Czytaj książkę: «Il Killer della Rosa», strona 14

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Capitolo 28

Riley aprì gli occhi, poi li strizzò, reggendo il capo con la mano. La sua testa si stava spaccando, la sua bocca era asciutta. La luce del mattino, proveniente dalla finestra, era accecante e le faceva male. Le ricordava la luce bianca della torcia di Peterson.

Sentì la voce di April dire: “Ci penso io, Mamma".

Poi venne un leggero rumore di rotolamento e la luce diminuì. Aprì gli occhi.

Vide che April aveva appena chiuso le veneziane, bloccando l'accesso alla luce solare. La ragazza venne verso il divano e si sedette accanto a dove giaceva ancora Riley. Prese una tazza di caffè e lo porse alla madre.

“Attenta, scotta” disse April.

Riley, mentre la stanza continuava a girare, lentamente si rimise seduta e prese la tazza. Tenendola con attenzione, bevve un piccolo sorso. Era caldo, davvero. Le scottò le dita e la lingua. Ma riuscì a tenerla in mano e bevve un altro sorso. Almeno il dolore la fece tornare nuovamente alla vita.

April stava guardando in aria.

“Vuoi la colazione?” chiese April con voce distante, asettica.

“Forse più tardi,” rispose Riley. “Me la preparerò”.

April sorrise tristemente. Poteva vedere chiaramente che Riley non era in condizione di preparare alcunché.

“No, Lo farò io" rispose April. “Dimmi solo quando ti senti di mangiare.”

Poi entrambe rimasero in silenzio. April continuò a guardare altrove. Un senso di umiliazione prese Riley alla gola. Ricordava vagamente la sciagurata telefonata a Bill, nella notte, e poi le sue ultime riflessioni, quella sua consapevolezza di aver davvero toccato il fondo. E ora, a peggiorare le cose, sua figlia assisteva al suo crollo.

Sempre con tono distaccato, April le chiese: "che cosa pensi di fare oggi?”.

Sembrava al tempo stesso una domanda buona e stupida. Ora Riley doveva fare dei programmi. Se quello era il fondo, doveva iniziare a tirarsene fuori.

Ripensò al suo sogno, alle parole di suo padre, e, in quel momento, capì che era venuto il momento di affrontare alcuni dei suoi demoni.

Suo padre. La presenza più oscura della sua vita. Quello che era sempre stato presente nell'intimo della sua coscienza. La forza trainante, ogni tanto lo sentiva, dietro tutta l'oscurità che aveva sperimentato in tutta la sua vita. Lui, tra tutti, era quello che aveva bisogno di incontrare. Non sapeva se si trattava di un bisogno di sentire l'amore paterno, o di affrontare a testa alta l'oscurità presente nella sua vita oppure un desiderio di scuotersi, pungolata dal suo sogno. Ma ne aveva un urgente bisogno.

“Penso che andrò a trovare il nonno,” disse.

“Il nonno?” chiese la ragazza, scioccata. “Non lo vedi da anni. Perché dovresti andare ad incontrarlo? Penso che mi odi".

“Non credo,” replicò Riley. “E' sempre stato troppo impegnato ad odiare me.”

Fu di nuovo silenzio e Riley capì che sua figlia stava pensando a che cosa dire.

“Voglio che tu sappia una cosa" April disse. “Ho gettato via quel che rimaneva della vodka. Non ne era rimasta molta. Ho buttato anche il whiskey che avevi nella credenza. Mi dispiace. Probabilmente non erano affari miei. Non avrei dovuto farlo".

Lacrime iniziarono a scendere dagli occhi di Riley. Era certamente la cosa più responsabile e da adulta che April avesse mai fatto.

“No, dovevi farlo,” replicò Riley. “Era la cosa giusta da fare. Grazie. Mi dispiace di non essere stata capace di farlo da sola.”

Riley asciugò una lacrima e prese la sua decisione.

“Penso che sia tempo che parliamo davvero,” disse Riley. “E' arrivato il momento che ti dica alcune delle cose che volevi sapere da me.” Sospirò. “Ma non sarà piacevole".

April si voltò e la guardò, un senso di attesa negli occhi.

"Desidero molto che tu lo faccia, Mamma,” rispose.

Riley fece un lungo, profondo respiro.

“Un paio di mesi fa, lavoravo su un caso,” iniziò. Un senso di sollievo si fece strada in lei non appena iniziò a raccontare ad April del caso di Peterson. Capì che avrebbe dovuto farlo prima.

“Sono stata troppo irruenta,” proseguì. “Ero da sola, mi sono trovata in una situazione particolare e non volevo aspettare. Non ho chiesto aiuto. Pensavo di potermela cavare da sola.”

April commentò: "E' quello che fai sempre. Tenti di risolvere tutto da sola. Senza di me sempre. Senza neppure parlarne”.

“Hai ragione”.

Riley si fece forza.

“Ho liberato Marie.”

Riley esitò e poi proseguì. Sentiva la sua voce tremare.

“Sono stata catturata" continuò. “Mi ha rinchiusa in una gabbia. C'era una torcia.”

Si interruppe, piangendo, mentre tutto il suo terrore riaffiorava. Era molto imbarazzata ma non poteva fermarsi.

Con sua sorpresa, sentì la rassicurante mano di April sulla sua spalla e si accorse che anche la figlia stava piangendo.

“È tutto a posto, Mamma,” disse.

“Non riuscivano a trovarmi,” Riley continuò, tra i singhiozzi. “Non sapevano dove cercare. È stata colpa mia.”

“Mamma, non devi incolparti” disse April.

Riley s'asciugò le lacrime, tentando di mantenere il controllo.

“Alla fine, sono riuscita a scappare. Ho dato fuoco al posto. Dicono che l'uomo é morto e che non può più farmi del male.”

Scese il silenzio tra loro.

“Lo é?” chiese April.

Riley desiderava più di ogni altra cosa dire di sì, rassicurare sua figlia. Ma, al contrario, si trovò a dire:

Non lo so!.”

Il silenzio si fece più pesante..

“Mamma,” April disse con un tono nuovo nella voce, di gentilezza, compassione e forza, uno che  Riley non aveva mai sentito, “tu hai salvato la vita di qualcuno. Dovresti essere orgogliosa di te stessa.”

Riley sentì un nuovo dolore, mentre scuoteva lentamente la testa.

“Che c'é?” April chiese.

“Ecco dove sono andata ieri" Riley rispose. “Marie. Ero al suo funerale.”

“Ė morta!?” chiese, sconvolta.

Riley riuscì solo ad annuire.

“Come?”

Riley esitò. Non avrebbe voluto dirlo ma non aveva scelta. Doveva  ad April tutta la veritá.

“Si è uccisa".

Sentì April sussultare.

“Oh, mamma” la ragazza disse, piangendo. “Mi dispiace così tanto".

Piansero entrambe davvero a lungo, finché non ci fu un rilassato silenzio.

Riley fece un respiro profondo, si piegò e sorrise alla figlia, spostandole i capelli dalle guance bagnate di lacrime, con amore.

“Dovrai comprendere che ci sono cose che non posso dirti” Riley disse. “Sia perché non posso dirle a nessuno, sia perché non sarebbe sicuro per te saperle, o forse soltanto perché non penso che dovresti pensarci. Devo imparare a fare la mamma".

“Ma qualcosa di così grande come questo” April disse. “Avresti dovuto dirmelo. Sei mia madre, dopotutto. Come potevo sapere che cosa stavi passando? Sono abbastanza grande. Posso capire".

Riley sospirò.

“Immagino di aver pensato che avessi già abbastanza di cui preoccuparti. Specialmente con la separazione tra me e papà".

“La separazione non è stata così difficile rispetto al fatto che tu non mi parli” April precisò. “Papà mi ha sempre ignorata, tranne quando si sentiva tenuto a dare ordini. Ma tu, è come se improvvisamente non ci fossi più".

Riley prese la mano di April, e la strinse forte.

“Mi dispiace” Riley disse. “Per tutto".

April annuì.

“Anche a me dispiace” rispose.

Si abbracciarono, e, quando Riley sentì le lacrime di April scenderle lungo il collo, promise di essere diversa. Giurò di fare un cambiamento. Quando quel caso sarebbe stato risolto, sarebbe diventata la madre che aveva sempre voluto essere.

Capitolo 29

Riley guidava riluttante nella regione della sua prima infanzia. Non sapeva che cosa l'aspettava ma era certa che fosse una tappa necessaria per se stessa, in ogni caso. Si preparò all'idea di vedere suo padre. Sapeva di aver bisogno di affrontarlo.

Tutto intorno a lei si estendevano gli Appalachi, fino a sud alla zona delle sue recenti indagini. Il viaggio fin lì era stato benefico, in un certo senso, e, con i finestrini abbassati, stava cominciando a sentirsi meglio. Aveva dimenticato quanto fosse bella la Shenandoah Valley. Si ritrovò a guidare attraverso passi scavati nella roccia e lungo ruscelli impetuosi.

Attraversò una tipica cittadina di montagna, poco più che un gruppo di edifici, una pompa di benzina, un supermercato, una chiesa, qualche casa, un ristorante. Ricordò come avesse trascorso i suoi primi anni della propria infanzia in un posto molto simile a quello.

Ricordò anche quanto fosse stato triste il suo trasferimento a Lanton. La mamma le aveva detto che era dovuto al fatto che si trattava di una cittadina universitaria, e aveva molto altro da offrire. Questo aveva cambiato le aspettative di vita di Riley, quando era ancora molto giovane. Le cose sarebbero potute andare meglio se fosse stata in grado di trascorrere tutta la vita in questo mondo più semplice e più innocente? Un mondo dove sua madre non sarebbe stata uccisa un luogo pubblico?

La cittadina sparì dietro di lei, curva dopo curva di quella strada di montagna. Dopo pochi chilometri, Riley imboccò una tortuosa strada sterrata.

Non impiegò molto a raggiungere la baita che suo padre le aveva comprato, dopo essere andato in pensione dai Marine. Un malconcio SUV era parcheggiato nelle vicinanze. Non si recava lì da più di due anni, ma conosceva bene il posto.

Parcheggiò e uscì fuori dall'auto. Avvicinandosi alla baita, respirò l'aria pulita della foresta. Era una splendida giornata di sole, e, a quell'altitudine, la temperatura era fresca e piacevole. Si crogiolò nella meravigliosa quiete, interrotta soltanto dal canto degli uccelli e dal fruscio delle foglie nella brezza. Era bello essere circondata da tutti i lati dalla fitta foresta.

Si diresse verso la porta, passando davanti ad un tronco d'albero, dove il padre spaccava la legna per il fuoco. C'era una pila di legna lì vicino, la sua unica fonte di calore nelle giornate più fredde. Viveva anche senza elettricità, ma l'acqua di sorgente finiva nella baita, tramite tubature.

Riley sapeva che quella vita semplice era il frutto di una scelta, non era dovuta alla povertà. Con la pensione di cui godeva, avrebbe potuto ritirarsi ovunque lui desiderasse. Aveva scelto quel posto, e Riley non poteva biasimarlo. Forse, un giorno lei lo avrebbe imitato. Naturalmente, una pensione sostanziosa era quasi fuori questione, ora che aveva perso il distintivo.

Lei spinse la porta, che si aprì liberamente. Da quelle parti, c'era poco da temere dagli intrusi. Entrò e si guardò attorno. La stanza, modesta ma confortevole, era buia, con diverse lanterne a gas spente qui e là. Il rivestimento in pino aveva un caldo e piacevole odore di legno.

Nulla era cambiato dall'ultima volta in cui lei era stata lì. Non c'erano teste di cervo o altri segni della caccia. Al padre piaceva cacciare, ma non collezionare animali: lo faceva soltanto per mangiarli e vestirsi.

La quiete fu interrotta da un colpo di pistola proveniente dall'esterno. Sapeva che non era la stagione dei cervi. Probabilmente, lui stava sparando ad animali più piccoli, scoiattoli, corvi o marmotte. Lei lasciò la baita e scalò la collina, passando oltre l'affumicatoio dove il genitore teneva la carne, poi seguì un sentiero nella foresta.

Passò davanti alla sorgente da cui proveniva l'acqua fresca. Arrivò al margine di quello che restava di un vecchio meleto. Piccoli frutti grumosi pendevano dagli alberi.

“Papà!” gridò.

Non ci fu alcuna risposta. Si fece largo nel frutteto, invaso dalla vegetazione. Presto, vide il padre nelle vicinanze, un uomo alto e allampanato, con indosso un berretto da cacciatore e un gilè, che teneva in mano un fucile.

Lui volse il volto rugoso, segnato e invecchiato, verso di lei, non sembrando neanche un po' sorpreso di vederla, e neppure un po' contento.

“Non dovresti essere qui senza un gilè rosso, ragazza” l'uomo brontolò. “Sei fortunata che non ti abbia sparato”.

Riley non rispose.

“A dire il vero, ora qui non c'è nulla a cui sparare” disse irritato, scaricando il fucile. “Li hai fatti scappare tutti, urlando e passando tra i cespugli. Almeno, mangerò scoiattoli per cena".

L'uomo cominciò a scendere per la collina, dirigendosi verso la baita. Riley lo seguì, a malapena in grado di stare dietro il suo passo lungo e rapido. Dopo anni dal pensionamento, camminava ancora come un militare, e tutto il corpo si muoveva come un'enorme molla di acciaio.

Quando arrivarono alla baita, lui non la invitò ad entrare; non che Riley se lo aspettasse. Invece, lui mise gli scoiattoli in un cesto davanti alla porta; poi salì sopra un tronco, vicino alla pila di legna, e vi si sedette. Si tolse il berretto, rivelando i capelli grigi, che aveva tagliato ben corti, secondo lo stile dei Marine. Non guardò Riley.

Senza un altro posto dove sedersi, Riley si accovacciò sugli scalini della baita.

“E' bello l'interno della tua baita” disse, provando a trovare qualcosa di cui parlare. “Vedo che non stai ancora appendendo trofei".

“Sì, ecco” lui disse con un sorrisetto, “non ho mai preso dei trofei quando uccidevo in Vietnam. Non comincerò ora".

Riley annuì. Aveva spesso sentito quel dettaglio, sempre espresso con il tipico umorismo severo del padre.

“Allora, che cosa ci fai qui?” lui le chiese.

Riley cominciò a chiedersi che cosa dire. Che cosa diamine si aspettava da quell'uomo duro, così incapace di dimostrare del semplice affetto?

“Ho dei problemi, papà” lei disse.

“Con cosa?”

Riley scosse la testa e sorrise tristemente. “Non so da dove cominciare” lei rispose.

L'uomo sputò a terra.

“E' stato davvero stupido farsi catturare da quello psicopatico” lui disse.

Riley fu sorpresa. Come lo sapeva? Non era in contatto con lui da un anno.

“Pensavo che vivessi completamente isolato” lei disse.

“Vengo in città di tanto in tanto” il padre disse. “Sento delle cose".

Lei stava per dire che il “suo stupido farsi catturare” aveva salvato la vita di una donna. Ma poi rammentò rapidamente che non era affatto vero, non nel lungo termine.

Ma Riley trovò interessante che il padre ne fosse a conoscenza. Si era persino disturbato a scoprire qualcosa che le era accaduto. Che cosa altro ancora poteva sapere della sua vita?

Probabilmente non molto, lei pensò. O almeno nulla che ho fatto secondo i suoi standard.

“Perciò sei caduta a pezzi dopo l'intera faccenda dell'assassino?” lui chiese.

Riley s'irritò a tali parole.

Se intendi che io abbia sofferto di  PTSD, sì, è così".

“PTSD” lui ripeté con cinismo. “Non riesco nemmeno a ricordare il significato di quelle dannate lettere. Solo un modo eccentrico di dire che sei debole, per quanto mi riguarda. Non ho mai sofferto di questa cosa, non dopo che sono tornato a casa dalla guerra, non dopo tutte le cose che ho visto, e che mi sono state fatte. Non vedo come qualcuno possa allontanarsene, se la utilizza come scusa".

Poi, l'uomo divenne silenzioso, distogliendo lo sguardo, quasi come se lei non ci fosse. Riley immaginò che quella visita non sarebbe finita affatto bene. Poteva anche parlare un po' di quello che stava accadendo nella sua vita. Lui non avrebbe avuto alcunché d'incoraggiante da dire, ma almeno avrebbe fatto conversazione.

“Sto avendo difficoltà con un caso, papà” lei disse. “E' un altro serial killer. Tortura le donne, le strangola e le lascia all'aperto".

“Sì, ho sentito parlare anche di questo. Le posiziona nude. Una storia orrenda.” Sputò di nuovo. “E fammi indovinare. Sei in conflitto con il Bureau. L'autorità non sa che cosa fa. Non ti ascolteranno".

Riley era stupefatta. Come aveva indovinato?

“E' stato lo stesso con me in Vietnam” l'uomo disse. “I pezzi grossi non hanno nemmeno ottenuto quello che volevano lottando in quella dannata guerra. Cristo, se avessero lasciato fare a me, avremmo vinto. Mi viene la nausea a pensarci".

Riley sentì qualcosa, nella sua voce, che non aveva sentito spesso, o almeno, aveva notato  di rado. Era rimorso. Provava davvero rimorso per non aver vinto la guerra. Non importava che non fosse affatto da biasimare. Si sentiva responsabile.

Mentre Riley studiava il suo volto, realizzò qualcosa. Assomigliava a lui, più di quanto assomigliasse a sua madre. Ma nulla di più. Era come lui, non solo per il suo modo tremendo di gestire i rapporti, ma per la sua determinazione ostinata, per il suo esagerato senso di responsabilità.

E la cosa non era affatto negativa. In questo momento di complicità , si chiese se forse potesse davvero dirle ciò che aveva bisogno di sapere.

“Papà, quello che fa è così brutto, lasciando i corpi nudi e messi in pose così orribili, ma-”

Poi si fermò, provando a pensare alle parole giuste.

“I luoghi in cui le lascia sono sempre così belli, foreste e ruscelli, scenari naturali simili. Perché sceglie dei luoghi simili per fare qualcosa di tanto brutto e malvagio?”

Gli occhi del padre si chiusero. Sembrò che stesse esplorando i suoi stessi pensieri, i suoi ricordi, parlando così tanto di sé, come se fosse di chiunque altro.

“Vuole ricominciare daccapo” lui disse. “Vuole ritornare al principio. Non è lo stesso con te? Non ritorni a dove hai iniziato e ricominci daccapo? Torni a quando eri una bambina? Cerchi il luogo dove tutto è andato storto e fai andare la vita in modo completamente diverso?”

L'uomo stette in silenzio per un istante. Riley ricordò quali pensieri avesse avuto, arrivando lì, quanto fosse stata triste da bambina, quando aveva dovuto lasciare quelle montagne. C'era davvero una verità elementare nelle parole del padre.

“Ecco perché Io vivo qui” lui disse, scivolando sempre di più nei suoi pensieri.

Riley si sedette lì serenamente, a riflettere. Le parole paterne stavano cominciando a farle focalizzare qualcosa. Aveva supposto a lungo che l'assassino tenesse prigioniere e torturasse le donne nella sua casa d'infanzia. Non le era venuto in mente che scegliesse quel posto per un motivo, per tornare, in qualche modo, al suo passato e cambiare ogni cosa.

Sempre senza guardarla, il padre le chiese: “Che cosa ti dice l'istinto?”

“Ha qualcosa a che fare con le bambole” Riley rispose. “E' qualcosa che il Bureau non ha capito. Sta seguendo la pista sbagliata. Lui è ossessionato dalle bambole. In qualche modo, è questa la chiave".

Il padre borbottò e trascinò i piedi.

“Ecco, tu continua semplicemente a seguire il tuo istinto” disse. “Non lasciare che quei bastardi ti dicano che cosa fare".

Riley restò senza parole. Non fu come se lui le avesse fatto un complimento. Non fu come se fosse stato gentile. Era lo stesso irascibile pallone gonfiato che era sempre stato. Ma, in qualche modo, le aveva detto esattamente ciò che aveva bisogno di sentirsi dire.

“Non mi arrenderò” lei disse.

“Che io sia dannato se tu ti arrenderai” lui sbraitò in un sussurro.

Non c'era altro da aggiungere. Riley si alzò in piedi.

“E' stato bello vederti, papà” lei disse. Ed era un minimo sincera. L'uomo non rispose, si limitò a restare seduto lì a guardare in terra. Lei entrò nella sua auto e se ne andò.

Mentre guidava, si rese conto di sentirsi diversa rispetto a quando era arrivata, e in qualche strano modo, molto meglio. Sentiva che qualcosa si era risolto tra di loro.

Sapeva anche qualcosa che non sapeva prima. Ovunque vivesse l'assassino, non si trattava di un caseggiato, una fogna o persino di una orribile baracca fatiscente, all'interno della foresta.

Sarebbe stato un posto bello, dove bellezza e orrore convivevano insieme, fianco a fianco.

*

Poco dopo, Riley era seduta ad un caffè nella cittadina vicina. Suo padre non le aveva offerto niente da mangiare, il che non era sorprendente, e ora aveva fame e aveva bisogno di nutrirsi per il viaggio di ritorno.

Proprio quando la cameriera le mise davanti un panino con pancetta, lattuga e pomodoro, il cellulare di Riley vibrò. Controllò chi la stava chiamando, ma non era un numero sconosciuto. Rispose con cautela.

“Parlo con Riley Paige?” chiese una donna, con voce efficiente.

“Sì” rispose Riley.

“Ho in linea il Senatore Mitch Newbrough. Vuole parlare con lei. Può attendere, prego?”

Riley si sentì leggermente allarmata. Di tutte le persone con cui lei non voleva parlare, Newbrough era in cima alla lista. Sentì l'esigenza di porre fine alla telefonata senza aggiungere una parola, ma, poi, pensò che sarebbe stato meglio non farlo. Newbrough era già un nemico potente. Farsi odiare ancora di più da lui non era una buona idea.

“Attendo” Riley disse.

Pochi secondi dopo, sentì la voce del Senatore.

“Sono il Senatore Newbrough. Presumo che lei sia Riley Paige.”

Riley non seppe se essere furiosa o terrificata. Lui stava parlando come se lei fosse quella che gli aveva telefonato.

“Come ha avuto questo numero?” lei chiese.

“Ottengo sempre quello che voglio” Newbrough rispose con una voce tipicamente fredda. “Voglio parlarle. Di persona".

Il timore di Riley aumentò. Quale ragione poteva avere per volerla vedere? Non poteva trattarsi di nulla di buono. Ma come poteva rifiutare senza peggiorare le cose?

“Potrei passare a casa sua” l'uomo disse. “So dove abita".

Riley stava quasi per chiedere come conoscesse il suo indirizzo. Ma rammentò a se stessa che lui aveva già risposto a quella domanda.

“Preferirei che ne parlassimo ora al telefono” Riley disse.

“Temo che non sia possibile” Newbrough disse. “Non posso parlarne al telefono. Quando possiamo vederci?”

Riley si sentì nella potente stretta dell'uomo. Intendeva rifiutare, ma in qualche modo, non poteva permetterselo.

“Adesso sono fuori città” lei disse. “Sarò a casa molto più tardi. Domattina porterò mia figlia a scuola. Potremmo incontrarci a Fredericksburg. Forse in un caffè.”

“No, non in un luogo pubblico” il Senatore disse. “Dev'essere un posto meno evidente. I giornalisti tendono a seguirmi. Mi circondano ogni volta che ne hanno la possibilità. Preferirei restare fuori dal loro mirino. Che ne pensa di Quantico, il quartier generale del BAU?”

Riley non riuscì a  nascondere una nota di amarezza nella sua voce.

“Non ci lavoro più, ricorda?” lei disse. “Dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro.”

Ci fu una breve pausa.

“Conosce il Magnolia Gardens Country Club?” Newbrough le chiese.

Riley sospirò all'assurdità della domanda. Certamente non frequentava quei tipi di circoli.

“Non posso dire di sì” lei rispose.

“E' facile da trovare, a circa metà strada tra Quantico e la mia proprietá. Ci vediamo lì alle dieci e trenta domattina.”

Riley apprezzava sempre meno la cosa. Lui non glielo aveva chiesto, le aveva imposto un ordine. Dopo aver distrutto la sua carriera, che cosa voleva ancora da lei?

“E' troppo presto?” Newbrough domandò, quando Riley non rispose.

“No” Riley disse, “è solo che—”

Newbrough interruppe: “Allora ci vediamo lì. L'accesso è soltanto per i membri, ma li avvertirò dicendo di lasciarla entrare. Deve venire. Vedrà che è importante. Si fidi".

Newbrough mise fine alla telefonata, senza nemmeno salutare. Riley era esterrefatta.

“Si fidi” l'uomo aveva detto.

Riley avrebbe potuto trovarlo divertente, se non si fosse così innervosita. Oltre a Peterson e a qualunque altro assassino che stesse cercando, Newbrough era probabilmente la persona di cui meno si fidava al mondo. Molto meno di quanto facesse di Carl Walder. E il che era davvero un gran dire.

Ma apparentemente, lei non aveva altra scelta. Lui aveva qualcosa da dirle, lo sentiva. Qualcosa, sentiva, che avrebbe persino potuto condurla all'assassino.

Ograniczenie wiekowe:
16+
Data wydania na Litres:
10 września 2019
Objętość:
270 str. 1 ilustracja
ISBN:
9781632915757
Format pobierania:
epub, fb2, fb3, ios.epub, mobi, pdf, txt, zip