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Czytaj książkę: «Gli ultimi flibustieri», strona 3

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Capitolo III. LA CACCIA AI FANTASMI

I quattro uomini, ben decisi a liberare la cantina della taverna d’El Moro dall’anima dell’uomo biondo e scialbo, poiché ormai anche nell’animo delle guardie era nato il convincimento che fosse qualche demonio, s’impegnarono nella lunghissima scala, la quale contava non meno di una cinquantina di giardini.

Scesi però i dieci primi gradini, don Barrejo credette opportuno di fare una breve sosta e di trinciare, colla sua draghinassa, una gran croce.

Come se i fantasmi si fossero subito accorti di quel segno cristiano, ripresero a martellare ferramenta ed a trascinare catene, sbattendole contro le botti, e producendo cosí un fracasso veramente infernale.

L’ufficiale e le due guardie avevano rimontato sollecitamente qualche gradino, urtando la bella castigliana, la quale teneva ben alto lo spiedo.

– Signor ufficiale, – disse il guascone, simulando un grande spavento. – Volete lasciarmi solo alle prese coll’anima di quell’uomo misterioso?

– No, no, prendo solamente un po’ di fiato, – rispose l’altro, il quale era pallidissimo.

– Dovevate bere qualche gocciolo ancora, prima di avventurarvi in queste catacombe.

– È vasta dunque la vostra cantina?

– Io non sono mai riuscito a percorrerla tutta. Si dice che finisca nell’ossario del cimitero di città.

– Brrr!… – fece l’ufficiale. – Non potevate trovare di peggio.

– Si dice, però io non ho mai potuto verificare questo.

– Io non vorrei possedere una simile cantina, mio caro taverniere, rispose l’ufficiale.

Le guardie doppiamente impressionate da quella rivelazione che non s’aspettavano, esitarono un poco prima di riprendere la discesa.

Se si fosse trattato di misurarsi con degli indios bravos o con dei filibustieri, senza dubbio avrebbero fatto bravamente il loro dovere, senza farsi pregare, ma quella storia di spettri che già si facevano udire e di ossari, metteva nel loro animo uno sgomento d’altronde perdonabile in quei tempi.

– Andiamo, dunque? – Chiese don Barrejo, il quale faceva tremolare la lampada per simulare un crescente spavento. – Qui bisogna prendere il coraggio a due mani, caramba.

– Fate lume, – rispose l’ufficiale. – Mi pare che la vostra mano oscilli troppo.

– Canarios!… Sono dinanzi a tutti e sarò il primo a venire acciuffato e portato all’inferno o nell’ossario. Pensate che io ho una moglie e bellina per di piú.

– Mostrate dunque il vostro coraggio dinanzi a lei.

– Se è per Panchita, scendo subito ed accoppo tutti gli spiriti che infestano la mia cantina, – rispose il guascone, il quale frenava a gran pena le risa.

Rialzò la lampada, tracciò in aria un altro segno della croce e, quantunque nella cantina si udissero sempre sbatacchiare catene contro le botti e di quando in quando degli ululati che parevano uscire dalle gole di lupi arrabbiati, riprese animosamente la discesa, non senza biascicare delle ave marie. Giunto al venticinquesimo gradino, ossia quasi alla metà, il guascone tornò a fermarsi.

– Signor ufficiale, – disse con voce alterata. – Le mie gambe non mi reggono piú.

– Non vi mostrate un poltrone dinanzi a vostra moglie, – rispose il capo della ronda. – Qualcuno bisogna bene che vada innanzi e voi solo siete pratico di questa cantina.

“E poi non siamo noi qui, pronti ad appoggiarvi?”

– E non udite questi rumori?

– Non sono sordo.

– Da che cosa credete che provengano?

– Lo sapremo quando saremo giunti abbasso. Orsú, taverniere, un po’ di coraggio ed impugna ben salda la tua draghinassa.

– E se ci fossero veramente dei fantasmi? – disse una delle due guardie, con un certo tremolío nella voce. – Sapete bene, capo, che non si uccidono.

– E che le alabarde passerebbero attraverso ai loro corpi, come in mezzo ad una nube di fumo, – aggiunse l’altra.

– Noi non li abbiamo ancora veduti, – rispose l’ufficiale. – Se compariranno davvero… vedremo che cosa converrà fare.

– Sí darcela a gambe al piú presto, – disse don Barrejo.

L’ufficiale non rispose. Si trovava troppo imbarazzato a dare una risposta contraria.

Tirato il fiato, il guascone si decise finalmente a scendere gli altri venti o venticinque gradini ed a raggiungere il fondo.

La cantina s’apriva dinanzi a loro, ampia, altissima e, come abbiamo detto, ben fornita di botti piú o meno piene.

Uno spettacolo terrificante, tale da far gelare il sangue anche ad un filibustiere s’offerse allora agli occhi delle tre guardie e del cantiniere.

I gemiti, le urla, i fragori di ferramenta erano cessati ed invece erano comparsi improvvisamente due spettri, i quali erano saltati giú dalle ultime botti delle due file, mettendosi subito a girare su se stessi e facendo vivamente agitare i loro drappi bianchi.

Don Barrejo aveva cacciato un urlo ed aveva subito lasciata cadere a terra la lampada.

– Scappiamo!…Scappiamo!… – aveva gridato con voce strozzata.

Le tre guardie avevano già voltate le spalle e stavano arrampicandosi affannosamente su per la scala, spingendosi innanzi Panchita la quale strillava come se la scorticassero.

In pochi istanti si trovarono tutti nella taverna. Le guardie erano pallide ed affannate e pareva che non avessero piú voce.

Fortunatamente vi era ancora del vino sul tavolo ed un paio di bicchieri di vecchio Xeres, cacciati un dietro all’altro, diedero un po’ di animo ai disgraziati.

– La tua cantina è maledetta, – disse l’ufficiale, appena poté tirare il fiato. – Erano ben dei fantasmi quelli?

– Se lo erano!… – esclamò Don Barrejo. – Chiedetelo alle vostre guardie ed a mia moglie.

– Sí, sí, capo, – si affrettarono a confermare i due alabardieri.

– Erano dei veri spettri.

– Allora mio caro, cavatela come puoi, – disse l’ufficiale. – Io non mi occupo di questi affari.

“Aprici.”

– Come!… Ve ne andate, signore ufficiale? – strillò Panchita, la quale si era abbandonata su una sedia, simulando uno spavento impossibile a descriversi.

– I soldati non hanno mai battagliato contro le ombre, bella mia, – rispose il capo della ronda, il quale non vedeva il momento di trovarsi all’aperto. – Le nostre spade e le nostre alabarde non ci servirebbero a nulla.

– E dove volete che andiamo a dormire? Sotto la pioggia? – disse don Barrejo, il quale fingeva di strapparsi i capelli.

– Andate a bussare alla porta di qualche vicino.

– Dovrò allora raccontargli il motivo per cui io e mia moglie siamo fuggiti e domani tutto il quartiere saprà che la mia cantina è frequentata dagli spiriti dell’ossario.

– E saremo completamente rovinati, – sospirò la bella castigliana.

– Io non so che cosa farvi, miei cari, – rispose l’ufficiale, il quale fissava la porta della cantina rimasta aperta, come se temesse di veder comparire, da un momento all’altro, uno di quei due spettri giganti. – Io non posso darvi che un consiglio.

– Dite su, signor ufficiale, – piagnucolò don Barrejo.

– Di recarvi domani mattina dal Padre Superiore del convento piú vicino e di pregarlo di mandarvi una mezza dozzina di frati con delle croci e con molta acqua santa.

– Rimanete qui fino a domani?

– No, mio caro taverniere, ne abbiamo abbastanza dei misteri che si succedono qui. Domani in pieno giorno, verremo forse a ritrovarvi per sapere qualche cosa. Aprite ora e lasciateci andare.

– Piove ancora al di fuori.

– Preferisco prendermi dell’acqua, piuttosto di scendere ancora nella tua cantina. Andiamo camerati.

Don Barrejo, fingendosi disperato, aprí la porta della taverna e tutti, compresa Panchita, uscirono sulla via.

– In quel momento passavano alcuni nottambuli, non curanti della pioggia che continuava a cadere a catinelle.

Vedendo aprirsi la taverna ed uscire delle persone che subito non avevano potuto scorgere, poiché le guardie si erano bene avviluppate nei loro ampi mantelli, si accostarono, ed uno della comitiva, quantunque sembrasse abbastanza alticcio, chiese:

– Si può bere una bottiglia?

– Eccovi in buona compagnia, – disse l’ufficiale a Don Barrejo. – Queste brave persone non se ne andranno finché offrirete da bere.

– E chi è che andrà in cantina a prendere le bottiglie se vi sono i fantasmi?

– Come, vi sono i fantasmi nella vostra casa? – chiese un altro della comitiva, facendosi precipitosamente il segno della croce.

– Si caballeros, e cosí terribili che hanno fatto scappare perfino le signore guardie.

I nottambuli non ne vollero sapere di piú s’allontanarono correndo, mentre le guardie se ne andavano pure dall’altra parte rasentando i muri delle case.

Don Barrejo attese che il rumore dei passi fosse completamente cessato, poi rientrò nella taverna e, mentre sua moglie si affrettava a chiudere, si gettò su una sedia ridendo a crepapelle e con tale fragore da attirare perfino l’attenzione dei due fantasmi, i quali non tardarono a comparire sulla porta della cantina, facendo svolazzare le candide tovaglie che li coprivano.

– Vade retro Satana!… – gridò il guascone, impugnando una bottiglia. – Tu puzzi troppo di zolfo.

Mendoza che era dinanzi, si sbarazzò delle tovaglie e si precipitò verso il tavolino, seguito da Buttafuoco, il quale, forse per la prima volta dopo tanti anni, si permetteva pure di ridere allegramente.

– Rajo de Sol!… – esclamò il basco, afferrando pure lui una bottiglia che non era stata ancora interamente vuotata. – Ti proclamo, don Barrejo, il piú grande ed il piú furbo guascone che la terra degli spadaccini e degli avventurieri abbia allattato.

– Sí, un brav’uomo, – confermò Buttafuoco, il quale cercava pure di bagnarsi la gola.

– Sono scappati come lepri, – rispose don Barrejo. – Ah!… Che commedia, amici!… Io non so come abbia fatto a trattenere fino a questo momento le risa. Non ne potevo proprio piú.

– Che ritornino? – chiese Mendoza.

– Ecco quello che temo. Sono capaci di venire ancora qui accompagnati forse da una mezza dozzina di frati. Ecco quello che io temo, amici.

“L’avventura non finirà certamente qui, anche perché il marchese di Montelimar vorrà sapere che cosa è successo del corpo o dell’anima di compare Pfiffero.

“Questo fiammingo comincia a diventare pericolosissimo, anche se è ubbriaco morto. Vi pare signor Buttafuoco?”

– Purtroppo prevedo dei grossi guai ora che il marchese ha dei sospetti su di noi e che ci fa pedinare dovunque dalle sue spie, – rispose il bucaniere.

– Allora io ritorno sulla mia prima idea, disse il guascone. – Scendo in cantina, scoperchio la botte e ve lo getto dentro.

“Per un ubbriaco deve essere una morte dolcissima quella di finire affogato dentro dieci ettolitri di Xeres.”

Che poi dovresti gettar via, – disse Mendoza.

– Ma che!… Domani lo ripesco, scavo una buca e lo seppellisco in qualche angolo della cantina. In quanto al vino vedrai che saprò venderlo egualmente, anche se ha conservato un morto per dodici ore.

– Ah!… Canaglia!…

– Oh!… I meticci e gl’indiani non hanno il palato raffinato.

– No, – ripeté per la seconda volta Buttafuoco. – Io penso che quell’uomo potrebbe diventare per noi preziosissimo.

“Se è, come sembra, il confidente del marchese di Montelimar, noi potremo sapere da lui molte cose preziosissime.”

– E se domani il marchese manda altre persone a cercarlo? Se lo scoprono, mi appiccano, signor Buttafuoco.

– Che non vi sia qualche nascondiglio nella tua cantina? – chiese Mendoza. – In casa non hai qualche granaio?

Don Barrejo stette un momento silenzioso, poi picchiò un pugno sulla tavola, esclamando:

– Ho trovato!… Anch’io ho scoperto l’America!…

– Ehi, guascone, hai il cervello guasto? – chiese Mendoza. – Che i fantasmi abbiano fatta anche a te troppa impressione?

– I cervelli dei guasconi sono chiusi dentro il cranio con due file di viti, amico, e non si rovinano cosí facilmente. Io ti dico che ho trovato un magnifico nascondiglio.

– Udiamo, disse Buttafuoco.

– Giorni fa ho acquistata una botte nuovissima, cosí ampia da contenerci tutti insieme e che io contavo di empire di mezcal. Prendo compare Pfiffero e lo caccio là dentro, cosí almeno non correrà piú il pericolo di morire gonfio di Xeres come un otre.

– L’hai proprio colle botti tu! – esclamò Mendoza.

– Non sono forse diventato un taverniere?

– E se le guardie tornano non vi sarà pericolo che compare Pfiffero, come lo chiami tu, si metta ad urlare anche dentro la sua botte e ti tradisca?

– Mai piú!…

– E perché?

– Perché appena mi accorgo che si sveglia, invece di dargli un bicchiere d’acqua zuccherata gli vuoto in gola una bottiglia intera di aguardiente e torno ad ubbriacarlo.

Tu sei diventato piú feroce d’un caimano, dopo il tuo matrimonio, – disse Mendoza.

– Ma no, signor mio, – protestò la bella castigliana, – anzi è diventato piú mansueto d’un agnello, il mio Pepito, dopo che si è sposato.

– Lasciamo stare Pepito, che qui non c’entra affatto, ed occupiamoci subito di quel Pfiffero.

“Approvate la mia idea?”

– Se non c’è di meglio, cacciamolo pur dentro la botte per ora, – disse Buttafuoco. – Ve lo faremo rimanere d’altronde il meno che sarà possibile, poiché avremo noleggiata una scialuppa e fileremo in cerca di Raveneau de Lussan.

– Bada di non ubbriacarlo troppo, quel povero diavolo, desse Mendoza. – Non vogliamo che muoia.

– Per chi mi prendi? – rispose il guascone, – per l’ultimo taverniere che esiste in tutte e due le Americhe? Gli darò da bere solamente dell’aguardiente finissimo, che costa a me non meno di quattro piastre la bottiglia.

– Sbrighiamo allora questo affare e poi andiamocene, – disse Buttafuoco. – La señorita Ines di Ventimiglia sarà molto inquieta e non si sarà certamente ancora coricata.

– Come!… Vi riceve di notte? – chiese don Barrejo.

– Non osiamo farci vedere di giorno. Le precauzioni non sono mai troppe quando si è impegnata una partita con un Montelimar.

Presero i lumi e scesero nella cantina, giungendo ben presto all’estremità delle due file di botti.

Colà si trovava un enorme recipiente che pareva una piccola torre messa a guardia dei Xeres, degli Alicanti e dei Malaga, capace di contenere nel suo interno, e senza alcuna difficoltà, almeno quattro uomini.

– Come vedete la botte è proprio nuova, – disse don Barrejo, – quindi il Pfiffero non correrà alcun pericolo di asfissiarsi.

Prese un martello e assalí i cerchi superiori, per smuovere le doghe e levare il coperchio. Mendoza e Buttafuoco lo aiutavano alla meglio, non essendo pratici in quel mestiere che il guascone invece conosceva ormai a fondo, forse meglio d’un bottaio.

– Il nido è pronto a ricevere il merlotto, – disse don Barrejo, dopo alcuni minuti. – Andatemi a cercare il Pfiffero mentre levo il coperchio.

Il disgraziato fiammingo russava beatamente sotto le botti come se si trovasse nel suo letto.

Buttafuoco e Mendoza presero quel corpo inerte e lo passarono al guascone, il quale lo lasciò cadere, senza troppi riguardi, in fondo al monumentale recipiente, mettendo poi subito a posto il coperchio in modo però che non combaciasse perfettamente, onde l’aria potesse liberamente circolare.

– Sfido chiunque ad andarlo a scovare, – disse don Barrejo, quand’ebbe finito.

– Si ode però che qualche cosa respira o russa li dentro, – disse Mendoza, il quale aveva appoggiato un orecchio alle doghe.

– T’inganni, amico, – rispose il guascone. – È il vino buono che bolle. Forse che non borbotta quando comincia a fermentare?

– Sei meraviglioso, don Barrejo, – disse Buttafuoco. – Io sono certo che con l’aiuto di voi due non sarà cosa difficile a me di condurre la señorita di Ventimiglia nel paese di sua madre a raccogliere l’eredità lasciatale dal Gran Cacico.

– Volete dire, signor Buttafuoco, che voi contate fin d’ora sulla mia draghinassa, – disse don Barrejo.

– Siamo venuti qui per portarvi via con noi. Non ne avete abbastanza di fare il taverniere, voi che siete un gentiluomo piú atto a maneggiare le armi che le bottiglie?

– Cominciavo infatti ad annoiarmi mortalmente ed a rimpiangere i bei tempi passati, quando sotto il figlio del Corsaro Rosso si montava all’assalto di qualche nave o di qualche casa almeno una volta alla settimana.

“E mia moglie?”

– Lasciala qui a condurre la taverna, – disse Mendoza. – Quando noi torneremo non avrai piú bisogno di vendere vino e Panchita potrà sfoggiare gioielli e bei vestiti finché vorrà.

“Signor Buttafuoco, andiamo.”

Risalirono in fretta, si gettarono addosso i loro mantelloni, provarono a far scorrere le spade ed i pugnali, e dopo d’aver accarezzato il mento alla bella castigliana senza che don Barrejo trovasse di che dire, il filibustiere ed il bucaniere uscirono cautamente in istrada.

Pioveva sempre a dirotto ed un ventaccio impetuoso e quasi freddo sbatacchiava le finestre delle case e le monumentali insegne dei negozi.

In lontananza si udiva l’oceano Pacifico muggire sinistramente e rompersi contro le calate del porto.

– Quando ci rivedremo? – chiese don Barrejo.

– Se domani avremo bisogno di te, segui il ragazzetto indiano che ti ha portata la nostra lettera, – rispose Buttafuoco. – Intanto noi cercheremo il modo di sbarazzarti al piú presto del fiammingo per non comprometterti e…

Il bucaniere si era bruscamente interrotto, mettendo mano alla spada.

– Chi si avanza? – si chiese con inquietudine.

Degli uomini, cinque o sei, tutti chiusi in cappe grigie e che tenevano in mano delle lanterne, s’avanzavano verso la taverna, borbottando delle preghiere.

– Un funerale a quest’ora? – si domandò Mendoza.

Subito però ruppe in uno scroscio di risa. Aveva capito di che cosa si trattava.

– La polizia ha avvertito il Padre Superiore del vicino convento che la tua cantina è infestata dagli spiriti ed ecco i frati che giungono solleciti per benedire le tue botti d’acqua santa.

“Fa’ loro buona accoglienza e cavatela come puoi. Signor Buttafuoco, filiamo!…”

I due avventurieri si allontanarono velocemente, mentre i sei frati, preceduti da un sagrestano zoppo, che reggeva un grosso recipiente di acqua santa, si fermavano dinanzi alla taverna.

Avevano appena svoltato l’angolo della via, quando un uomo, che fino allora era rimasto confuso colla fitta ombra proiettata da un vecchio porticato, si slanciò sulle loro tracce.

Capitolo IV. LA SCOMPARSA DELLA CONTESSA DI VENTIMIGLIA

Il bucaniere ed il filibustiere, messi in buono umore dai vini tracannati alla cantina d’El Moro, se ne andavano tranquillamente per la loro via, prendendosi filosoficamente la pioggia torrenziale, la quale si ostinava a non cessare.

Né l’uno né l’altro si erano accorti dell’uomo che si era lanciato sulle loro tracce e che, passando attraverso a delle viuzze note a lui solo, cercava di sopravanzarli.

Il ventaccio rumoreggiava sui tetti delle case, facendo, di quando in quando, volare delle tegole e rovinare il comignolo di qualche camino. I tuoni ed i lampi si univano alle raffiche che l’oceano Pacifico, diventato oceano rabbioso, scaraventava con inaudita violenza sulla città addormentata.

Avevano percorse già una decina di vie fangose e sfondate, poiché in quell’epoca gli spagnuoli non si curavano gran che della viabilità, occupati come erano a difendersi dai continui attacchi dei filibustieri, che interrompevano i loro fiorenti commerci, quando giunsero dinanzi ad una casetta a due piani, di bell’aspetto, sulla cui porta si leggeva, su una insegna monumentale, il seguente titolo:

Posada del Rio Verde

– Ci siamo, – disse Mendoza. – Che la señorita Ines di Ventimiglia ci aspetti ancora?

– Ha nelle sue vene sangue indiano, – rispose Buttafuoco. – Abbiamo fatto però tardi.

– Vedo brillare un lume attraverso le persiane d’una finestra. O la señorita o il mio fido bucaniere Wandoe, vegliano:

Stavano per avvicinarsi alla porta dell’albergo, quando un uomo tutto avvolto in un ampio ferraiolo, sbucò da una via laterale e con tanta furia da urtare malamente Mendoza.

– Ehi, amico, avete bevuto? – esclamò il basco. – Girate al largo perché io ho l’abitudine di non farmi urtare due volte dal primo mascalzone che incontro di notte.

Lo sconosciuto aveva fatto tre o quattro passi indietro e si era aperto il mantellone, dicendo:

– Mi pare, caballero, che mi abbiate chiamato mascalzone, se non sono diventato sordo.

– Ciò che vi auguro, di tutto cuore, – rispose il basco, ironicamente.

– Giacché dunque non sono sordo, – riprese lo sconosciuto, – ho potuto raccogliere benissimo la vostra offesa.

– E cosí?

– Vorrei sapere con chi potrei incrociare la mia spada per vedere se sarà degno di me.

– Chi siete voi dunque?

– Don Ramon de los Montes, figlio d’un grande di Spagna.

– Ah!… Figlio di papà!…

– Scherzate meno e ditemi chi siete.

– Io non sarò indegno di voi, don Ramon de los Montes, poiché io sono il conte don Diego de Alcalà y Veragrua e duca di Sabalioz.

– E… l’altro? – chiese il figlio del grande di Spagna, o almeno quello che si spacciava per tale.

– Non avendovi dato del mascalzone, signor de los Montes, preferisco per ora serbare l’incognito. Vorrei invece pregarvi se non sarebbe meglio rimettere a domani questa questione, che mi pare molto sospetta, poiché io credo voi figlio d’un grande di Spagna, quanto io sono figlio di Montezuma, il disgraziato imperatore del Messico.

– Come!… – gridò lo sconosciuto, gettando a terra il mantellone e snudando rapidamente la spada. – Mi si dà del mascalzone, e poi si pongono anche in dubbio i miei titoli? ah!… Caramba!… Questo è troppo!…

– Si direbbe che voi andate in cerca di questioni, – disse Buttafuoco, a cui era sorto un sospetto.

– Canarios!… io sono l’uomo piú tranquillo del mondo, ma quando mi s’importuna allora divento anche uno dei piú terribili.

“Qui si è insultato il figlio d’un grande di Spagna e qui il sangue scorrerà, signori miei, perché io sono ben risoluto a non lasciarvi andare indisturbati.

“Se non volete battervi, seguitemi al piú vicino posto di polizia.”

– Tu non sei altro che un miserabile avventuriero in cerca di colpi di spada, pessima canaglia, – disse Mendoza, estraendo a sua volta la spada.

– O meglio pagato da qualcuno per darci delle noie, – aggiunse Buttafuoco. – Quante piastre ti hanno fissato per ognuna delle nostre pelli?

– Canarios!… Questo è troppo!… – gridò lo sconosciuto, facendo un salto contro il muro della posada per non farsi sorprendere alle spalle.

– Allora finiamola alla lesta, – disse Mendoza. – Voi state a guardarmi, per ora; se cadrò mi vendicherete.

– Lo inchioderò contro la parete come una lucertola, – rispose Buttafuoco, mettendo pur mano alla spada.

Mendoza, come già sappiamo, era uno spadaccino di primo ordine, che valeva non meno del terribile guascone don Barrejo.

Desideroso di sbrigare presto la faccenda, pel timore che sopraggiungesse qualche ronda, attaccò risolutamente l’avversario vibrandogli una dietro l’altra tre o quattro fulminee stoccate, parate appena in tempo.

– Canarios!… – esclamò lo sconosciuto, un po’ sconcertato. – Chi è stato il vostro maestro?

– È inutile che ve lo dica, – rispose Mendoza, il quale non gli lasciava quasi nemmeno il tempo di rimettersi in guardia. – Quando vi avrò vibrata la stoccata dei Tre Corsari, voi rimarrete inchiodato contro la parete, quindi non avrete piú il bisogno dell’indirizzo del mio maestro, bensí di un passaporto per l’altro mondo.

– Ehi, correte troppo, mio signore.

– Aspettate un po’ e vedrete un colpo meraviglioso, l’ultimo però per voi.

I due spadaccini, non curanti della pioggia che non cessava di cadere, si scambiavano stoccate con grande accanimento. Il fragore delle spade non si udiva, poiché il tuono continuava a rumoreggiare ed il vento ad ululare fra i comignoli delle case.

Lo sconosciuto, dopo qualche minuto, si trovò obbligato a rompere ed appoggiarsi quasi alla parete. Sembrava molto sorpreso di aver trovato un avversario cosí formidabile, mentre forse aveva sperato di sbarazzarsi di entrambi con pochi colpi di spada.

– Signor figlio d’un grande di Spagna, – disse Mendoza, mentre una folgore attraversava la piazza, seguita da uno schianto terribile. – Preparatevi alla partenza che non ha ritorno.

Stava per tornare all’attacco, quando una finestra della posada si aprí ed una voce d’un uomo chiese:

– Chi si ammazza davanti al mio albergo?

– È l’amico Mendoza che si diverte un po’, – disse Buttafuoco, alzando la testa. – Lascia fare, Wandoe, fra poco tutto sarà finito.

“Porta invece una torcia ed un archibugio.”

– Canaglie!… – gridò lo sconosciuto, facendo una rapida mossa di fianco per prendere piú campo. – Avete degli amici qui ed ora mi farete assassinare a colpi d’arma da fuoco.

“Non è agire da gentiluomini questo.”

– Basterà il colpo dei Tre Corsari, – rispose Mendoza, chiudendogli prontamente il passo e costringendolo ad appoggiarsi alla parete. – A te, bandito, prendi questo per ora!…

– Ed anche tu questa – rispose lo sconosciuto, il quale si difendeva disperatamente, chiamando in suo soccorso tutte le risorse della terribile arte della scherma.

Mendoza parò la botta, poi tutto d’un tratto si abbassò verso terra, appoggiandosi sulla mano sinistra e andò a fondo.

Lo sconosciuto aveva mandato un grido, poi aveva lasciata cadere la spada, appoggiandosi contro il muro.

Aveva ricevuta una magnifica stoccata nella spalla sinistra, dal basso in alto.

Mendoza ritirò lentamente la lama, la cui punta si era arrossata contro la scapola dell’avversario e fece un gesto di malumore.

– Troppo alto – disse. – Avrei dovuto attraversargli il cuore.

In quel momento il preteso figlio del grande di Spagna, vinto dal dolore intenso causatogli da quel terribile colpo, rovinò al suolo, rimanendo inerte.

– Morto? – chiese Buttafuoco.

– Oh, no, – rispose Mendoza. – La ferita però deve essere dolorosissima.

In quell’istante la porta della posada ed un uomo di alta statura, che rassomigliava stranamente a Buttafuoco, pure molto barbuto e molto abbronzato, comparve, portando in una mano una lanterna e nell’altra un lungo archibugio.

– Che cosa succede qui, amici? – chiese, avvicinando premurosamente al bucaniere ed al filibustiere, il quale stava asciugando tranquillamente la punta della lama.

– Non ne sappiamo piú di te, Wandoe, – rispose Buttafuoco. – Questo mascalzone ci ha provocati e Mendoza ha approfittato dell’occasione per dargli una buona lezione di scherma.

– Non ci vedo chiaro in tutto questo, – rispose il proprietario della posada. – Questo furfante deve essere stato pagato dal marchese per assassinarvi. Vediamo un po’: ne conosco molti di questi sicari. Si avvicinò al ferito, il quale pareva che fosse svenuto e gli proiettò in pieno viso i raggi della lanterna.

Ad un tratto un grido gli sfuggí e fece due o tre passi indietro, esclamando:

– Ah!… Disgraziato!… Disgraziato!… L’avevo sospettato.

– Che cosa? – chiesero ad una voce Mendoza e Buttafuoco.

– Aiutatemi a portare a coperto quest’uomo, – rispose Wandoe. – Non bisogna lasciarlo morire.

– Questi birbanti hanno la pelle dura e poi la sua ferita è piú dolorosa che pericolosa. Ah!… Se l’avessi côlto un po’ piú sotto, allora non risponderei piú di lui.

I tre uomini sollevarono il ferito ed entrarono nella posada, arrestandosi in una vasta camera a pianterreno che era ancora illuminata, la quale conteneva solamente sei amache che in quel momento erano vuote.

Il ferito fu sollevato con molte precauzioni e deposto su uno di quei comodi e freschi giacigli.

Subito Mendoza, con una navaja datagli da Wandoe, gli tagliò la casacca, il giustacuore e la camicia e mise allo scoperto la ferita.

– Niente di grave, – disse, arrestando con un fazzoletto il sangue che sgorgava in abbondanza.

La fasciò alla meglio, aggiungendo:

– Ci occuperemo poi meglio di quest’uomo. Spiegaci ora, Wandoe, il tuo sgomento che per noi è inesplicabile.

“L’hai veduto altre volte questo avventuriero?”

Wandoe, il quale aveva un viso assolutamente sconvolto, guardò il bucaniere ed il filibustiere quasi con terrore, poi chiese con voce strozzata:

– Non ve l’ha condotta?

– Chi? – domandarono ad un tempo Buttafuoco e Mendoza.

– La señorita.

– La señorita Ines di Ventimiglia?…

– Sí!… Sí!… – balbettò Wandoe.

– Tu sei impazzito? – gridò Buttafuoco. – Che cosa vuoi dire?

– Non ho il coraggio di dirvelo. Ora comprendo che noi siamo stati giuocati.

– Suvvia, – disse il bucaniere, il quale cominciava a perdere la pazienza. – Spiegati una buona volta.

– Vi chiedo se ve l’ha condotta.

– Ma chi?

– La señorita di Ventimiglia, – ripeté Wandoe, con angoscia.

– Quell’uomo lí è venuto oggi, dopo il mezzodí, con un biglietto firmato “Buttafuoco” con cui la si avvertiva di lasciare immediatamente la mia posada, essendo ormai stato scoperto il mio rifugio dal marchese di Montelimar.

Buttafuoco e Mendoza, udendo quelle parole, erano rimasti come fulminati.

– La señorita scomparsa!… – esclamò finalmente Buttafuoco, mentre Mendoza si strappava un ciuffo di capelli. – L’hai veduta tu questa lettera?

– La señorita me l’ha fatta leggere, prima di decidersi a lasciare la mia posada.

– Ah!… Cane d’un marchese!… – urlò Mendoza, con accento feroce. – Ce l’ha fatta!…

– Dimmi, Wandoe, – disse Buttafuoco, il quale aveva riacquistato prontamente il suo sangue freddo. – La señorita non ha avuto alcun sospetto?

– Nessuno, perché quel biglietto portava la tua firma e già sapeva che qualche cosa c’era in aria. Glielo avevi già detto tu che il marchese era ormai sulle vostre tracce.

– A che ora ha lasciato la posada?

– Verso le tre pomeridiane.

– Ed è uscita con quell’uomo lí?

– Si.

– Ne sei ben certo?

– Non posso ingannarmi, perché avevo già oggi osservato sul viso di quell’avventuriero una profonda cicatrice che pare prodotta da un colpo di draghinassa.

– Mi stupisce però come la señorita non avesse intuito che si trattava d’un tradimento.

– Nessuno poteva sapere in Panama che Buttafuoco era qui, – rispose Wandoe.

– È vero anche questo. Che polizia ammirabile ha quel marchese! Ci ha portato un colpo mortale, tuttavia noi non siamo uomini da perderci di coraggio.

“Occupati del ferito e curalo piú che puoi. Da lui sapremo dove ha condotto la contessina di Ventimiglia.

“C’è il lume nel tuo gabinetto?”

– Sí, amico.

– Vieni Mendoza, – disse Buttafuoco.

Aprirono una porta ed entrarono in una stanzina attigua, che serviva come di segreteria della posada, e come la prima camera era pure illuminata.

Buttafuoco gettò via con dispetto il feltro ed il mantello e si sedette dinanzi ad un tavolo, prendendosi il capo fra le mani.

Mendoza, che aveva scoperta sullo scrittoio una bottiglia, si era affrettato ad impadronirsene, per rimettersi meglio da tante emozioni passate.