Czytaj książkę: «Il Viaggio Del Destino»
Chris J. Biker
L'immagine di copertina è opera dell'artista Emiliano Movio, la conversione in file è stata realizzata dal grafico Pierluigi Paron, per Print Service.
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Indice dei contenuti
Prefazione
Dedica
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Ringraziamenti
Prefazione
Cari lettori, faccio chiarezza su un'incongruenza storica che troverete leggendo questo romanzo, ambientato intorno al 900 d.C., epoca in cui i Nativi non possedevano ancora i cavalli, poiché giunsero nelle loro vite oltre mezzo secolo più tardi. Ma ditemi: non è forse vero che quando pensiamo ai Nativi Americani nella nostra mente prende vita l'immagine di cavalieri piumati, sui loro destrieri, che cavalcano liberi sulle loro terre? Non potevo proprio rinunciare a questa meravigliosa visione.
Dedica
Dedicato alle mie figlie, Sara e Janis, che giorno dopo giorno impreziosiscono la mia vita del dono più grande, dal valore inestimabile, l'Amore Puro.
Capitolo 1
Durante la grande era dei Vichinghi, nel villaggio di Gokstad in Norvegia, nasceva Ulfr, primogenito del Re vichingo Olaf.
Olaf fu svegliato all'alba da uno strano gemito, guardò al suo fianco e vide che sua moglie Herja non c'era. Si alzò a sedere, guardandosi intorno.
La intravide in piedi, vicino alla parete, fiocamente illuminata dalle prime luci del mattino che entravano dalla fenditura sul muro, il busto leggermente piegato in avanti, con una mano aggrappata all'arazzo appeso mentre con l'altra reggeva il pancione.
- Fai venire la levatrice - le parole le uscirono a denti stretti.
Olaf balzò in piedi. Con una falcata oltrepassò la porta, chiamando a gran voce le donne della servitù.
- Presto! Presto! - tuonò nel silenzio.
In pochi secondi la casa riprese vita, le donne correvano in lungo e in largo mentre Olaf continuava a ripetere agitato: - Presto! Presto! - rimanendo davanti alla porta per non perdere di vista la moglie.
Due donne entrarono a tutta velocità nella stanza, infilandosi tra gli stipiti della porta e i fianchi dell’uomo. Accesero subito dei piccoli fuochi, usando olio di pesce contenuto all’interno di alcuni recipienti semisferici in ferro che, sparsi lunghi i muri, fungevano da lampade.
- Spostatevi da lì! - intimò una voce di donna che reggeva tra le mani un recipiente fumante, avvolto nelle pezze.
Era la vecchia Sigrùn, la levatrice, l'unica donna che potesse parlargli così. Nessuno conosceva la sua età, ma doveva essere davvero vecchia, tanto da guadagnarsi il soprannome di Sigrùn “l'Immortale”, poiché aveva fatto nascere tutti in quel villaggio e godeva di indiscusso rispetto.
- Siete grande quanto la porta! - aggiunse, passandogli a fianco, seguita da un'altra donna, che la richiuse alle sue spalle.
Olaf rimase qualche istante immobile a fissare i decori intagliati nel legno, affidando le sue preghiere a Frey e Freyia, gli Dei della fertilità. A Loro ci si rivolgeva per assicurarsi la nascita di un figlio sano e forte.
La moglie era già in ottime mani, quelle della vecchia Sigrùn, considerata anche la Sacerdotessa delle Sacre Rune, che aveva incise nei palmi delle sue mani, le sue profezie non venivano mai sottovalutate...
La stanza si riempì di un profumo simile al limone, sprigionato dal decotto di verbena, o meglio degli artigli di drago, come li chiamava la vecchia. Ne versò un po' in una tazza e si avvicinò a Herja che aveva il fiato corto e gli occhi spaventati dai forti spasmi.
- Bevila, ti allevierà il dolore - la esortò.
Herja non se lo fece ripetere. Avrebbe ingurgitato qualsiasi cosa per lenire le fitte, oltretutto il profumo del decotto era fresco e invitante.
La futura mamma, assistita dalla levatrice e da altre donne, era stremata da ore di travaglio. Quando il tempo giunse venne fatta chinare sui gomiti ed esortata a spingere.
La vecchia Sigrùn intonò una nenia di parole incomprensibili, mentre imponeva le sue mani ossute sul corpo della giovane, premendo e massaggiandole il ventre.
Il respiro di Herja si fece affannoso e le sue grida di dolore fecero aumentare ancora di più il passo di Olaf, che camminava nervosamente, avanti e indietro, davanti alla porta.
L'ultimo grido della moglie bloccò il suo passo e trattenne il respiro fino al momento della nascita, quando il primo vagito di suo figlio fu accompagnato da un coro di canti magici.
La vecchia Sigrùn, dopo il taglio del cordone ombelicale, lavò il piccolo corpo con l'acqua, lo asciugò e gli spalmò un unguento di trifoglio che difendeva dalla cattiva sorte, apportando sapienza e saggezza, e levandolo al cielo lo affidò alle forze della natura e al loro Dio Odino...
Finalmente la porta si aprì.
- Potete entrare - annunciò la levatrice, mentre si accingeva a uscire con le altre donne al seguito.
Olaf si avvicinò alla moglie che teneva tra le braccia il loro primogenito.
- E' un maschio! - disse sorridendo, porgendogli il piccolo tra le sue forti braccia.
Olaf ricambiò il sorriso e guardando il figlio con orgoglio disse: - Dobbiamo dargli un nome che sia degno della sua stirpe. -
Ma lui lo pensava da mesi quel nome, sperando che fosse un maschio.
- Sono sicura che hai già scelto il nome giusto per lui - aggiunse Herja, con lo sguardo complice di chi ha già capito tutto.
Olaf le rivolse uno sguardo ammiccante, scoppiando in una sonora risata.
Con il piccolo tra le sue grandi mani alzò le braccia al cielo e con voce solenne pronunciò il suo nome.
- Ulfr! Possano gli Dei donarti la vita gloriosa che ha vissuto tuo nonno! -
La scelta del nome era ritenuta molto importante per i Vichinghi, poiché credevano che ne avrebbe influenzato il carattere e il destino: per questo motivo gli venne dato il nome del nonno paterno, stimato Re, valoroso condottiero e abilissimo mercante, che passò gran parte della sua vita al comando del suo Knorr, splendida imbarcazione vichinga dalla prua magistralmente intagliata con la forma della testa di animale feroce, ricoperta d'oro e d'argento, sulla sua vi era quella di un lupo, perché Ulfr significa “lupo”...
Capitolo 2
Nello stesso istante, nelle pianure del Nord America, presso la Tribù del Grande Cielo, nasceva Falco Dorato, primogenita del Capo-Tribù Grande Aquila.
Le prime luci dell'alba si stavano affacciando al nuovo giorno.
Fiore di Bosco fu svegliata da una fitta lancinante. Si alzò a sedere con il fiato corto, e nella penombra cercò il viso del marito, che giaceva al suo fianco. Grande Aquila non si era accorto di nulla e lei decise di non svegliarlo.
Lentamente si alzò e uscì, cercando di non fare rumore. L'aria era fresca e leggera, fece un gran respiro e lentamente s’incamminò verso il tepee della madre.
A carponi scostò il lembo di pelle dell'entrata.
- Mamma... - chiamò con voce sommessa, per non svegliare suo padre, Tre Alci.
- E' l'ora? - chiese Rugiada del Mattino, alzandosi a sedere.
- Sì - rispose la giovane, contraendo il viso, mentre stringeva con forza il lembo di pelle.
Sua madre uscì in tutta fretta, per aiutarla a rialzarsi.
- Aspetta qui! Vado a chiamare la zia - le disse prima di allontanarsi correndo verso il tepee di sua sorella.
Fiore di Bosco annuì, ma senza ascoltare le parole della madre, e si avviò, adagio, verso un'apposita capanna, dove partorivano le donne della Tribù.
Un'altra fitta arrivò, all'improvviso, facendola piegare dal dolore: le due donne corsero per raggiungerla e offrendole un appoggio, la accompagnarono all'interno della capanna.
La zia, Stella Azzurra, si precipitò al fiume per prendere l’acqua, mentre la madre le preparò un morbido giaciglio, sul quale la fece adagiare, in attesa del parto.
Prepararono un infuso con foglie di lampone rosso.
- Bevi, ti aiuterà ad abbreviare il travaglio - le spiegò Rugiada del Mattino.
Ma le doglie erano ancora troppo distanti l'una dall'altra. Quell’infuso aveva sempre funzionato per le partorienti della sua Tribù, ma sembrava non sortire alcun effetto su di lei.
- Te la senti di camminare? - le chiese sua madre.
- Sì... Sì – rispose, poco convinta.
- Devi camminare, così il parto sarà più veloce - le spiegò.
Mentre Rugiada del Mattino e Stella Azzurra preparavano tutto il necessario, Fiore di Bosco, tra una fitta e l'altra, camminava all’esterno della capanna, mentre il sole sorgeva completamente.
Grande Aquila si destò e, accortosi che la moglie non c'era, si precipitò fuori dal tepee. La vide camminare adagio, per poi bloccarsi di colpo con il busto piegato in avanti, gemendo di dolore.
- Fiore di Bosco! - la chiamò, correndo da lei.
Le cinse la schiena con un braccio, per sorreggerla, offrendole l'altro come appoggio.
- Devo camminare - disse appena riprese fiato.
- Va bene! Lo faremo insieme - si offrì premuroso Grande Aquila.
Camminarono per più di un’ora. Le doglie erano sempre più vicine, ogni volta che se ne manifestava una avrebbe voluto gridare, ma si tratteneva emettendo solo un lamento soffocato, per non spaventare il marito.
Ma lui lo sentiva quanto lei soffrisse, perché la sua mano gli stringeva con tale forza il braccio. Tanta era la forza della sua stretta, quanto forte era il dolore procurato dalle fitte. Fino a quando non mollò più la presa.
- Ci siamo, accompagnami - disse con il fiato corto.
Grande Aquila la affidò alle mani esperte della suocera e della zia. La adagiarono sul morbido giaciglio mentre sua madre le spiegava come respirare per alleviare un po' il dolore. Ma il dolore era sempre più intenso e lancinante, il respiro sempre più affannato.
Le due donne la aiutarono a mettersi sulle ginocchia, era madida di sudore e nel momento culminante inarcò la schiena emettendo un grido che si udì per tutto l'accampamento, poi tutto passò in un istante. Era nata.
Quando vide la sua creatura il travaglio le sembrò un ricordo lontano, tutto il dolore era già dimenticato.
Dopo il taglio del cordone ombelicale, le porsero un altro infuso a base di radice, chiamata dai Nativi la “radice della nascita”, poiché arrestava l’emorragia causata dal parto.
Mentre Fiore di Bosco ne beveva piccoli sorsi, le due donne si occuparono della neonata.
La piccola fu lavata e il corpicino frizionato con erbe aromatiche e unto con una miscela di grasso e argilla rossa. La avvolsero in morbide pelli e la deposero nella culla.
Il cordone ombelicale venne affidato alla nonna, che lo avvolse in foglie di salvia, lo ripose in un borsino di pelle, decorato con pigmenti naturali e lo appese all'esterno della culla. Questo amuleto l'avrebbe accompagnata per tutta la vita e oltre...
Al momento della sua nascita l'accampamento fu attraversato dal volo di un falco che, baciato dal sole, sembrava dorato, mentre insieme al primo vagito della nascitura si univa un lungo e potente ululato proveniente dalle Rocce Sacre che si erigevano poco lontano, alle loro spalle. Grande Aquila, e il resto della Tribù, seguirono con lo sguardo il suo volo, diretto verso un'altra figura, che stava lì immobile, guardando nella loro direzione: era un lupo. Quando il falco lo raggiunse, entrambi scomparvero oltre le rocce.
Lo Sciamano profetizzò:
- Il volo di questo falco è andato oltre i confini delle nostre montagne. Verso quel lupo, il pioniere, lo spirito libero della natura intatta e selvaggia...
L’uomo si interruppe, Rugiada del Mattino era uscita per comunicare la nascita.
- Puoi entrare a conoscere tua figlia! - annunciò la donna.
Grande Aquila entrò nella capanna, era emozionato e la vista di quella piccola creatura riempì il suo cuore di una gioia così grande, che sgorgava anche dagli occhi.
Attese che le donne uscissero, poi prese la piccola tra le braccia e raccontò alla moglie del volo di quel falco al momento della sua nascita.
- Credo che Grande Spirito ti abbia suggerito il suo nome, Falco Dorato è perfetto per la figlia di un grande Capo. - acconsentì Fiore di Bosco.
- Sia fatta la volontà del Grande Spirito! - affermò soddisfatto.
Si inginocchiò accanto alla moglie e le porse la piccola, perché potesse allattarla. Rimase lì a guardare il primo pasto di sua figlia e pensò che non ci potesse essere niente di più meraviglioso della vista di una madre che allatta il proprio figlio.
Quattro giorni dopo la nascita di Falco Dorato, venne organizzata la cerimonia dell'assegnazione del nome, che nessuno dei Nativi ancora conosceva.
Fiore di Bosco le imbiancò il viso con la sacra farina di mais, poi la avvolse nella coperta più bella e insieme a Grande Aquila la portarono per la prima volta all'esterno, per presentarla al Sole nascente e a tutta la Tribù.
La nascita di un bambino veniva accolta con grande gioia, come il più prezioso dei doni. Un bambino non apparteneva solo alla sua famiglia, ma a tutta la Tribù.
All'alba di quel mattino Grande Aquila parlò.
- Grande Spirito ha inviato il suo messaggero che ha attraversato con il suo volo il nostro accampamento - Prese tra le mani la piccola e la innalzò al cielo, proclamandone il nome.
- Falco Dorato è il suo nome. Grande Spirito dona a questa figlia le qualità del falco, perché possa crescere coraggiosa e forte, generosa e altruista.
I colpi dei tamburi echeggiarono nell'aria, lo Sciamano intonò un Canto Sacro al quale si aggiunsero le voci di tutta la Tribù, accompagnando alle parole la Danza Sacra.
Capitolo 3
Otto inverni dopo la nascita di Ulfr, oltre alla sorella di sangue Isgred, si aggiunse un nuovo membro alla famiglia: Thorald, suo coetaneo, figlio di Harald, Jarl del vicino villaggio di Oseberg.
Tra i due Clan vi era, già da generazioni, un legame solidissimo.
Harald, in seguito alla perdita della moglie Sigrid, morta insieme alla secondogenita dandola alla luce, era un uomo distrutto.
Decise di affidare per qualche anno l'istruzione e l'addestramento del suo unico figlio alla famiglia del suo grande amico Re Olaf e della moglie Herja.
I due guardavano preoccupati l'amico. Harald era un bell'uomo di 30 anni, ma il dolore per la grave perdita, lo si poteva vedere nel suo viso, provato e stanco, che lo faceva sembrare molto più vecchio.
Olaf appoggiò una mano sulla spalla dell'uomo.
- Fatti coraggio, amico mio! Non preoccuparti per Thorald, starà bene qui, penseremo a tutto noi - cercò di rincuorarlo.
- Ne sono certo! - a ffermò l’uomo, usando un tono di voce che non facesse trapelare lo sconforto che, invece, lo affliggeva.
Harald posò lo sguardo sul figlio, seduto al suo fianco, il capo chino e gli occhi fissi sulle piccole mani. Sentì una stretta al cuore e gli accarezzò la testa. Il bambino sollevò il capo per guardare il padre, serrando le giovani labbra per non piangere.
Herja prese due recipienti, ricavati da corni naturali di mucca, decorati con incisioni e piastre d’oro, li riempì di idromele e li porse ai due uomini, poi si rivolse a Thorald.
- Vieni! - lo esortò, con la dolcezza di una mamma, tendendogli la mano. - Ulfr ti sta spettando. -
Il bambino si voltò verso il padre che asserì con il capo.
- Andrà tutto bene. - lo rassicurò, sforzandosi di apparire sereno.
Thorald prese la mano di Herja e insieme attraversarono la stanza, ma prima di uscire, il bambino si voltò ancora verso il padre e gli sorrise, come per rassicurarlo a sua volta,
Olaf attese che uscissero e poi innalzò il corno, imitato da Harald.
- Beviamo! Alla memoria di Sigrid e di tutti i nostri avi - propose all'amico.
- Drekka Minni! - brindarono all'unisono, svuotando il corno in una sola volta.
Olaf si passò il dorso della mano sui baffi.
- Adesso devi pensare a superare questo momento, potresti partire per un lungo viaggio - gli suggerì.
- Ci ho pensato, se Thorald fosse stato più grande lo avrei portato con me. -
- Possiamo invece fare così; tu viaggerai e farai commerci anche per me, mentre io mi occuperò di crescerlo istruito, sano e forte - propose Olaf.
- Amico mio, non mi hai mai deluso! - dichiarò Harald.
I due uomini si scambiarono uno sguardo, carico di profondo affetto e rispetto reciproco.
- Sono sicuro che tu faresti lo stesso per me! - affermò Olaf, senza il minimo dubbio, porgendogli il palmo della mano destra. Gesto che l’amico ricambiò.
Harald viaggiò per molti anni, molti dei quali li svernò lontano da casa.
Per i due bambini iniziarono da subito l'istruzione e l'addestramento. Vennero istruiti sulle leggi, la storia, la lavorazione del legno e del ferro e su tutti i segreti della metallurgia.
Impararono a familiarizzare con le armi, praticando quotidianamente varie discipline.
Nelle lunghe sere del gelido inverno norvegese, tutta la famiglia si radunava nel tepore del focolare domestico. Mentre le donne tessevano e gli uomini intagliavano il legno, ai bambini veniva tramandata, attraverso i racconti degli anziani, la conoscenza del passato della famiglia e del Clan, insieme ai principi, ai valori e al codice d'onore che un buon Vichingo non dovrebbe mai infrangere.
Ulfr e Thorald crescevano sani e forti, insieme studiavano e si addestravano, e tra i due si creò un legame di affetto fortissimo. Come i loro padri prima di loro, diventarono Fratelli Giurati, secondo un antico rito magico…
L’inverno era passato, le navi vichinghe solcavano le acque scandinave e i Vichinghi che avevano svernato lontano da casa, finalmente, rientravano dalle loro famiglie. Anche Harald, con grande sorpresa di tutti, fece ritorno quella primavera.
Cadeva il nono misseri d’estate per i due piccoli Vichinghi, intorno alla metà di Aprile, quando consacrarono la loro fraternità.
Quel giorno, era il loro primo addestramento con l’arco e tutto era stato allestito all’esterno, sul retro della casa, da dove si estendeva il panorama di tutta la proprietà.
- Portate avanti la gamba sinistra, vi aiuterà a prendere meglio mira e potenza - suggerì Bjorn, il miglior arciere del Clan. - Puntate…-
I due bambini si posizionarono come suggerito, impugnando l’arco con la freccia pronta, e tesero la corda con tutta la loro forza, stringendo gli occhi per concentrarsi sull’obiettivo da colpire.
Due sacchi riempiti di paglia facevano da fantocci, con il bersaglio dipinto all’altezza del cuore.
- Ora! - ordinò Bjorn.
I due piccoli arcieri scoccarono il loro primo dardo e un’espressione delusa si dipinse sui loro volti seguendone il volo, di molto lontano dal bersaglio.
- Per l’occhio buono di Odino! - imprecò la voce di un uomo.
Tutti gli sguardi erano fissi in quella direzione, mentre Leif, un omone dai capelli rossi, sbucava dai cespugli con una capra morta, infilzata dalle frecce.
Bjorn guardò stupito Olaf e Harald.
- L’hanno fatta secca, al primo colpo! - disse, incredulo.
L’espressione fiera e soddisfatta dei due bambini suscitò simpatia e divertimento tra gli uomini.
- Che cosa ci faceva questa capra fuori dalla stalla? - chiese Olaf mentre estraeva le frecce dalla povera bestiola.
- Era scappata e io stavo cercando di riportarla dalle altre - spiegò l’uomo.
- Sei stato fortunato, avresti potuto esserci tu al posto della capra - constatò Harald.
- Già! - esclamò Leif, spalancando gli occhi grigi. - Le frecce l’hanno colpita mentre la stavo afferrando - aggiunse, rivolgendo lo sguardo ai due bambini, che abbozzarono un mezzo sorriso di scuse.
- Sono sopravissuto a mille battaglie in gioventù e non voglio certo raggiungere il Valhalla per mano di due bambini! - esclamò con tono ironico. - E non sono sicuro che le Valchirie mi avrebbero fatto entrare... Morto rincorrendo una capra! - concluse scherzoso, scatenando le risa dei presenti.
- Mio buon amico, quando farai il tuo ingresso nel Valhalla sarà sicuramente degno del grande Vichingo che sei stato! Adesso portala alla cuoca, che la cucini per cena - dispose Olaf, ridacchiando.
Leif asserì chinando il capo, in segno di rispetto, prima di incamminarsi verso la cucina.
- Adesso concentratevi sul bersaglio… - l'arciere richiamò all’attenzione i due bambini. - Perché quando combatterete contro un nemico non lo vincerete abbattendogli il bestiame.
- Devi ammettere che la prima freccia della loro vita è un buon presagio per il futuro - dichiarò Harald, con un tono tra il compiaciuto e il divertito.
- Così sembra… - rispose Bjorn. - Adesso devono impegnarsi, per dimostrare di meritarlo questo presagio – aggiunse, rivolgendosi ai due piccoli arcieri, già pronti, in attesa del comando.
Un rumore alle loro spalle, attirò l’attenzione di Olaf e Harald.
Le porte delle stalle si aprirono e, dopo 6 mesi, una moltitudine di animali si riversò all’esterno, mentre alcuni uomini del Clan, tra muggiti, grugniti e belati, cercavano di mantenere l’ordine, per condurre, gli oltre 500 capi di bestiame nei terreni sui quali li avrebbero lasciati liberi di pascolare.
- Portate il bestiame lontano da qui, altrimenti questi due ne faranno strage! - esclamò Olaf, in tono canzonatorio.
In mezzo a tutto quel trambusto sbucò Leif, con passo veloce si stava dirigendo nella loro direzione e sembrava ansioso di comunicare qualcosa.
- La vecchia Sigrùn ha visto la capra e vi manda a dire che vi attende tutti e quattro nella Sacra Radura - li ragguagliò l’uomo, appena giunse dinnanzi a loro.
- Bene! - commentò Olaf, scambiando uno sguardo d’intesa con Harald.
- Riprenderete l’addestramento al nostro ritorno - comunicò rivolto a Bjorn.
- Sarò qui ad attendervi - rispose l’arciere.
I quattro s’incamminarono, lasciandosi il villaggio alle spalle.
La terra si era liberata dal gelo e con il primo tepore, regalato dal sole, tutto aveva ricominciato a prendere vita nel villaggio di Gokstad.
La proprietà di Olaf era bella, di dimensione vastissima, si estendeva lungo la costa e verso l’entroterra, per chilometri e chilometri, e lui ne andava fiero.
I campi erano divisi da un basso muro di pietra che li cintava, alcuni contadini erano impegnati ad arare la terra, mentre altri si occupavano delle diverse semine: la segale, il prezioso orzo, tutti gli ortaggi e l’avena, quest’ultima destinata a diventare anche foraggio per nutrire il gran numero dei capi di bestiame, durante l’inverno a venire.
I primi fiori punteggiavano i vasti prati di trifoglio, disseminati di piante da bacche, di more e lamponi, e si estendevano fino a dove la terra si innalzava in pareti rocciose e colline che giungevano al confine con le terre di Harald.
Con il disgelo, la cascata d’acqua aveva ricominciato a scivolare lungo le rocce, ricoperte di licheni, gonfiando il torrente che attraversava il bosco e la Sacra Radura.
La strada che stavano percorrendo era fiancheggiata da filari di meli e biancospini, che avevano germogliato, e cominciavano già a spuntare i primi fiori bianchi.
Proseguirono in silenzio, fra i rumori della natura che si era risvegliata e i raggi del sole che filtravano tra gli alberi. S’intravedevano i primi nidi fatti dagli uccelli e da alcuni rami pendevano delle ceste di paglia spiraliformi, nelle quali le api avevano cominciato a costruire i loro alveari che, per la fine dell’estate, sarebbero stati colmi di miele, con il quale i Vichinghi avrebbero prodotto dell’ottimo idromele.
Giunsero alla Sacra Radura, dove la vecchia Sigrùn li attendeva.
Si avvicinarono alla donna che, in piedi vicino a una quercia, era avvolta, dalla testa ai piedi, nel suo nero mantello. Dal cappuccio ricadevano, lunghe fino ai fianchi, due trecce bianche e i suoi occhi vispi risaltavano come due acquemarine. Due corvi, creature legate al culto del loro Dio Odino, stavano immobili sulle sue spalle.
La vecchia tese le braccia verso il cielo e i due uccelli si librarono in volo, gracchiando sopra le loro teste, prima di scomparire tra il folto degli alberi.
- Questa quercia l’hanno piantata i vostri padri, quando avevano all’incirca la vostra età, è cresciuta sana e forte come la loro amicizia - dichiarò con una sfumatura di orgoglio nella voce.
Poi si piegò a raccogliere un germoglio, nato dalle radici dell’albero e lo innalzò al cielo.
- Oggi gli Dei hanno espresso la loro volontà attraverso i vostri dardi e l’albero di Thor ha generato una nuova vita... Siete pronti per il vostro Giuramento! - proferì la vecchia Sigrùn, offrendo il germoglio ai due ragazzi.
I due piccoli Vichinghi scelsero un punto, poco distante dalla quercia, e rivoltarono una zolla d'erba, sopra la quale si incisero il palmo della mano destra, poi con una stretta di mano mescolarono il loro sangue, giurandosi fedeltà reciproca; con esso concimarono la zolla e la usarono per ricoprire la base del germoglio che avevano piantato, suggellando così un patto di fratellanza per tutta la vita...
Isgred, oltre all'istruzione, riservata ai figli di una casata nobile, doveva imparare come governare la casa, soprattutto quando il marito sarebbe stato imbarcato in una spedizione.
Un giorno anche lei, come sua madre, avrebbe dovuto dirigere la fattoria, educare i figli, amministrare gli affari del marito.
Un giorno anche lei avrebbe portato, appeso alla cintura, il mazzo di chiavi della casa, simbolo dell'autorità e del rispetto di cui godeva una donna nella famiglia.