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Czytaj książkę: «I figli dell'aria», strona 22

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I GIGANTI DELL’HIMALAYA

Mezz’ora dopo quel miracoloso salvataggio, gli aeronauti, seduti dinanzi a una succulenta colazione, raccontavano le loro avventure che per poco non finivano così tragicamente pel russo e pel cosacco, in causa di quel disgraziato sermone o meglio di quel mezzo fiasco di sciam-sciù che aveva fatto girare il capo al predicatore.

Come abbiamo veduto, la predica era terminata malamente e Rokoff era dovuto scappare a precipizio, per non farsi lapidare o, peggio ancora, moschettare dai pellegrini. La paura aveva fatto snebbiare il cervello del cosacco, il quale aveva finalmente compreso quale grosso pericolo si era tirato addosso coi suoi asini pascolanti nelle praterie del nirvana di Buddha e i suoi episodi della guerra russo-turca.

Suo primo pensiero era stato quello di abbandonare subito il monastero assieme a Fedoro, ma il tempo gli era mancato, perché i monaci avevano invaso l’appartamento dei due falsi figli di Buddha, rendendo impossibile qualsiasi evasione.

I due disgraziati, dopo una lotta disperata, erano stati atterrati, legati, e lì per lì condannati a essere divorati vivi dalle aquile e quindi condotti sull’alta montagna, dove avrebbero certamente lasciato la loro pelle, senza il provvidenziale arrivo dello «Sparviero».

Il capitano aveva ascoltato quelle comiche avventure, ridendo a crepapelle. Perfino il muto personaggio non aveva saputo frenare più volte un sorriso.

– Povero signor Rokoff! – esclamò il comandante.

– E tutto in causa di quel sermone.

– E un po’ del sciam-sciù che avevo tracannato per farmi coraggio.

– Chissà quante ne avrete dette sul conto di quel povero Buddha.

– Credo di averlo paragonato a un gran diavolo con venti o trenta corna. Se aveste visto che smorfie faceva il vecchio Bogdo-Lama e che occhiate furiose mi lanciava!

– Ne sono convinto. È stata una vera fortuna che quei buddisti abbiano pensato a farvi divorare dalle aquile. Potevano cacciarvi in una stanza oscura piena di scorpioni o farvi mangiare dai selvaggi di U.

– Allora sarebbe stata proprio finita per noi – disse Fedoro.

– Lo credo, perché non avrei potuto certo salvarvi o sarei giunto troppo tardi – rispose il capitano.

– Ci avreste almeno vendicati – disse Rokoff.

– Avevo già fatto preparare delle bombe ad aria liquida per far saltare il monastero.

– Se lo avessi saputo prima, le avrei gettate sui pellegrini – disse Rokoff. – Perché non dirmelo?

– Dovete averne schiacciati un bel numero con quella pesante cassa. Sono stati abbastanza puniti.

– Avessi almeno accoppato quel monaco barbuto! Capitano, io ne ho abbastanza anche del Tibet; andiamocene al più presto.

– Scendiamo al sud con una velocità di quaranta miglia all’ora. Guardate, anche il Tengri-Nor è scomparso e stiamo rasentando il Nigkorta.

– Non andremo a Lhassa? – chiese Fedoro.

– No, ho fretta di attraversare la grande catena dell’Himalaya e di calare nell’India.

– Attraversando il Nepal?

– È probabile – rispose il capitano.

– E dove finiremo?

– Lo ignoro ancora. Tutto dipende da certe circostanze.

– Non andremo a Calcutta? – insistette Fedoro.

– Non desidero che mi si veda colà.

Il capitano, che non amava, a quanto pareva, spiegarsi sui suoi futuri progetti, si era alzato da tavola accendendo una sigaretta e si era recato a prora dicendo:

– Guardate il Nigkorta: è stupendo.

L’enorme montagna, una delle più alte del Tibet, giganteggiava verso l’est, capofila dell’immenso ammasso di picchi enormi che formava la catena del Nin-thang-la.

Al pari delle altre era tutta coperta di nevi, dalla base alla cima e appariva come un enorme pane di zucchero. Sui suoi fianchi, immensi ghiacciai scintillavano sotto i raggi del sole vomitando senza posa, nelle sottostanti vallate, blocchi colossali di ghiaccio che dovevano più tardi alimentare i fiumi che scendono in gran copia da quel colosso.

Lo «Sparviero», costretto a mantenersi a un’altezza di tremila metri, faticava non poco, in causa delle furiose correnti aeree che s’incrociavano in mille guise e che a ogni istante cambiavano direzione, nondimeno riusciva a percorrere le sue trentacinque o quaranta miglia all’ora.

Alla sera passava sopra Gang-Ischaka, una borgata di qualche importanza, mettendo in subbuglio la popolazione che in quel momento si trovava nelle vie a mungere gli jacks domestici; poi con una rapidissima volata andava a posarsi sulla cima d’una montagna situata trenta miglia più al sud, in un luogo che sembrava deserto.

L’indomani, ai primi albori, il capitano, che pareva avesse molta fretta di attraversare il Tibet, dava il segnale della partenza.

Cominciavano allora ad apparire delle pianure. La regione montuosa spariva a poco a poco per riprendere più tardi il suo impero al di là del Brahmaputra, colla gigantesca catena dell’Himalaya.

Alle due del pomeriggio il capitano additava a Fedoro e a Rokoff un fiume larghissimo che scorreva dall’ovest all’est con larghi serpeggiamenti.

Era il Brahmaputra, uno dei più celebri fiumi dell’Asia, perché le sue acque, al pari di quelle del Gange, vengono ritenute sacre.

Questo gigante fra i giganti, nasce nel Tibet occidentale, sui fianchi settentrionali dell’Himalaya. Si apre un varco attraverso l’infinito numero di montagne che ingombrano il paese dei Lama, poi con una immensa curva entra nell’India per la valle dell’Assan, raccogliendo sul suo corso oltre cinquanta fiumi tutti navigabili e va a scaricarsi in mare dopo duemilacinquecentosettanta chilometri di percorso.

È più lungo del Gange e ha una massa d’acqua assai maggiore, ma è meno sacro del primo per gl’indiani, quantunque sia chiamato il figlio di Brama. Nel momento in cui lo «Sparviero» lo attraversava, numerosi battelli solcavano le acque del fiume, carichi di mercanzie. I battellieri, scorgendo quel mostro che sbatteva le sue immense ali, presi da una irrefrenabile paura, si erano precipitati in acqua, urlando come se fossero diventati pazzi.

– Noi spargiamo il terrore dappertutto – disse Rokoff. – Vedremo se anche gl’indiani fuggiranno.

– Se ci vedranno – disse il capitano.

– Viaggeremo di notte?

– Non amo che gl’inglesi mi scorgano.

– Non volete aver rapporti coi popoli civili? – chiese Rokoff, sorpreso.

– Per ora no.

– Eppure avete attraversato l’America.

– E chi mi ha veduto? – chiese il capitano. – Avete mai udito raccontare che una macchina volando sia stata osservata a Nuova York, o a Nuova Orleans, o a Buffalo, o a San Francisco di California?

– No, mai, signore.

– Eppure io sono passato su tutte quelle città.

– E perché non volete che i popoli civili ammirino il vostro «Sparviero»?

– Per ora è un segreto che non vi posso svelare, signor Rokoff. Ah! Che cosa sono questi punti bianchi? Guardate questa strana nube che stiamo attraversando.

Lo «Sparviero» correva in quel momento sopra le montagne del Giangtse, le quali s’alzavano in forma d’immensi scaglioni, spingendo le loro cime a tremilanovecento metri.

La gigantesca catena dell’Himalaya non era lontana, quantunque non si scorgessero ancora le vette di quei colossi che separano il Tibet dall’India.

Il passo era ancora popolato. Villaggi e borgatelli comparivano di quando in quando e anche numerose carovane di cammelli e di jacks si vedevano salire faticosamente le strette vallate dei monti.

Verso sera lo «Sparviero» si abbassava sulle rive del Tsono, un lago perduto quasi ai confini tibetani, rinchiuso fra montagne altissime. Il freddo era aumentato in causa della vicinanza degli immensi ghiacciai dell’Himalaya e soprattutto del gigantesco Dorkia, costringendo gli aeronauti a riprendere le loro vesti d’inverno e a riaccendere la stufa.

– Sarà domani che passeremo la grande catena? – chiese Rokoff al capitano, prima di ritirarsi nella sua cabina.

– A mezzodì passeremo presso il Dorkia – rispose il comandante.

– E non andremo a vedere l’Everest?

– Lo scorgeremo egualmente, essendo visibile a distanza incredibile.

– Sicché non andremo verso l’ovest?

– No, scenderemo in India attraverso il Butan. Buona notte, signor Rokoff, a domani.

Erano appena le quattro del mattino, quando lo «Sparviero» riprendeva il volo per attraversare la grande catena che doveva condurlo in India. Già i primi contrafforti apparivano in forma di altipiani, i quali s’innalzavano rapidamente. costringendo gli aeronauti a portarsi sempre più in alto per non urtare contro quegli enormi ostacoli.

La vegetazione scompariva rapidamente. Non più foreste di pini e di abeti, non più praterie verdeggianti, dove pascolavano prima cavalli e mandrie di jacks e anche non più villaggi. Cominciava un deserto di neve e di ghiaccio. Fu verso il mezzodì, quando le brume che coprivano l’orizzonte si furono sciolte, che agli sguardi ansiosi e meravigliati degli aeronauti apparve l’imponente massa dell’Himalaya coronata di nevi e di ghiacci. I mostruosi colossi, fra i quali primeggiava il Dorkia, che spingeva la sua vetta a oltre settemila metri, chiudevano tutto l’orizzonte meridionale, accavallandosi confusamente e mostrando vallate gigantesche, attraverso le quali si vedevano serpeggiare fiumi dal corso impetuoso. All’ovest, a una grande distanza, scintillava l’enorme Gaurinkar, o meglio l’Everest, il monte santo degl’indiani, il più mostruoso picco del globo, il re delle montagne, perché supera tutti toccando un’altezza di ben ottomilaottocentosessanta metri.

La catena dell’Himalaya, che è la più vasta che esista sul nostro pianeta, e che in sanscrito significa luogo nevoso, perché è sempre coperta di nevi anche durante l’estate, corre dal Bengala al Cascemir per uno spazio di 1.096.000 chilometri quadrati, limitata all’est dal Brahmaputra e all’ovest dall’India, i due più grandi fiumi della penisola indostana.

Ancora cent’anni or sono era pochissimo nota agli europei, in causa delle ostilità dei montanari e soprattutto delle tribù dei Gorka, le quali negavano ostinatamente il passo agli esploratori inglesi, come se temessero che i piedi degli uomini bianchi portassero sventura o scatenassero i Mani nascosti nelle caverne di quelle enormi montagne.

Fu solamente nel 1809 e poi nel 1815 che gli ufficiali inglesi, approfittando della guerra che combattevano contro le tribù montanare del Bopal, poterono spingersi su per quelle immense vallate e quindi misurare una ad una le altezze delle montagne con strumenti così imperfetti, da non poter dare a essi la loro esatta dimensione.

Kirpatrik e Fraser, due distinti ufficiali, furono primi a tentare l’ascensione di quei colossi, seguiti poi dal capitano Webb e da Colebrosk. Il colonnello Waugh saliva in seguito l’Everest, poi Humbold il Fawahir, Gerard il Chipca-Pic ai confini della Tartaria cinese, poi Hodgson e il tenente Herbet visitavano la catena centrale, scoprendo nel 1821 la vera sorgente del maestoso Gange, il fiume sacro degli indiani, situato a circa 4.480 metri, vicino al Vanaro Fuga. Oggi tutta la catena è nota e tutti i monti sono stati esplorati e misurati scrupolosamente.

Questo enorme ammasso di montagne ha undici passaggi posti però ad altezze che variano fra i cinquemila e i seimila metri, ventisette picchi culminanti che toccano i seimilacinquecento metri fino ai settemilaseicentosettanta e un numero infinito di ghiacciai situati a un’altezza straordinaria, quasi quanto il Chimborazo, il colosso dell’America meridionale.

Tutti gl’indiani hanno una grande venerazione per la catena dell’Himalaya, che per loro è d’origine santa e da migliaia e migliaia d’anni milioni di pellegrini si recano a visitare i templi sparsi su quelle giogaie. Anzi, secondo una loro tradizione, esisterebbe fra quei monti un lago sacro ove risiederebbe la dea Yamuna, che nessuno può vedere perché verrebbe arrestato prima di giungervi.

– Che cosa ne dite di queste montagne? – chiese il capitano, mentre lo «Sparviero», che aveva raggiunto un’altezza di cinquemilacinquecento metri, imboccava un vallone che s’apriva da un fianco orientale del Dorkia.

– Mettono spavento – disse Rokoff.

– Un panorama meraviglioso, unico al mondo – rispose Fedoro. – Che cosa sono i nostri Urali in confronto a questa catena? Delle semplici colline, meno ancora, dei monticelli di terra.

– Farebbero una meschina figura anche le Alpi, che pure sono annoverate come una meraviglia dell’Europa – disse il capitano. – Questi colossi vincono tutti.

– E animali se ne trovano qui? – chiese Rokoff.

– Qualche orso. Quando però avremo raggiunto la falda boscosa, che ha una estensione considerevole, non avrete a lamentarvi della selvaggina. Troveremo sciacalli, tigri, elefanti, rinoceronti e orsi in maggior numero.

– Spero che non lasceremo l’India senza aver almeno dato la caccia a qualche tigre – disse Rokoff.

– Vi condurrò più tardi in un luogo ove ne troverete quante vorrete – rispose il capitano. – Probabilmente sarà là che noi ci lasceremo.

– Per sempre? – chiesero a una voce Rokoff e Fedoro.

– Chi può saperlo? – rispose il capitano. – Può darsi che un giorno noi possiamo di nuovo vederci. Che cosa direste, per esempio, se io venissi a trovarvi a Odessa o fra le steppe del Don? Sbrigate certe faccende che non vi posso spiegare, tornerò libero e allora… guardate laggiù quella fortezza appollaiata come un’aquila, su quel dirupo. È Pharò, l’ultima del Tibet; laggiù ecco il Tabilung, un bel monte che separa questa regione dal piccolo Stato di Sikkim. Signori, stiamo per entrare nell’India: il Butan non è che a due passi.

Lo «Sparviero» era uscito da quell’immenso vallone aperto fra la catena e ora volava su un caos di picchi e d’altipiani nevosi, mantenendosi sempre a un’altezza che variava fra i cinque e i seimila metri. Avanzava sempre faticosamente in causa dei venti che turbinavano su quei desolati altipiani con mille ruggiti e mille sibili, fra le gole spaventevoli che si aprivano in tutte le direzioni, veri baratri scavati dai fiumi di ghiaccio che scendevano dagli enormi ghiacciai della catena e dalle acque che si vedevano precipitare dovunque, in gigantesche cascate. Alle quattro del pomeriggio anche la piccola fortezza veniva lasciata indietro, senza che il suo presidio si fosse accorto del passaggio del mostro volante e mezz’ora dopo gli aeronauti varcavano la frontiera tibetana, entrando nel Butan.

L’India s’apriva dinanzi a loro coi suoi fiumi giganti, le sue sterminate foreste, le sue giungle immense e le opulente città.

ATTRAVERSO IL BUTAN

Il Butan, che gli intrepidi aeronauti si preparavano ad attraversare, prima di scendere nelle pianure del Bengala, bagnate o fertilizzate dalle sacre acque del Gange, è uno stato indipendente rinchiuso fra le montagne imalaiane e si può considerare come un’appendice del Tibet.

E infatti gli abitanti rassomigliano ai loro vicini, quantunque siano più vigorosi e anche più bellicosi; hanno un governo eguale, diviso fra il debrajah che è il governatore civile e il dharme rajah o capo spirituale che è, come i Buddha viventi, l’incarnazione del precedente Dharme. Essi sono del pari seguaci del buddismo.

Invece di continuare la sua corsa verso il sud, dove le montagne giganteggiavano sempre, lo «Sparviero» si era diretto verso l’est, come se il capitano avesse avuto intenzione di entrare nella provincia indiana d’Assam, invece che di scendere nel Bengala.

Rokoff, che si era accorto di quel cambiamento di rotta, ne aveva fatto osservazione al capitano, il quale in quel momento stava osservando una carta dell’India.

– Il Bengala è ormai troppo inglese – aveva risposto il comandante. – E poi desidero vedere la capitale di questo Stato e scendere più tardi lungo il Brahmaputra.

– Ritroveremo ancora quel fiume che abbiamo già attraversato nel Tibet?

– Sì, signor Rokoff.

– E poi?

– Ecco dei montanari che si preparano a farci cattiva accoglienza – disse il capitano, senza rispondere alla domanda. – Teniamoci alti; qui hanno dei fucili di lunga portata e d’una precisione che stupirebbe i migliori armaioli.

– Anche qui non amano gli uomini bianchi?

– Non li vedono troppo volentieri, quantunque nella capitale di questo Stato risieda un rappresentante consolare inglese per la protezione degli europei. Anche oggidì di quando in quando fanno un’alzata di scudi e danno addosso ai coloni anglo-indiani, senza preoccuparsi delle continue minacce del governatore del Bengala. A voi il cannocchiale; li vedete su quell’altura?

Due o tre dozzine d’uomini sbucati da un vallone, si erano radunati su una piccola piattaforma e guardavano con stupore lo «Sparviero», tenendo in mano delle lunghe carabine. Più coraggiosi dei cinesi, dei mongoli e anche dei tibetani, invece di fuggire si preparavano a moschettare l’enorme uccello, che scambiavano probabilmente per qualche aquila mostruosa.

Erano tutti di statura alta e vigorosa, colla pelle quasi bianca, capelli neri e corti, per lo più gozzuti e molto sporchi. Indosso avevano dei mantelloni di pelle di montone, col pelo all’infuori e ai piedi stivali che salivano fino alle cosce.

Quando parve loro che lo «Sparviero» fosse a tiro, si gettarono a terra, nascondendosi dietro le rocce e lo salutarono con una scarica nutrita.

– Ho udito qualche palla fischiare – disse Fedoro.

– Non mi stupisco – rispose il capitano – eppure ci troviamo a milletrecento metri. Non sono i moschettoni a miccia dei tibetani questi; sono buone carabine di precisione. Guardiamoci da questa gente e questa sera riprendiamo i nostri quarti di guardia. Il deserto finisce qui e su questi territori non siamo sicuri né da parte degli uomini, né delle belve.

– Dove ci fermeremo? – chiese Rokoff.

– Sulle frontiere dell’Assam. Ora che non ci sono più correnti d’aria furiose, marciamo con una velocità di quaranta o forse più miglia all’ora. Fra poco ci libreremo sopra la capitale del Butan.

Lo «Sparviero» precipitava la corsa, mantenendosi sempre a un’altezza di milleduecento o milletrecento metri per evitare le catene di montagne che sorgevano un po’ dappertutto.

Il paese era sempre scarsamente popolato. Non si vedevano che pochissimi villaggi, per lo più costruiti malamente, con pietre e tronchi d’albero, con pochi tratti di terreno coltivato a granturco e a orzo. Abbondavano invece i buoi, i montoni e i cavalli, i quali scorrazzavano sugli altipiani erbosi.

Mezz’ora prima del tramonto, lo «Sparviero», come aveva predetto il capitano, passava con velocità fulminea su Tassesudon, la capitale dello Stato, spargendo un vivo terrore fra gli abitanti, i quali, vedendo quel mostruoso volatile, si precipitavano per le vie urlando e battendo furiosamente i gong, certo per spaventarlo e costringerlo a fuggire.

Tassesudon è la residenza del deb-rajah e viene annoverata come la principale fortezza del Butan, avendo mura massicce che hanno un’altezza di oltre trenta piedi e solidi bastioni.

Nel mezzo giganteggiava il palazzo reale, una costruzione enorme, in forma di parallelogramma, a otto piani e il tetto a punta adorno d’antenne e di bandiere, con sulla cima una statua rappresentante Mahamonnie, una delle divinità adorate dai butani. Le case degli abitanti, invece, sorgevano più lontano, disposte a casaccio e senza ordine, per lo più in legno e a un solo piano.

Gli aeronauti ebbero appena il tempo di gettare uno sguardo sulla città. Lo «Sparviero», spinto da un vento fortissimo che soffiava dalle altissime giogaie degli Himalaya accelerava sempre la corsa, diventata ormai vertiginosa. Il capitano, vedendo delinearsi verso il sud una catena coperta di folte boscaglie, lanciò la macchina volante in quella direzione, non osando scendere nei dintorni della città.

Non fu che verso le dieci della sera che quei monti furono raggiunti. Trovato un posto sgombro d’alberi, lo «Sparviero» discese lentamente su un piccolo altipiano che era circondato da nim, alberi dal tronco colossale e dal folto fogliame, da splendide mangifere, da pipal e da superbi palmizi tara.

Stava per adagiarsi su un folto e altissimo strato di kalam, erbe dure che raggiungono un’altezza considerevole, quando il capitano, che stava osservando i dintorni, indicò a Rokoff alcune ombre che si dirigevano verso la foresta.

– Animali? – chiese il cosacco.

– E di quelli che vi piacciono tanto arrostiti – rispose il capitano. – Vi ricordate dei laghi del Caracorum?

– Ma quelle bestie non sono trote.

– Parlo di orsi io, o meglio di zamponi d’orso.

– E come? Vi sono anche qui di quei plantigradi?

– Appartenenti ad un’altra famiglia, pure egualmente squisiti, mio caro signor Rokoff. Quello che avete ucciso nel Caracorum era un melaneco; questi che fuggono sono invece dei labiati, più grossi e anche più pericolosi.

– E li lasceremo andare?

– Avete sonno, signor Rokoff?

– No, capitano.

– Accettereste una partita di caccia notturna all’agguato? Siamo scarsi di viveri e prima di lasciare l’India dovrò rinnovare le mie provviste, non desiderando accostarmi ad alcuna città. Per ora gli orsi; più tardi andremo a cacciare nelle giungle, dove i bufali abbondano al pari delle tigri e dei rinoceronti. Questi pochi giorni che passeremo ancora assieme, li dedicheremo alla caccia. Vi piace, signor Rokoff?

– Vorrei che si prolungassero indefinitamente per non lasciarvi.

– Che cosa volete, signor Rokoff? Devo andarmene lontano, molto lontano.

– E dove?

Il capitano col braccio indicò il settentrione.

– Lassù – disse.

– Ritornerete nel Tibet?

– Più su ancora.

– In Mongolia?

– Non so, vedremo – rispose il capitano. – Se dal personaggio che ci accompagna non avessi appreso certe cose, invece di scendere in India vi avrei condotto per lo meno fino al Caucaso, facendovi attraversare il Turchestan e la Persia…; chissà che un giorno, in qualche angolo del mondo ci possiamo ancora incontrare e farvi fare un altro meraviglioso viaggio… speriamolo… Signor Rokoff, ceniamo e poi andiamo a vedere di sorprendere qualche orso.

– Abbondano qui quei plantigradi?

– Il Butan e anche il Nepal sono molto frequentati da quegli animali. Non torneremo colle mani vuote, ve lo assicuro e forse riusciremo ad abbattere anche dei black-bok.

– Che animali sono?

– Dei caproni neri, che hanno delle costolette eccellenti.

Essendo la cena pronta, mangiarono in fretta, raccomandarono ai compagni di fare buona guardia, dividendosi i quarti, poi armatisi di carabine express e munitisi di abbondanti munizioni e d’una fiasca di brandy per combattere il freddo che si faceva sentire, lasciarono il fuso, dirigendosi verso la foresta. La notte era chiara, perché la luna si era già alzata e nessuna nube offuscava il cielo; vi era quindi qualche probabilità di poter sorprendere gli orsi che, ordinariamente, si tengono nascosti durante le notti oscure e umide.

Il capitano e Rokoff attraversarono velocemente le alte erbe che crescevano intorno al fuso, occupando tutto il piccolo altipiano e raggiunsero il margine della foresta, arrestandosi un momento ad ascoltare.

Un profondo silenzio regnava sotto la cupa ombra delle mangifere e dei pipal. Solamente in lontananza si udiva qualche rado urlo di cane selvaggio, urlo più prolungato e più acuto di quello che lanciano gli sciacalli.

– Cerchiamo un posto per metterci in agguato – disse il capitano. – Fra poco questo silenzio verrà rotto dalle belve.

– Vedo là un grosso albero il cui tronco è circondato da folti cespugli – disse Rokoff, indicando un maestoso nim, che sorgeva isolato nel mezzo d’una minuscola radura.

Si diressero da quella parte, coi coltelli s’aprirono un passaggio, e fatto intorno a loro un piccolo spazio, stesero a terra le coperte che avevano portato.

– Il posto è buono – disse il capitano, dopo d’aver armato la carabina. – Udite questo gorgoglio?

– Sì – rispose Rokoff.

– Indica la vicinanza d’una sorgente o d’un torrentello. Gli animali non tarderanno a venire a dissetarsi.

– Gli orsi neri?

– Forse anche gli orsi. Perbacco, ci tenete agli zamponi di quei plantigradi?

– Sono così eccellenti.

– Non dico il contrario, signor Rokoff.

Accesero le pipe, si sdraiarono sulle coperte, si misero le carabine a fianco e attesero che gli animali della foresta uscissero dai loro covi.

Il silenzio che poco prima regnava quasi sovrano, veniva ora turbato con maggior frequenza. Dei rumori, vaghi dapprima, si propagavano sotto le ombre dei palmizi e delle mangifere; ora era un urlo che pareva l’ululato d’un lupo indiano, ora un miagolio rauco di qualche gattone selvaggio, ora invece un fischio acuto. Si trovavano colà da un quarto d’ora, quando il cosacco si sentì cadere addosso un ramo, che lo colpì proprio sul naso.

– Chi mi bombarda? – si chiese.

– Qualche ramo morto che il vento ha spezzato – disse il capitano.

– Non secco, signore – rispose il cosacco, che lo aveva raccolto. – È verde e sembra che sia stato appena spezzato.

– Se vi fossero qui delle scimmie direi che qualcuna si è rifugiata su quest’albero, ma qui non se ne trovano. Le vedremo più abbasso, nelle pianure dell’Assam e del Bengala.

Poco convinto che quel ramo si fosse spezzato da sé, Rokoff s’alzò guardando fra il fogliame del nim, senza riuscire a scorgere alcunché di sospetto.

– Non sta lassù la selvaggina – disse il capitano, che si era pure alzato. – Udite le foglie scrosciare? Qualcuno si avvicina.

Un urlio assordante, un misto di ululati e di latrati echeggiò in quel momento a breve distanza, nel mezzo d’una massa di cespugli che dovevano coprire le rive del torrentello.

– Chi sono questi concertisti scordati? – chiese Rokoff.

– Non fate fuoco – disse il capitano, fermandogli il braccio e abbassandogli l’arma. – Non valgono una palla e poi non ci conviene spaventare la selvaggina.

– Pare che l’abbiano con noi.

– Ci hanno fiutati.

– Che cosa sono? Sciacalli forse?

– No, dei bighana, ossia dei lupi indiani un po’ più piccoli di quelli siberiani e dei russi, tuttavia assai coraggiosi.

– Che vengano a seccarci?

– Non lo credo. Siamo in due e non oseranno farsi innanzi. Sarei però ben contento di fucilarli. Questi bricconi terranno lontana la selvaggina.

– Facciamo una scarica.

– No, signor Rokoff, aspettiamo e…

Un altro ramo era in quel momento caduto, colpendolo sulla testa.

– Diavolo – esclamò. – Prima uno a voi, ora uno a me!

– Vi dico, capitano, che lassù vi è qualcuno che si diverte a bombardarci. Guardate: anche questo ramo è verde ed è stato appena spezzato perché è ancora bagnato di linfa.

– Chi può essersi rifugiato lassù?

– Qualche tigre?

– Non si arrampicano sugli alberi, signor Rokoff, e poi qui non ve ne sono, trovandoci noi ancora troppo alti.

– E quei lupi che pare si avanzino minacciosi? Stiamo per venire presi fra due fuochi?

– Signor Rokoff, che lassù si celino quegli zamponi che tanto vi piacciono?

– Qualche orso?

– I labiati e anche i panda si arrampicano al pari dei gatti.

– E sono pericolosi?

– I primi sì. Assaliti si difendono e strappano gli occhi ai cacciatori.

– Ci tengo a non perdere i miei. Se lasciassimo questi cespugli?

– Se voi ci tenete ai vostri occhi, io non ho alcun desiderio di perdere le mie gambe o per lo meno di lasciare i polpacci fra i denti dei bighana. A giudicare dalle loro urla, devono essere straordinariamente cresciuti di numero. Vedo dappertutto brillare i loro occhi.

– Allora quegli animali sono pericolosi.

– Più degli orsi, in questo momento. Ci hanno circondati e non mi pare che abbiano l’intenzione di lasciarci, senza aver almeno assaggiato un pezzetto delle nostre gambe.

– Proviamo a respingerli – disse Rokoff.

– E l’orso?

– Non lo vedo scendere.

– Una scarica a destra e una a sinistra.

I due cacciatori si fecero largo fra i cespugli, per giudicare prima la loro situazione. Entrambi non poterono reprimere una smorfia di malcontento. I bighana a poco a poco li avevano circondati e si erano radunati in numero tale da temere un furioso assalto. Se ne vedevano dappertutto e s’avanzavano lentamente e incessantemente, stringendo i loro ranghi.

Come il capitano aveva detto, i lupi indiani, quando si trovano in buon numero, sono coraggiosi, anzi non la cedono, per audacia, ai grossi lupi delle steppe e della Siberia.

Somigliano ai loro congeneri del settentrione, sono invece più piccoli, non essendo più alti di sessanta centimetri, né più lunghi di ottanta o novanta. Hanno il pelame rossiccio o grigiastro, colle parti inferiori bianco sporco.

Ordinariamente vivono in piccoli branchi di sette od otto individui; sovente si radunano in grosse bande e allora diventano il terrore dei pastori e dei villaggi montanini. Intelligenti, velocissimi, coraggiosi, si precipitano sui montoni e sui buoi senza spaventarsi delle grida dei mandriani e osano perfino entrare, in pieno giorno, nelle borgate per rapire i bambini sotto gli occhi dei genitori. Il capitano, che li conosceva, vedendoli in così grosso numero, era diventato inquieto.

– Non credevo che in così poco tempo si fossero radunati in tanti – disse a Rokoff. – Il pericolo maggiore non sta alle nostre spalle, bensì dinanzi a noi.

– Cerchiamo un rifugio – disse Rokoff.

– E dove?

– Arrampichiamoci sul nim.

– E avremo da fare i conti coll’orso.

– Non sappiamo ancora se lassù si trovi veramente un tale animale.

– Questo è vero – rispose il capitano.

– Dei due mali, scegliamo il minore.

– Proviamo prima a fucilare questi audaci predoni.

– Sono pronto, capitano.

Le due carabine tuonano quasi contemporaneamente con un rimbombo assordante, coprendo le urla acute dei bighana.

I grossi proiettili atterrano due file di animali. Gli altri indietreggiano vivamente, balzando attraverso i cespugli e s’arrestano cinquanta passi più lontano, riprendendo con maggior lena il loro scordato concerto.

– Non ci lasceranno – disse il capitano. – Vedete l’animale scendere il nim?

– No – rispose Rokoffi. – Ho invece ricevuto un altro ramo sul viso e più grosso degli altri.

– Mettiamo in salvo le gambe; ecco i bighana che tornano a restringere le file e che si preparano per un assalto generale. Caricate la carabina.

– È già pronta.

– Salite, mentre io faccio una nuova scarica.

Il cosacco si gettò a bandoliera l’express, s’aggrappò al tronco e aiutandosi con delle piante parassite che lo avvolgevano, si mise a salire, tenendo gli sguardi volti in alto per paura di vedersi rovinare addosso l’animale.

Il capitano, fatto una nuova scarica, si era affrettato a raggiungerlo. I lupi, furiosi di vedersi sfuggire la preda, si erano subito scagliati contro il tronco del nim, ululando ferocemente e spiccando salti colla speranza di raggiungerli.

Ograniczenie wiekowe:
12+
Data wydania na Litres:
30 sierpnia 2016
Objętość:
420 str. 1 ilustracja
Właściciel praw:
Public Domain

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