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Czytaj książkę: «I figli dell'aria», strona 19

Czcionka:

– Come vuoi che un buddista osi mangiare un animale? Mangeresti tu l’anima di tuo padre, o di tuo fratello, o di qualche caro amico? Qui la metempsicosi vive sovrana.

– Non ti capisco, Fedoro – disse Rokoff.

– Ignori dunque che i buddisti credono che l’anima d’un defunto s’incarni subito nel corpo d’un animale? Se ammazzi un bue, un cavallo, un orso, un cane, un gatto, magari un verme qualunque, potresti uccidere tuo padre incarnato in uno qualunque di quegli animali o insetti.

– Sicché qui le bestie si lasciano vivere.

– Finché muoiono di vecchiaia o per qualche accidente inatteso. Solo, allora, e non tutti i buddisti, osano ancora cibarsi di quelle carni.

– Al diavolo i buddisti e le loro stupide superstizioni. Buon Dio, che cosa mangeremo noi?

– Vediamo, Rokoff; sento sfuggire dei profumi che non mi sembrano sgradevoli.

– Procediamo a una visita e facciamo la scelta.

Alzarono i coperchi cacciando il naso dentro a quindici o venti recipienti d’argento e il cosacco dovette convincersi che non v’era nemmeno l’ombra d’una costoletta o tanto meno del sospirato pezzo d’arrosto.

Vi erano invece delle salse di tutti i colori, dell’orzo bollito nel latte, dei pasticci pure d’orzo, delle erbe di varie specie, condite con certe poltiglie nere. In un grande piatto d’argento scoprirono però un magnifico pesce che nuotava in una certa materia trasparente e gommosa.

– Che questo abitante delle acque non contenesse l’anima di nessun buddista? – chiese Rokoff.

– Hanno fatto forse un’eccezione a noi – rispose Fedoro.

– E noi mostreremo che i figli di Buddha non sdegnano i pesci. Che cosa sarà poi questa salsa?

– Sarà impossibile saperlo. Assaggia, amico Rokoff.

– Non è cattiva, almeno alla mia bocca.

– Allora divoriamo, finché si scalda l’acqua del tè.

Il pesce scompare ben presto, quantunque dovesse pesare almeno quattro chilogrammi, poi a poco a poco sparirono anche le focacce e l’orzo al latte e finalmente anche le salse.

Otto o dieci chicchere di tè squisito, finirono quella cena che era meno cattiva di quanto dapprima i due europei avevano creduto.

– Peccato non aver con me la mia pipa e la mia borsa di tabacco – disse Rokoff

– Non si fa uso qui di tabacco – rispose Fedoro.

– Avrebbero dovuto portarci almeno qualche bottiglia di vino.

– Non si conosce qui il vino; fanno però molto uso d’acquavite d’orzo che bevono tiepida e non so davvero perché non ce l’abbiano portata. Bah! Quando verrà il capitano vuoteremo una bottiglia di più.

– Chissà quando tornerà, Fedoro. Il vento deve averlo trascinato molto lontano; non poteva più resistere.

– E che le ali non siano state spezzate, mio caro Rokoff.

– Sarebbe stato meglio. In tal caso non sarebbe caduto molto lontano. Mi rincrescerebbe però assai che fosse toccata qualche disgrazia a quel valoroso aeronauta.

– Io non ho alcun dubbio che abbia potuto raggiungere le spiagge settentrionali e prendere felicemente terra – rispose Fedoro. – Con una simile macchina e così perfetta, si può sfidare impunemente qualsiasi uragano. No, io sono completamente tranquillo e sono certo che appena cessato questo ventaccio furioso, lo vedremo ritornare a riprenderci.

– Avrà osservato dove siamo caduti?

– Come noi abbiamo veduto, il monastero non gli è sfuggito agli sguardi. Rokoff facciamo un buon sonno e aspettiamo domani. Questo tepore invita a chiudere gli occhi.

– Seguo il tuo consiglio – rispose il cosacco.

Si sdraiarono sui divani coprendosi con dei pesanti feltri e chiusero gli occhi, mentre gli ultimi tizzoni scoppiettavano nel caminetto.

Il loro sonno fu cortissimo. Un colpo di tam-tam che fece rintronare la sala, li fece balzare in piedi.

– Che sia già l’alba? – si chiese Rokoff, fregandosi gli occhi. – No, la fiamma non si è ancora spenta – disse Fedoro.

– Che cosa vogliono da noi? Ci hanno chiamato, è vero?

– Ci invitano ad aprire.

– Che sia giunto il capitano?

– Uhm! Non odi il vento ruggire al di fuori!

– Allora li mando a quel paese.

– No, non guastiamoci con questi monaci, Rokoff; non è prudente.

Il cosacco allontanò il divano e aprì la porta.

I sei monaci, ancora gli stessi che li avevano trovati sulla spiaggia, entrarono prosternandosi dinanzi ai due europei, poi fecero segno a loro di seguirli

– Cominciano a diventare noiosi coi loro inchini – disse Rokoff. – Sarebbe stato meglio se ci avessero lasciato dormire fino a domani. Che cosa vogliono?

– Non ne so più di te – rispose Fedoro. – Se ci pregano di seguirli, ci sarà qualche cosa di nuovo che ci riguarda.

– Che ci conducano ancora da quella mummia vivente?

– Lo vedremo, Rokoff.

Seguirono i monaci che li attendevano nel corridoio e furono condotti nella sala dove vi era la statua di Buddha. Il vecchio Lama li aspettava pregando dinanzi al Dio.

– Ci mancherebbe altro che ci facesse inginocchiare dinanzi a questo pezzo di terracotta – disse Rokoff, che era diventato di pessimo umore. – Che questi monaci invece di dormire passino le notti pregando?

Il Lama, vedendoli entrare, si era alzato, poi, dopo un inchino, disse a Fedoro:

– Preparatevi a partire.

– A partire! – esclamò il russo, sorpreso. – E per dove?

– Pel monastero di Dorkia.

– A che cosa fare?

– Il Bogdo-Lama di quel convento desidera vedervi.

Fedoro aggrottò la fronte, fingendosi indignato.

– Noi non siamo i servi del Lama di Dorkia – disse con voce acre. – Perché non viene lui qui?

– Io non posso altro che obbedire – rispose il monaco. – È mio superiore, comanda a tutta la regione e se io volessi rifiutarmi, sarebbe capace di mandare qui i suoi guerrieri e farci tutti prigionieri.

– Noi dobbiamo aspettare qui il nostro terribile uccello e anche i nostri compagni.

– Se tornano, dirò loro che siete nel monastero di Dorkia – rispose il Lama.

– Ce lo promettete?

– Ve ne dò la mia parola.

– Come andremo noi a quel convento?

– Il Bogdo-Lama ha mandato dei cavalli e una numerosa scorta.

– Chi l’ha avvertito che noi siamo scesi qui?

– Su tutte le spiagge del lago si è sparsa la voce che dei figli del cielo percorrevano la regione montati su un’aquila di grandezza prodigiosa ed è giunta anche agli orecchi del Bogdo-Lama di Dorkia, il quale ha mandato messaggeri e scorte in tutti i conventi per condurre a lui i santi uomini, nel caso si fossero degnati di scendere sul Tengri-Nor. Non indugiate, la scorta vi attende.

Fedoro tradusse a Rokoff l’esito di quel colloquio, non senza celargli le sue apprensioni.

– Se ci rifiutassimo? – chiese il cosacco.

– Il Lama di Dorkia, a quanto ho capito, è potentissimo e potrebbe ricorrere alla forza. Potremmo noi resistere a tutti i suoi guerrieri, che ascendono forse a delle migliaia?

– Sicché non ci rimane che obbedire.

– Purtroppo Rokoff.

– Ah! Diavolo! Mi pare che quest’avventura s’imbrogli; non vedo chiaro in questa faccenda. Se al Lama di Dorkia saltasse il ticchio di tenerci prigionieri?

– O fare di noi dei Buddha viventi? – disse Fedoro.

– Prenderemo a pugni il Lama e i suoi monaci.

– Dunque? – chiese il vecchio, con una certa ansietà.

– Siamo pronti a seguire la scorta – rispose il russo. Avremmo però desiderato fermarci presso di voi alcuni giorni.

– E io sarei stato orgoglioso di ospitarvi nel mio monastero – rispose il monaco, con un sospiro. – Avrei attirato, durante la buona stagione, migliaia e migliaia di pellegrini, colla vostra presenza.

Accompagnò i due europei fino sulla porta del convento, sulla cui gradinata stavano schierati numerosi monaci, portando delle lanterne, poi baciò i lembi delle loro tonache, dicendo:

– Spero di rivedervi presto: che il grande Buddha, vostro padre, vegli su di voi.

– Vi promettiamo di tornare – rispose Fedoro. – Non dimenticatevi però di avvertire i nostri fratelli, se giungeranno, che siamo stati condotti a Dorkia.

– Saranno miei ospiti.

La scorta mandata dal possente Lama del celebre monastero si componeva di cinquanta uomini d’aspetto brigantesco, con ampie vesti di grosso feltro, armati di lunghi moschettoni a miccia e di larghe scimitarre e montati su piccoli cavalli colle groppe villose e le gambe secche come quelle dei cervi o degli stambecchi, animali senza dubbio impareggiabili, che non dovevano temere né gli aspri sentieri di quelle orribili montagne, né i freddi intensi degli altipiani.

Due cavalli più robusti, col mantello bianco, con una lunga gualdrappa rossa che ricadeva fino a metà delle gambe e le criniere adorne di nastri, attendevano i due figli di Buddha.

Il comandante della scorta, un montanaro d’aspetto imponente, con un barbone che gli saliva fino quasi agli occhi e che indossava il pittoresco costume dei Butani, si avanzò verso Fedoro e Rokoff, e dopo essersi inginocchiato tre volte dinanzi a loro, disse in cinese:

– Ricevete fin d’ora i saluti del possente Bogdo-Lama di Dorkia, il quale sarà altamente onorato d’ospitarvi.

Poi li condusse verso i cavalli, invitandoli a salire.

I cavalieri intanto avevano acceso delle piccole lanterne cinesi appendendole alle canne dei loro moschettoni.

– Decisamente noi stiamo per diventare personaggi celesti – disse Rokoff, accomodandosi sulla larga, ma anche molto dura sella del cavallo.

La scorta si era messa in moto: dieci cavalcavano dinanzi ai due europei; gli altri dietro su due file.

La notte era orribile, essendo l’uragano tutt’altro che cessato. Un vento impetuosissimo e così freddo da far tremare persino i cavalli, nonostante il loro villoso mantello, soffiava dalle montagne circostanti, cacciandosi entro le gole con ruggiti tremendi e in lontananza si udivano i boati delle valanghe, rotolanti dai ghiacciai.

Il lago, che lambiva il sentiero percorso dalla scorta, presentava uno spettacolo terribile. Montagne d’acqua si rovesciavano contro le spiagge con fracasso spaventevole, rimbalzando e ricadendo, formando gorghi e colonne liquide e lanciando cortine di spuma fino addosso ai cavalieri.

Sopra, l’immensa nuvola nera, in balìa dei venti che si incontravano in tutte le direzioni, roteava vertiginosamente, ora abbassandosi quasi fino a sfiorare le creste dei marosi e ora squarciandosi. I lampi però erano cessati. Solamente il tuono, di quando in quando, faceva udire la sua possente voce.

– Bella notte, per farci fare un viaggio – disse Rokoff, che rialzava a ogni istante il bavero della sua tonaca. – Mi pare che questo vento mi strappi, pezzo a pezzo, tutta la carne del mio volto.

– Non mi stupirei se ciò ti toccasse – rispose Fedoro. – Certe volte i venti acquistano una tale violenza, in queste regioni, e sono così secchi, da strappare perfino la carne delle braccia. Il capitano Gill, del corpo degli ingegneri reali inglesi, che ha visitato queste regioni, ha provato quei terribili morsi del vento tibetano.

– Il Bogdo-Lama poteva ben attendere domani, invece di esporci di notte, a questo viaggio. Aveva paura che scappassimo?

– Io sospetto invece qualche cosa d’altro.

– Ossia?

– Che temesse che il Lama che ci ha ospitati ci nascondesse, facendo poi spargere la voce che noi eravamo tornati in cielo.

– Che questi signori monaci abbiano l’intenzione di tenerci prigionieri?

– Lo temo, mio povero Rokoff. Saranno orgogliosi di possedere due figli di Buddha viventi. È ben vero che ne hanno degli altri, ma non discendono dal cielo, né sono mai stati veduti volare sul dorso d’un uccello.

– E noi ci lasceremo sequestrare tranquillamente?

– Pel momento ci conviene adattarci alle circostanze e fare buon viso alla cattiva fortuna.

– Io mi ribellerò e farò un massacro di tutti i monaci di Dorkia – disse Rokoff.

– Un figlio di Buddha che ammazza gli adoratori del padre! Tutto sarebbe finito e la nostra santità, che per ora ci protegge, sfumerebbe subito. Non scherziamo coi tibetani, Rokoff. Se avessero il più piccolo sospetto che noi siamo degli europei, chissà quanti orribili tormenti ci farebbero soffrire. No, manteniamoci tranquilli, fingiamo di essere veramente figli del cielo e aspettiamo il ritorno del capitano.

– Che cosa potrà fare lui se i Lama ci tengono prigionieri?

– Dispone di mezzi potenti colla sua aria liquida, lo hai già veduto.

– E se fosse morto?

Fedoro non osò rispondere.

Il drappello intanto continuava a costeggiare il lago, galoppando rapidamente.

La via era orribile, cosparsa di macigni, di crepacci, di pezzi di valanghe e saliva sempre fiancheggiando talora degli abissi spaventevoli, in fondo ai quali muggivano o scrosciavano le onde del Tengri-Nor.

I cavalli però non si arrestavano un solo istante e superavano, con un’abilità e una sicurezza straordinaria, tutti quegli ostacoli. Non interrompevano la loro corsa nemmeno quando il sentiero diventava così stretto da permettere appena il passaggio a un solo cavaliere per volta.

Eppure il vento, in certi passaggi, soffiava con tale furore, che Fedoro e Rokoff temevano di venire strappati dalla sella e scaraventati in fondo a quei paurosi baratri.

Che magnifici cavalieri erano quei tibetani! Saldi sulle loro selle, pareva che formassero un solo corpo coi loro destrieri e non esitavano mai, anche quando dovevano scendere entro profondi avvallamenti o dovevano saltare dei crepacci che mettevano le vertigini.

Quella corsa indiavolata fra abissi e burroni, fra i muggiti delle acque da un lato, i ruggiti del vento dall’altro, durò tre lunghe ore.

Cominciavano a diradarsi le tenebre, quando il capo della scorta mandò un grido stridente.

I cavalli s’arrestarono un momento, grondanti di sudore e di spuma, poi si cacciarono uno dietro l’altro su uno stretto ponte gettato sopra un profondo burrone.

Giunti dall’altra parte, agli occhi di Fedoro e di Rokoff apparve un enorme edificio che s’innalzava maestosamente su una vasta piattaforma scendente verso il Tengri-Nor.

– Dorkia – disse il capo della scorta, accostandosi ai due europei. – Il Bogdo-Lama vi attende.

IL MONASTERO DI DORKIA

Come abbiamo già detto, il monastero di Dorkia è il più celebre di quanti sorgono sui promontori del lago sacro, perché è sede d’un Bogdo-Lama, ossia d’una specie di pontefice che porta il titolo di Perla dei sapienti, potente quasi quanto l’altro che risiede nell’altro famoso monastero di Tascilumpo, che si chiama invece il Dalai-Lama.

Questi due pontefici sono i custodi della religione e sono venerati per i lumi della loro scienza, ma non hanno che un potere limitato, spettando il diritto di governare al Grande Lama, il cui nome significa Perla dei vincitori e anche dei re.

Il Dalai-Lama di Tascilumpo è indubbiamente più venerato e molto più potente del Bogdo-Lama di Dorkia; nondimeno anche questo gode grande fama, dominando la regione in cui si trova il famoso lago sacro.

Il monastero che si presentava agli sguardi stupiti di Fedoro e del cosacco, era degno della sua fama. Era un insieme di costruzioni enormi, con in mezzo un tempio a quattro piani, sormontato da una cupola colossale, coperta di foglie d’oro e sorretta da un numero infinito di colonne del pari dorate.

Terrazze ampissime s’estendevano tutto all’intorno, cinte da balaustrate di pietra e già piene di monaci in attesa dell’arrivo dei due figli del cielo. Ce n’erano delle centinaia con lunghe tonache di feltro bianco e nero che il vento, sempre impetuosissimo, scompigliava con un effetto fantastico.

I tam-tam sospesi alle diverse parti del monastero squillavano fragorosamente sotto i colpi precipitosi dei martelli, destando l’eco delle immense montagne che giganteggiavano dietro al lago, mostrando le loro punte aguzze coperte di nevi e i loro fianchi ingombri di ghiacciai.

Il capo della scorta si era fermato dinanzi a un’ampia gradinata che metteva a un vasto edificio di stile cinese, coi tetti doppi e che finivano, agli angoli, in punte arcuate, adorne di campanelli che il vento sbatacchiava con un tintinnio assordante.

Fedoro e Rokoff, ancora abbagliati dalla magnificenza di quel monastero, si erano decisi a scendere da cavallo e a salire la gradinata, passando fra due ali di monaci che si curvavano fino a terra.

Dinanzi alla porta dell’edificio, circondato da altri monaci, un uomo dalla lunga barba nera, che gli scendeva fino a metà del petto, coperto d’un’ampia tonaca rossa e che aveva al collo grossi monili d’oro, pareva che li aspettasse per dare loro il benvenuto.

– Che sia il capo del monastero? – chiese Rokoff, che si sentiva scombussolato da quel ricevimento che sorpassava tutte le sue previsioni.

– È la Perla dei sapienti, il Bogdo-Lama – rispose Fedoro.

– Come ci accoglierà? Mi sento indosso un certo malessere che si direbbe paura. Se indovinasse in noi degli europei?

– Taci, Rokoff; mi fai venire la pelle d’oca.

– Non perderti d’animo e dalle da bere grosse, a quella Perla dei sapienti. Se potessi parlare correntemente il cinese, improvviserei un discorso tale da farlo piangere, mentre…

– Zitto.

Erano giunti sulla cima della gradinata.

– Fa come faccio io – disse Fedoro, rapidamente.

Il Bogdo-Lama e i due europei si guardarono per parecchi istanti in silenzio, mentre tutti i monaci cadevano al suolo toccando le pietre colla fronte e sporgendo, più che potevano, le loro lingue, poi il grande sacerdote fece alcuni passi, inchinandosi profondamente.

Fedoro ritenne opportuno rispondere con un altro inchino, meno deferente però nella sua qualità di figlio di Buddha, subito imitato da Rokoff. Poi il Lama prese per mano i due europei e li introdusse nel tempio, fermandosi dinanzi a una gigantesca statua del Dio, simile a quella che già avevano veduto nell’altro monastero e pronunciò delle parole che né Fedoro, né Rokoff riuscirono a comprendere.

Ciò fatto li condusse attraverso una galleria le cui pareti erano coperte da paraventi ricamati in seta e oro, d’una finitezza e d’una bellezza meravigliosa, ed entrò in un’immensa sala illuminata da una specie di lucerna di talco e circondata da divani di seta azzurra e bianca, ricamati in argento.

Anche le pareti erano coperte da arazzi di manifattura cinese e il pavimento di tappeti del Kascemir a mille colori.

Tutti i monaci si erano arrestati sulla porta, continuando gl’inchini e salmodiando, a mezza voce, delle preghiere.

Fedoro e Rokoff, quantunque facessero sforzi sovrumani per apparire tranquilli, si sentivano tremare non solo il cuore, ma anche le gambe e si chiedevano ansiosamente come sarebbe andato a finire quel ricevimento e come avrebbero potuto sostenere dinanzi alla Perla dei sapienti, di essere veramente degli esseri superiori, dei figli della grande divinità.

Si guardavano l’un l’altro con occhi smarriti, maledicendo in loro cuore quell’uragano che li aveva precipitati nel lago sacro, invece che in qualche bacino deserto.

Il Bogdo-Lama lasciò che i monaci sfilassero dinanzi alla porta, poi, quando se ne furono andati, fece sedere i due europei su un divano, pronunciando alcune parole che Fedoro non riuscì a capire.

Non ricevendo risposta, il Lama si lasciò sfuggire un gesto di sorpresa. E infatti il sapiente doveva ben stupirsi di non farsi capire dai figli di Buddha. Trovava certo strano che non parlassero il tibetano.

Fortunatamente Fedoro non aveva perduto completamente il suo sangue freddo. Comprendendo che stava per tradirsi, giocò risolutamente d’audacia.

– La Perla dei sapienti ha parlato una lingua che noi non possiamo capire – disse in cinese. – Non deve stupirsi, perché noi eravamo stati incaricati dallo spirito divino che regna nel nirvana, di visitare i monasteri buddisti della Mongolia e non già quelli del Tibet. In quattro siamo discesi dal cielo con diverse missioni e quello che doveva qui venire, non è ancora giunto.

– E perché vi siete spinti fino qui? – chiese il Bogdo-Lama rispondendo nell’eguale lingua.

– Volevamo venire a vedere il lago sacro e ritemprarci nelle sue acque, prima di riguadagnare la Mongolia.

– Voi siete scesi dal cielo sul dorso d’un immenso uccello, è vero?

– Sì – rispose Fedoro. – Una grande aquila, che era prima la guardiana del nirvana, un uccello terribile che è stato incaricato di difenderci dalle insidie e dalle offese di coloro che non credono in Buddha e che sono i nemici della nostra religione.

– Quanto desidererei vedere anch’io quel volatile! – esclamò la Perla dei sapienti. – M’hanno narrato meraviglie della potenza di quel mostro alato; m’hanno detto che turbinava sulle ali della tempesta, lasciandosi dietro una striscia di fuoco. Solo il grande Buddha poteva creare un simile uccello. Verrà qui?

– Lo aspettiamo.

– E condurrà l’essere divino incaricato di rimanere fra di noi?

– Nostro fratello verrà.

– Ha eguale potenza di voi? —

– Siamo tutti eguali.

– È bianco come voi?

– Sì.

– E perché il grande Buddha che era bronzeo al pari degli indiani, ha creato dei figli dalla pelle bianca?

– Tutti nel nirvana sono bianchi, perché la luce intensa che regna lassù, scolorisce presto gli uomini che hanno la pelle nera o bronzina.

– Buddha è grande! – esclamò il Lama battendo il petto con ambo le mani. – È contento di noi?

– Se non lo fosse, non ci avrebbe mandati sulla terra a visitare i suoi fedeli – rispose Fedoro. – Egli però vorrebbe che la sua religione si estendesse maggiormente e che si diffondesse in tutto il mondo.

– Siamo in molti.

– Non basta.

– Abbiamo monasteri nell’India, in Cina, nel Siam e anche nella Birmania e persino nel Turchestan.

– Ne vorrebbe di più.

– Ne costruiremo degli altri e manderemo i nostri monaci in altre regioni a fare nuovi proseliti.

– Ecco quel che desidera da voi il grande Illuminato.

– L’avete finita? – chiese Rokoff, che cominciava a perdere la pazienza. – Riprenderei volentieri il sonno così inopportunamente interrotto; manda a dormire quest’uomo barbuto e fagli comprendere che ci ha seccati abbastanza col suo Buddha.

– Il vostro compagno parla un’altra lingua! – esclamò il Lama. – Non andrà nella Mongolia?

– No – rispose prontamente Fedoro. – Egli è destinato a recarsi presso le tribù dei Calmucchi e dei Kirghisi, presso le quali la religione buddista non è rigorosamente osservata; ecco perché non parla il cinese.

– E il vostro quarto fratello dove andrà?

– Nella Siberia.

– Un paese che non ho mai udito nominare, ma il mondo è così vasto! E poi noi non usciamo mai dai confini del Tibet.

Stette un momento silenzioso, guardando ora Fedoro e ora Rokoff con una cert’aria imbarazzata. Pareva che volesse fare una domanda, ma che non osasse.

– Fedoro – disse Rokoff a mezza voce – sta in guardia. Mi pare che questo monaco rimugini qualche cosa di pericoloso nel suo cervello. Bada di non farti cogliere in fallo.

– Me ne sono accorto anch’io – rispose il russo.

Il Lama, dopo aver scosso più volte la testa ed essersi lisciata ripetutamente la lunga barba, disse con una certa timidezza.

– Vorrei rivolgere una preghiera ai figli del grande Illuminato.

– Parlate – rispose Fedoro – quantunque, prevedendo un grave pericolo, si sentisse accapponare la pelle.

– La voce del vostro arrivo deve essersi sparsa fra tutti gli abitanti e i monasteri del Tengri-Nor e domani i pellegrini accorreranno in folla a vedere gl’inviati del nostro Dio.

– Non abbiamo alcuna difficoltà a mostrarci alle turbe dei fedeli – rispose Fedoro, credendo che tutto si limitasse a quella domanda.

– Il nostro monastero organizzerà una grande cerimonia religiosa per rendere grazie all’Illuminato d’essersi degnato di mandare qui i suoi figli.

– Diavolo, dove andrà a finire costui? – pensò Fedoro.

– Vorrei pregarvi di tenere una conferenza sui doveri dei buoni buddisti, per ispirare maggior zelo nei nostri pellegrini. Sarà un avvenimento pel nostro monastero, il quale acquisterà una maggior celebrità tale da oscurare per sempre quella di Tascilumpo.

Altro che pelle d’oca! Fedoro sudava a freddo.

– Hai capito nulla? – chiese a Rokoff.

– Affatto – rispose questi.

– Domanda a me di fare un discorso.

– Trovi difficile il farlo?

– Non conosco che vagamente la religione buddista. Che cosa potrei dire? Che racconti delle frottole? Non dobbiamo scherzare colla Perla dei sapienti.

– Come vuoi cavartela? Se ti rifiuti chissà che cosa potrà nascere. Per ora acconsenti, tanto per guadagnare tempo, poi vedremo.

– Il figlio del grande Illuminato accetta? – chiese il Lama.

– Sì – rispose Fedoro, a denti stretti.

– Quale onore pel nostro monastero! – esclamò il Lama. – Poi sospirò a lungo, guardando Fedoro.

– Si prepara a darti un altro pugno – disse Rokoff. – Lo vedo; prepara la difesa, Fedoro.

– Potessi prepararla almeno tu, questa volta!

– Io non so il cinese; non parlo che il calmucco e il kirghiso – rispose il cosacco che rideva sotto i baffi.

– Ah! Se voi voleste! – disse finalmente il Lama con un altro sospiro più lungo del primo. – Quale sarebbe l’onore pel nostro monastero!… Più nessun pellegrino si recherebbe a quello di Tascilumpo e nemmeno a quello di Lhassa.

– Con tutti questi onori chissà in quale ginepraio finirà per cacciarmi – mormorò il povero russo, le cui inquietudini aumentavano. Nondimeno si fece animo, dicendo:

– Parlate, spiegatevi meglio.

– Rimanete sempre qui con me – disse il Lama. – Faremo di voi, due Buddha viventi, due vere incarnazioni del Dio.

– È impossibile! – esclamò Fedoro, spaventato.

– E perché?

– Siamo attesi in Mongolia e in Siberia.

– I mongoli e i siberiani potranno farne a meno di voi – rispose il Lama, con una certa durezza che sconcertò il russo. – La vera religione buddista è qui, non fra quei selvaggi, ed è sulle sacre rive del Tengri-Nor che viene più scrupolosamente osservata.

– E se nostro padre non lo permettesse?

– Buddha è grande e ama i suoi adoratori, potrebbe lui scontentarli? Noi raddoppieremo le preghiere e i sacrifici e sarà contento.

– Ciò che voi ci chiedete non sarà mai possibile – rispose Fedoro, con voce recisa. – Noi dobbiamo compiere la nostra missione.

– E se i montanari si opponessero alla vostra partenza? – chiese il Lama. – Come potrei io impedirlo? Non ne avrei l’autorità.

– Voi, un Bogdo-Lama! – esclamò Fedoro. – Un pontefice della religione a cui tutti i fedeli debbono obbedienza?

– Sono molti e quando vogliono una cosa nessuno potrebbe più domarli. Pensate che io non ho forze da opporre loro.

– Minacciate di scomunicarli e di scatenare tutti i fulmini del grande Buddha.

Un sorriso un po’ beffardo spuntò sulle labbra del Bogdo-Lama.

– Vedremo – disse poi – spero che non spingeranno le cose fino a tal punto. Però vi dico che sarebbero orgogliosi di avere, sulle sponde del lago sacro, due Buddha viventi.

Si era alzato.

– Sarete stanchi – disse.

– Molto – rispose Fedoro, che non desiderava altro che tagliare corto quel dialogo, che diventava di momento in momento più imbarazzante.

– Gli esseri celesti saranno miei ospiti e nulla mancherà loro, finché si fermeranno nel mio monastero. Fin da questo istante verranno trattati cogli onori dovuti ai Buddha viventi.

– Il grande Illuminato sarà riconoscente ai suoi fedeli adoratori del Tengri-Nor, dell’accoglienza fatta ai suoi figli.

Il Bogdo-Lama s’accostò a un piccolo tavolo e scosse un campanello d’argento.

Quattro monaci, che dovevano essersi fermati al di fuori, in attesa dei suoi ordini, entrarono. Il Lama rivolse loro alcune parole, poi s’inchinò dinanzi ai due europei, facendo quindi segno di seguire i religiosi.

– Siamo finalmente liberi? – chiese Rokoff. – Se la durava ancora un po’, perdevo la pazienza e prendevo quel monaco per la barba.

– Avresti compromesso gravemente la nostra posizione di Buddha viventi – rispose Fedoro, asciugandosi il sudore che gli bagnava la fronte.

– Di Buddha viventi? Che cosa dici, Fedoro?

– Taci per ora.

Restituirono al pontefice di Dorkia il saluto e uscirono preceduti dai quattro monaci, i quali a ogni istante si volgevano verso i due europei inchinandosi fino al suolo e balbettando delle preghiere incomprensibili.

– Come sono cerimoniose queste persone – brontolò il cosacco – comincio ad averne fino ai capelli.

Percorsero parecchi corridoi sempre tappezzati di meravigliosi paraventi, salirono parecchie gradinate e finalmente furono introdotti in una sala immensa, colle pareti coperte di seta gialla fregiata da iscrizioni tibetane, ammobiliata con divani d’eguale stoffa e colla volta a cupola la quale, essendo composta di lastre di talco, lasciava trapelare un debole chiarore.

All’estremità s’aprivano due porte che pareva mettessero in altre sale o in altre stanze. Un dolce tepore regnava là dentro, nonostante la vastità dell’ambiente.

– Il vostro appartamento – disse uno dei quattro monaci, in lingua cinese. – Tutto quello che potrete desiderare vi sarà recato; basta battere il gong sospeso alla porta.

– Una bella prigione – disse Fedoro, volgendosi verso Rokoff, mentre i monaci uscivano.

– Una prigione! – esclamò il cosacco. – Come! Questi bricconi osano mettere in gabbia degli uomini scesi dal cielo?

– Faranno di più, mio povero Rokoff.

– Che cosa vuoi dire?

– Che noi stiamo per diventare dei Buddha viventi.

– Ne so meno di prima.

– Non hai mai udito parlare dei Buddha che vivono?

– Niente affatto, Fedoro. Mi spiegherai ciò dopo colazione. L’aria del lago mi ha messo indosso un appetito indiavolato. Non so più dove sia andata a finire la cena che ci ha offerto l’altro monaco.

– Tu scherzi?

– Vorresti vedermi piangere?

– Rokoff la va male.

– Perché vogliono fare di noi dei Buddha viventi? Se così fa piacere a loro, lasciali fare amico mio. Purché non ci impalino o non ci gettino in qualche cantina piena di scorpioni, non vi è motivo di spaventarci.

– Non sai tu che cosa sono i Buddha…?

– Persone che mangiano e bevono al pari di tutti gli altri mortali, a quanto suppongo.

– Se non vengono strangolati.

– Eh! Che cosa dici, Fedoro? Vuoi guastarmi l’appetito?

– Non ne ho alcun desiderio. E poi, come me la caverò colla predica che devo tenere ai fedeli? Io che conosco così poco la religione buddista! Sarà una catastrofe completa.

– Dimmi, Fedoro, credi tu che quel monaco barbuto abbia prestato cieca fede a quanto noi abbiamo narrato?

– Uhm! Ho i miei dubbi. Non deve essere così sciocco la Perla dei sapienti.

– E perché non ci ha scacciati come impostori?

– Non avrebbe guadagnato nulla, mentre presentandoci come figli del cielo attirerà al suo monastero migliaia e migliaia di pellegrini.

– E gli abitanti?

– Sono così idioti da credere a tutte le panzane che smerciano i loro Lama.

– E come te la sbrigherai colla predica?

Ograniczenie wiekowe:
12+
Data wydania na Litres:
30 sierpnia 2016
Objętość:
420 str. 1 ilustracja
Właściciel praw:
Public Domain