. Un uomo fuggiva rapidamente attraverso le piante, cercando di ripararsi dietro ai tronchi.

– Canaglia! – gridò il comandante. – Lo sospettavo!

Lasciò partire i due colpi. L’uomo che fuggiva cadde senza mandare un grido, scomparendo in mezzo a un cespuglio.

Rokoff e Fedoro con un solo salto erano balzati a terra, preparando le armi.

– Fuggiamo! – gridò il cosacco. – I soldati!

– Dove? – chiesero Fedoro e il capitano.

– Eccoli là che si avanzano fra gli alberi. Due o tre colpi di fucile rimbombarono.

Dei soldati accorrevano fra i tronchi dei pini e delle querce, facendo fuoco.

– Via! – gridò il capitano, ricaricando prontamente il fucile.

Tutti e tre si slanciarono furiosamente innanzi, raccomandandosi alle proprie gambe e dirigendosi verso l’Hoang-ho. I manciù si erano già gettati sulle orme dei fuggiaschi, continuando a sparare con nessun successo, perché le palle, mal dirette, non colpivano che i tronchi degli alberi.

In un quarto d’ora il capitano e i suoi compagni giunsero sulla riva del fiume, a breve distanza dalla barca.

I manciù, che si fermavano sovente per caricare i loro moschettoni, erano rimasti molto indietro. Tuttavia si udivano le loro grida avvicinarsi.

– Presto, imbarchiamoci – disse il capitano.

– Andiamo all’isolotto? – chiese Rokoff prendendo i remi.

– No, passiamo sull’altra riva. Sarebbe pericoloso mostrare ai manciù che noi abbiamo stabilito il nostro domicilio su quest’isola.

La scialuppa, spinta poderosamente innanzi dal cosacco, tagliò la corrente obliquamente, dirigendosi verso la riva sinistra, che si trovava lontana quasi tre chilometri.

Per metterla al coperto dal fuoco dei soldati, Rokoff prima si accostò all’isolotto, onde ripararsi dietro di esso.

Il capitano e Fedoro si erano sdraiati a poppa, tenendo i fucili in mano. I manciù cominciavano a comparire.

Urlavano come belve feroci e saltavano come capre. Giunti sulla riva si sparpagliarono dietro i tronchi dei pini e delle querce, aprendo una nutrita fucilata.

Erano una ventina e alla loro destra si vedeva il tartaro. Il briccone era miracolosamente sfuggito ai colpi del capitano e per paura degli altri si era lasciato cadere, fingendosi morto.

– Canaglia! – esclamò il comandante dello «Sparviero», scorgendolo. – Peccato che i nostri fucili da caccia non abbiamo che una portata assai limitata. Se avessi un Mauser o uno dei miei Winchester, non grideresti tanto.

Il fuoco dei manciù continuava senza interruzione, ma le armi degli aeronauti non potevano servire più, in causa della distanza; nemmeno quelle antichissime dei soldati riuscivano a colpire il bersaglio.

Qualche palla, è vero, giungeva fino alla scialuppa, senza avere la forza di traforare le tavole.

Rokoff, che arrancava con furore, con pochi colpi di remo raggiunse la punta meridionale dell’isolotto, virò prontamente di bordo, scomparendo agli occhi dei manciù, poi riprese la corsa verso la riva opposta.

Il capitano e Fedoro, entrambi in piedi, guardavano fra gli alberi per vedere se il macchinista compariva. Quegli spari dovevano averlo allarmato e fattogli interrompere la riparazione.

La scialuppa si era allontanata di cinquanta o sessanta metri, quando lo videro comparire fra i canneti.

– Non mostrarti! – gli gridò il capitano, mentre i manciù riprendevano il fuoco mandando le loro palle sopra l’isolotto. – Ti aspettiamo laggiù: affrettati.

Il macchinista fece col capo un cenno affermativo, poi lo videro slanciarsi fra le piante e scomparire.

– Che la riparazione sia quasi finita? – chiese Fedoro.

– Se il macchinista ha lavorato sempre, fra qualche ora lo «Sparviero» potrà rialzarsi – rispose il capitano.

– E se i manciù attraversano il fiume?

– Fuggiremo lasciando la cura al macchinista di raggiungerci.

– E se sbarcassero sull’isolotto?

– Perché dovrebbero prendere terra colà? Vedono bene che ci dirigiamo verso la riva opposta, quindi non si occuperanno che di noi. Io credo che nessuno abbia veduto lo «Sparviero» scendere in mezzo al fiume. E poi, almeno pel momento, non hanno barche.

– Che sia stato il tartaro a tradirci?

– Non ho più alcun dubbio – rispose il capitano. – Mentre noi facevamo colazione, si è recato al fortino ad avvertire i soldati della nostra presenza. Forse contava su qualche premio.

– Briccone!

– E l’ha avuto – disse Rokoff, ridendo. – Tre vasi di sciam-sciù vuotati e che i soldati non gli pagheranno di certo.

– Ci siamo! E non vedo alcuna capanna.

La scialuppa si era arenata su un banco di sabbia il quale si prolungava fino alla riva.

I tre aeronauti la trascinarono più innanzi onde la corrente non la portasse via, poi si diressero verso la foresta la quale bagnava le radici dei suoi ultimi alberi nelle acque del fiume.

Il luogo pareva deserto. Non vi erano che pini, querce, alberi del sevo, giuggioli e bande di uccelli.

Rokoff si avventurò sotto gli alberi per qualche centinaio di passi, giungendo sulla sponda d’una vasta palude ingombra di canne e da dove lo sguardo poteva spaziare liberamente per parecchie miglia.

Intanto i manciù, dopo aver sprecato buona parte delle loro munizioni, non ottenendo altro risultato che quello di spaventare gli uccelli acquatici, si erano diretti verso il nord seguendo la riva del fiume, onde poter meglio sorvegliare le mosse degli stranieri e fors’anche colla speranza di trovare qualche giunca.

Invece, in quella direzione non si scorgeva alcun veliero e nemmeno una di quelle barche che servono pel trasporto del riso o del tè e che sono, di solito, così numerose sull’Hoang-ho.

– Si vede che non hanno rinunciato alla speranza di darci la caccia – disse il capitano, che li aveva seguiti collo sguardo.

– Se trovano qualche imbarcazione attraverseranno il fiume.

– Capitano, accettate un mio consiglio? – chiese Rokoff, il quale era ritornato dalla sua esplorazione.

– Dite pure.

– Risaliamo il fiume anche noi.

– Ed a quale scopo?

– Per allontanare sempre più i soldati dall’isolotto e per respingere a fucilate le giunche che potrebbero scendere l’Hoang-ho e venire requisite dai nostri avversari.

– La vostra idea non mi piace. Lo «Sparviero» ci raggiungerà egualmente e così facendo allontaneremo ogni pericolo pel nostro macchinista e per l’aerotreno.

– E potremo continuare la nostra caccia – aggiunse Fedoro.

Tornarono verso il banco e ripresero i loro posti nella scialuppa, rimontando lentamente la corrente e oltrepassando l’isolotto.

I manciù rivedendoli comparire li salutarono con selvaggi clamori, ma sapendo che il loro fuoco non sarebbe stato efficace in causa della distanza, non sprecarono le munizioni.

I tre aeronauti finsero di non essersi nemmeno accorti della loro presenza e continuarono tranquillamente il loro viaggio, sparando di quando in quando qualche colpo di fucile contro le anitre mandarine, i marangoni, i beccaccini e le oche che erano sempre numerose.

Avevano già percorso tre o quattro miglia facendo delle frequenti fermate per raccogliere i volatili che abbattevano, quando Fedoro, che si trovava a prora, mandò un grido di rabbia:

– Stiamo per venire presi!…

– Da chi? – chiesero a una voce Rokoff e il capitano.

– Una giunca di guerra scende il fiume!

– Per tutte le steppe del Don! – esclamò Rokoff. – L’avventura minaccia di finire male!…

– E lo «Sparviero» è ancora ammalato! – esclamò Fedoro. – Dove fuggire?

Il capitano non rispose. Invece di guardare la giunca aveva volti gli occhi verso l’isolotto, dove vedeva apparire e agitarsi al disopra degli alberi, le immense ali del suo aerotreno.

– Giungeranno troppo tardi – disse finalmente. – Lo «Sparviero» fra poco sarà qui e ci rapirà sotto gli occhi dei manciù e dell’equipaggio della giunca. Signor Rokoff, ridiscendiamo la corrente.

IL DESERTO DI GOBI

Il veliero segnalato da Fedoro, era una di quelle massicce navi che i cinesi chiamano ts’ tao ch’ wan, che il governo imperiale ha ormai relegate sui grossi fiumi, dopo la riorganizzazione della flotta, onde tenere in freno i pirati che pullulano su tutti i corsi d’acqua dell’interno.

Mostruose carcasse, del resto, che non offrono alcuna resistenza al tiro delle moderne artiglierie e che non sono affatto maneggevoli, di forme barocche e tozze, pessimi velieri, insomma.

Scorgendo i manciù, i quali facevano numerosi segnali, il comandante della nave aveva modificata la sua rotta per andarli a raccogliere, immaginandosi che qualche motivo imperioso richiedesse il suo appoggio.

Sapendo Fedoro che le giunche da guerra portano cannoni e numerosi equipaggi, aveva consigliato Rokoff di gettarsi subito dietro l’isolotto, onde non rimanere esposti al fuoco del veliero.

– Vi giungeremo prima che la giunca abbia imbarcati i manciù – disse il capitano. – Ha da percorrere ancora un miglio e questo tempo sarà a noi bastevole.

– E potremo resistere noi, se lo «Sparviero» non sarà pronto a spiccare il volo?

– Ho veduto le ali muoversi, quindi è segno che il macchinista ha compiuto la saldatura. Signor Rokoff, appoggiate sull’isola. Vedo i manciù fare dei segnali alla giunca.

– Ancora pochi colpi di remo, signore – rispose il cosacco il quale arrancava furiosamente.

In quel momento si udì la voce del macchinista gridare:

– Capitano! Quando vorrete!

– Hai finito?

– Sì, signore e lo «Sparviero» è pronto ad innalzarsi.

La scialuppa non era che a pochi passi dalla riva e la giunca non era ancora arrivata là dove si erano raggruppati i manciù.

– A terra! – gridò il capitano.

Si erano appena slanciati fra le erbe, quando in lontananza si udirono delle strepitose detonazioni che si ripercossero lungamente sotto le piante che coprivano le sponde.

Un istante dopo una palla colpiva la scialuppa quasi a metà, spaccandola in due.

– Per le steppe del Don! – esclamò Rokoff facendo un salto. – Un momento di ritardo e quel proiettile mi sfondava lo stomaco.

Si gettarono sotto gli alberi, mentre la giunca sparava una seconda bordata massacrando le querce che crescevano presso la scialuppa e si misero a correre a precipizio verso lo «Sparviero».

Il macchinista li aveva già preceduti.

– Vira subito di bordo ed innalziamoci fuori tiro – disse il capitano.

– Subito, signore – rispose il bravo giovane, mettendo in moto ali ed eliche.

La giunca aveva sospeso il fuoco per imbarcare i soldati. Era il momento opportuno per innalzarsi.

Lo «Sparviero» prese la corsa sfiorando il suolo, poi virò quasi sul posto e si spinse in alto descrivendo un immenso semicerchio.

Vedendo quel mostro elevarsi al disopra dell’isola, i cinesi della giunca e i soldati erano rimasti come impietriti, senza pensare a far uso delle loro armi.

Quell’istante di esitazione era stato bastante allo «Sparviero» per raggiungere prima i cinquecento poi i settecento metri.

Quando le artiglierie del veliero tuonarono, ormai era fuori di portata, al sicuro da qualunque offesa.

– Al nord! – gridò il capitano al macchinista.

L’aerotreno, che filava con una velocità di trenta miglia all’ora, varcò il fiume, poi mentre i manciù, furiosi di essere stati così giocati, scaricavano all’impazzata i loro moschettoni, volteggiò al disopra delle foreste, dirigendosi verso il settentrione.

– Dateci ora la caccia, se ne siete capaci – disse Rokoff. – Vi aspettiamo nel deserto di Gobi per offrirvi una bottiglia di gin.

– Credevo che non finisse così bene per noi – disse Fedoro. – Se lo «Sparviero» non fosse stato pronto, non so se a quest’ora saremmo ancora vivi. I cannoni della giunca ci avrebbero massacrati in pochi minuti.

– Ed infatti non tiravano male quei marinai d’acqua dolce. Il macchinista deve aver fatto dei veri miracoli per riparare l’avaria in così breve tempo. Resisterà almeno l’ala?

– Non abbiate alcun timore sulla sua solidità – disse il capitano, accostandosi ai due amici. – L’ho osservata or ora e vi assicuro che non si spezzerà se un’altra palla di cannone non la fracassa di nuovo.

– E dove andiamo ora? – chiese Rokoff.

– Siamo a poche miglia dal deserto e vi ho promesso di farvi assaggiare le trote dei laghi del Caracorum.

– Andiamo a pescare le trote, purché poi pieghiamo immediatamente verso il sud-ovest.

– A suo tempo cambieremo rotta; per ora è impossibile.

– E chi ve lo impedisce, capitano?

– Un motivo che non vi posso comunicare e che non vi riguarda. Vi ho promesso di condurvi in Europa o in India e manterrò la parola e questo deve bastarvi. Macchinista, puoi preparare la cena, mentre io prendo il timone.

– Dove vuole trascinarci quest’uomo? – chiese Rokoff a Fedoro, quando furono soli.

– Lasciamolo fare – rispose il russo. – Noi non abbiamo il diritto d’immischiarci nei suoi affari. D’altronde un giorno conosceremo il motivo di questa sua corsa misteriosa attraverso il deserto. Gli occhi li abbiamo anche noi per vedere.

Il deserto cominciava. Oltrepassata una piccola catena di montagne che limita verso il nord il bacino dell’Hoang-ho, lo «Sparviero» era sceso sopra una sterminata pianura priva di vegetazione e coperta di sabbia in gran parte riparata da un fitto strato di neve.

Era il principio dello Sciamo o meglio del Gobi, il Sahara dell’Asia centrale, che occupa buona parte della Mongolia e che forma come una barriera fra la Siberia meridionale e l’impero cinese propriamente detto.

Non è veramente un deserto arido, come quello africano, e nemmeno così infuocato, anzi d’inverno è freddissimo in causa dei venti gelati che soffiano dalla vicina Siberia e delle nevi che cadono abbondantemente in novembre, dicembre e gennaio.

Se ha dei vasti tratti sabbiosi, ha pure delle steppe dove l’erba cresce molto alta, poi dei corsi d’acqua quali l’Urangu, lo Zankin, l’Oukom e il Kerulen, oltre a parecchi piccoli laghi, sempre ricchi d’acqua.

Esso va dalla catena dei Grandi Altai che giganteggia verso l’ovest a quella del grande Chingan che corre verso l’est, ed è popolato da numerose tribù nomadi che allevano cavalli, cammelli e montoni in gran numero; però al pari dei terribili tuareg del Sahara, si dedicano anche al ladroneggio, taglieggiando e saccheggiando le carovane.

Nel momento in cui lo «Sparviero» scendeva nel deserto, nessun accampamento appariva, quantunque vi fosse entrato in un luogo che ordinariamente frequentavano i nomadi urati, che formano una delle tribù più popolose dello Sciamo.

Non si vedevano altro che numerose lepri, le quali, spaventate dall’ombra proiettata dall’aerotreno, fuggivano in tutte le direzioni, nascondendosi fra i radi cespugli che crescevano qua e là, specialmente nelle bassure.

In alto, invece, volteggiavano grossi falchi e, non meno spaventati dei piccoli corridori, s’affrettavano ad allontanarsi da quel mostro che procedeva con un rombo strano, sbattendo febbrilmente le sue immense ali.

– Che solitudine – disse Rokoff a Fedoro. – Sono tristi le steppe del Don e del Caspio, ma anche questo deserto non è allegro, in fede mia. Si vedessero almeno degli accampamenti!

– Non desiderarli, Rokoff – rispose Fedoro. – Se ci scorgono non mancheranno di darci la caccia e di perseguitarci accanitamente.

– Non potrebbero resistere a lungo a una simile corsa.

– Non dico di no, tuttavia è meglio che si tengano lontani. Sono meglio armati dei tartari, comperando fucili dai russi di Kiathta e una palla può raggiungerci.

– Sono lontani questi laghi del Caracorum?

– Se continuiamo ad avanzare con questa velocità, vi giungeremo prima di domani sera.

– Che il capitano abbia qualche appuntamento in quel luogo?

– Colle trote forse?

– Uhm! Vedremo se saranno trote, mio caro Fedoro. Questa volata verso il nord mi è sospetta.

– Verso il nord-ovest – corresse il negoziante di tè, gettando uno sguardo su una bussola situata presso la prora.

Mentre si scambiavano i loro pensieri, lo «Sparviero» continuava la sua corsa indiavolata, lottando senza fatica contro il gelido vento che soffiava dalla non lontana Siberia. Si era elevato fino a quattrocento metri e di quando in quando deviava ora a destra e ora a sinistra, come se il capitano cercasse un luogo acconcio per discendere.

Vedendo finalmente delinearsi all’orizzonte una piccola catena di alture, puntò verso di essa, spingendo la velocità a quaranta e anche più miglia all’ora. La regione d’altronde era sempre deserta, interrotta solamente da zone nevose sulle quali si vedevano correre, con fantastica rapidità, numerosi cani viverrini, animali somiglianti alle martore, col corpo assai allungato, la testa corta e affilata, le gambe assai basse e il pelame bruno, con striature più oscure. Probabilmente andavano in cerca di qualche laghetto, essendo abilissimi pescatori.

Verso le cinque, nel momento in cui il sole scompariva e che le tenebre calavano rapidissime, lo «Sparviero» calava dolcemente su una collinetta sulla quale crescevano macchie di betulle, di lauri e di piccoli pini.

– La cena è pronta – disse il macchinista.

– E noi siamo pronti a divorarla – rispose il capitano.

– Speriamo che nessuno venga a disturbarci – disse Rokoff.

– Qui non siamo sull’Hoang-ho e finora non abbiamo incontrato alcun abitante. Prima di discendere ho osservato attentamente i pendii della collina e non ho scorto alcun accampamento.

– Signori, quando vorrete.

Quantunque soffiasse un vento freddissimo, cenarono sul ponte, al riparo d’una tenda di feltro che il macchinista aveva tesa onde non si spegnesse la lampada ad acetilene.

– Ritengo inutile montare la guardia – disse il capitano, quando ebbero finito. – Chiuderemo il boccaporto e dormiremo tranquillamente.

– Non vi sono animali feroci nel Gobi? – chiese Rokoff.

– Sì, degli orsi e dei leopardi delle nevi, ma il fuso è troppo solido per le loro unghie. Signori, andiamo a dormire.

Alzarono le ali onde qualche animale non le guastasse, chiusero il boccaporto e si ritirarono nelle loro cabine, augurandosi la buona notte.

Rokoff, che non era molto stanco, invece di chiudere gli occhi e di spegnere la sua lampadina, si gettò sul letto per fumare ancora qualche pipata di tabacco. Di quando in quando prestava orecchio agli urli del vento che da qualche po’ era aumentato, spazzando la cima della collina e torcendo con mille scricchiolii le cime dei pini, dei lauri e delle betulle e piegando anche le immense ali dello «Sparviero».

Senza sapere il perché, il buon cosacco non si sentiva tranquillo e pensava ostinatamente agli orsi e alle pantere accennate dal capitano.

Stava però per chiudere gli occhi e cedere al sonno, quando gli parve udire dal lato della parete contro cui si appoggiava il lettuccio, degli stridii inesplicabili.

Pareva che delle unghie robustissime grattassero l’esterno del fuso.

– Che sia il vento che rotola dei sassi contro la parete metallica? – si chiese. – Oppure qualcuno che cerca di arrampicarsi sul ponte?

Un po’ inquieto s’alzò a sedere, tendendo gli orecchi. Il vento fischiava fortissimo al di fuori, imprimendo al fuso un leggero fremito, causato probabilmente dalle ali, nondimeno udì distintamente certi stridori poco rassicuarnti.

– Qualche animale cerca d’intaccare la parete metallica – disse Rokoff. – L’alluminio non cederà di certo, ma se quella bestia giunge sul ponte e se la prende colle ali?

Vedendo sospesa sopra il letto una grossa rivoltella, la impugnò, poi prese la lampada ed entrò nella cabina di Fedoro, che si trovava attigua alla sua.

Il russo dormiva profondamente, ben avvolto nella sua grossa coperta di lana.

– Svegliati – gli disse, scuotendolo vigorosamente.

– Che cosa fai qui, Rokoff? – chiese il russo, aprendo gli occhi e guardandolo con stupore.

– C’è qualcuno che cerca di salire sul ponte.

– Hai sognato, Rokoff?

– Non ho ancora chiuso gli occhi.

– Chi può minacciarci? Qui non vi sono i manciù.

– Vi sono delle belve, però.

– Il boccaporto è chiuso e il fuso è solido.

– E se fanno a brani le ali? O se guastano le eliche e gli strumenti?

– Hai ragione Rokoff – disse Fedoro balzando dal letto e infilando rapidamente i calzoni. – Hai svegliato il capitano?

– Siamo in due e basteremo.

– Hai veduta la belva?

– No, invece l’ho udita. Vieni nella mia cabina e prendi anche tu la rivoltella.

Fedoro si vestì e lo seguì frettolosamente.

– Odi? – chiese Rokoff, accostando un orecchio alla parete.

– Sì, il vento che urla.

– Ascolta attentamente, Fedoro.

– Ah! Qualcuno tenta d’intaccare il metallo.

– E sopra? Hai udito?

– Sì, qualche oggetto è stato rotolato sul ponte.

– Che siano i nomadi del deserto?

– Rokoff, andiamo a vedere. Abbiamo dodici palle e di grosso calibro.

– Saliamo, Fedoro.

– Senza avvertire il capitano?

– Noi non sappiamo ancora se esista veramente qualche pericolo; lasciamolo quindi dormire per ora.

– Andiamo, Rokoff.

– Tu prendi la lampada e sta dietro di me.

Salirono in punta dei piedi i quattro gradini che mettevano sotto il boccaporto, poi il cosacco tirò risolutamente la sbarra che tratteneva internamente la botola e saltò fuori, tenendo la rivoltella puntata.

Fedoro lo aveva subito seguito, ma un furioso colpo di vento aveva spento la lampada che teneva nella sinistra.

– Ah! Per le steppe…

Rokoff non finì la frase. Aveva fatto un salto indietro, urtando così malamente il compagno da farlo cadere.

Fra le tenebre aveva veduto un’ombra agitarsi a poppa, presso la ruota del timone. Era un uomo o una belva?

Il cosacco, ancora abbagliato dalla luce della lampada, non poté subito sapere con quale avversario aveva a che fare. Tuttavia puntò risolutamente la rivoltella e scaricò, uno dietro l’altro, tre colpi.

L’ombra mandò un urlo rauco, poi, con un balzo, varcò la balaustrata, precipitando giù dal fuso.

– Colpito? – chiese Fedoro, che si era prontamente risollevato e che si preparava, a sua volta, a far fuoco.

– Ferito, forse – rispose il cosacco, slanciandosi verso la balaustrata.

L’ombra si era subito rialzata e galoppava fra i cespugli, cercando di guadagnare un folto gruppo di betulle. In quel momento il capitano e il macchinista comparvero sul ponte, entrambi armati di carabine.

– Che cosa fate qui, signori? – chiese. – Contro chi avete fatto fuoco?

– Ho sparato contro un animale che passeggiava sul cassero – rispose Rokoff.

– L’avete veduto bene?

– Vagamente.

– Qualche leopardo delle nevi?

– Mi parve piuttosto un orso, capitano – disse Fedoro.

– È fuggito?

– Sì – disse Rokoff.

– Perché non avvertirci? Potevano essere più d’uno e assalirci.

– Avevamo dodici colpi.

– Signori miei, ammiro il vostro coraggio e sono ben lieto d’aver preso con me due uomini senza paura. Ha guastato qualche cosa quell’animale?

– Non mi pare.

– E come vi siete accorti che il ponte era stato invaso?

– Ero ancora sveglio e ho udito qualcuno che cercava di arrampicarsi – disse Rokoff.

– Gli orsi non sono rari nel Gobi, quantunque non molto pericolosi, se soli. Doveva essere un melanoleco, un plantigrado che si trova solamente nel Tibet e nella Mongolia. Domani cercheremo di scovarlo. Andiamo a riprendere il nostro sonno; ritengo che dopo simile accoglienza non gli salterà più il ticchio di venire a passeggiare sul nostro «Sparviero».

Ograniczenie wiekowe:
12+
Data wydania na Litres:
30 sierpnia 2016
Objętość:
420 str. 1 ilustracja
Właściciel praw:
Public Domain

Z tą książką czytają