Czytaj tylko na LitRes

Książki nie można pobrać jako pliku, ale można ją czytać w naszej aplikacji lub online na stronie.

Czytaj książkę: «La montanara», strona 24

Czcionka:

Capitolo XX.
Vent'anni dopo

Sette anni fa, il mio amore per le vecchie castella, per i monti e i laghi dell'Appennino, mi condusse a Reggio, donde risalii a Canossa, alle Carpinete, a Bismantua, e di là, sempre per vie di montagna, a Fiumalbo, per salire la vetta del Cimone.

Eravamo in parecchi, amici provati, ed anche avvezzi a fare insieme quelle escursioni estive. Uno di essi, l'ingegnere, conosceva benissimo i luoghi, e ci aveva anche assicurato che presso Fiumalbo, da certi suoi conoscenti, avremmo trovato alloggio e cavalli, per far l'ascensione con ogni comodità.

Non fu vana promessa. Poco sopra Fiumalbo avemmo i cavalli, e al nostro ritorno (poichè allora non volevamo fermarci) avremmo anche avuto l'ospizio. Il padrone di casa, un bell'uomo, ancora giovane, dall'aspetto severo, ma dai modi singolarmente cortesi, si mostrò dolentissimo di non poterci accompagnare, per sue ragioni di famiglia, che lo chiamavano quel giorno in paese. Ringraziammo, accettando le guide che egli aveva messe a nostra disposizione, e ci avviammo su per un bosco di cerri, al dorso sassoso del Cimone.

– L'amico non può; – mi disse l'ingegnere, quando fummo al largo ed egli potè mettere il suo cavallo al pari col mio; – ma se anche potesse, verrebbe difficilmente con noi. Le alture non lo tentano più.

– Niente di strano; – risposi. – Ho già avute occasione di osservare il fenomeno. Son tutti così, questi abitatori della campagna: hanno i meravigliosi spettacoli della natura a uscio e bottega, e non c'è caso che si vogliano scomodare un'oretta per andarli a contemplare. Così avviene che i cittadini della pianura si facciano alpinisti e conoscano a palmo a palmo i gioghi e le vette, mentre i signori montanari non fanno cento passi lontano da casa. —

L'ingegnere mi lasciò fare tutte le variazioni possibili sul tema, pensando forse alla beatitudine di certa gente, a cui basta una parola, per mettere in moto il cervello e svolgete un'intiera teorica, senza curarsi più affatto del punto di partenza. Io ero felice di chiacchierare a distesa, e non badai lì per lì al silenzio dell'amico. Credo anzi di averlo interpetrato allora come un atto di assentimento alla bontà delle mie osservazioni. Vedete dove si ficca la vanità, e fin dove ci seguita!

Giungemmo col sole alto alla vetta del monte, e dopo una breve fermata scendemmo a visitare i laghi. Quello della Ninfa mi piacque moltissimo, forse perchè aveva una leggenda, che il capo della scorta ci raccontò. Vedevamo laggiù, dall'altra parte dell'acqua, lo scoglio dorato che raffigurava imperfettamente il profilo di una donna supina, e volentieri saremmo andati anche noi ad ossequiare la Ninfa; ma come? Da una parte il sasso era tagliato a piombo; dall'altra era tutto un prunaio; quanto al passare dal mezzo, ci sarebbe voluta una fede più forte della nostra.

– Peccato che non ci sia una barca! – esclamai.

– C'è stata; – mi rispose l'ingegnere; – ma non c'è durata molto.

– Lo credo bene, che non ci poteva durare! – entrò a dire il capo della scorta. – C'ero io, quando s'è lanciata in acqua, e l'ho detto subito, che la Fata non ne sarebbe stata contenta. La primavera dopo, quando ci ritornai, non c'era più barca. Eppure, vedano, era stata tirata a riva e legata con una fune a quel tronco d'albero là, che allora non aveva due palmi di giro.

– Sfido io! – mi disse l'ingegnere all'orecchio. – C'è stata una piena, nell'inverno; un bel carico di neve e di ghiaccio ha fatto affondare la barca, il peso ha strappata la fune, e addio roba! S'è affondata di sicuro, senza bisogno che la Ninfa la vedesse di mal occhio. —

Benedetti ingegneri! Son come i medici, loro, ed hanno una ragione per ogni cosa. A me, lo confesso, piaceva assai più lo sdegno della Ninfa. E notate che non sono poeta; lo sono così poco, che poco lungi di là, vedendo un faggio che portava sul tronco i segni di parecchie incisioni fatte con una punta di coltello, incisioni già antiche, con caratteri oramai illeggibili, feci un'osservazione come questa:

– Che scioccherie! Guastare un bel tronco, per far sapere alle genti il suo riverito nome… Che gusto c'è, dico io, che gusto? —

L'ingegnere per quella volta non mi lasciò andar fuori, ed io sentii una toccatina di gomito, che mi persuase a smetter subito subito.

– Se sapeste! – mi disse egli poscia. – C'è tutta una storia d'amore, sotto quelle incisioni.

– Leviamo allora la corteccia, e leggiamola; – risposi. – O piuttosto, poichè siamo già troppo lontani dall'albero, siate tanto gentile da raccontarmela. Non cerco altro che storie, io!

– Domani; – mi replicò l'ingegnere. – Ve la racconterò domani.

– Perchè non oggi?

– Anche oggi, alla fermata; ma a patto che siano lontani gli uomini della scorta. Capirete bene!..

– Non capisco nulla, ma fa lo stesso. Avete le vostre ragioni, e mi basta. —

Per quel giorno diedi io il segnale della fermata, vedendo un'eminenza dove le cavalcature non avrebbero potuto stare che a disagio. Colà andammo a seder noi, mandando la scorta e i cavalli su d'un ripiano più basso.

– Ho capito; – disse l'ingegnere; – voi volete la storia. Andiamo dunque a ristorarci lassù. —

Volevo la storia e l'ebbi, per allora in compendio, ma dal principio alla fine. Il gentiluomo mandato per punizione a vivere in que' luoghi salvatici; l'ospitalità di una famiglia montanara; gli amori, le corse al Cimone, la gita al lago della Ninfa, la barca lanciata in acqua, i nomi dei due amanti incisi sui tronchi dei faggi; il richiamo del gentiluomo a Modena; i pianti, le promesse, i giuramenti, l'oblio, le nozze con un'altra donna, le angosce, i pentimenti, le giustificazioni e la morte; tutto, insomma, e senza che un nome fosse pure proferito.

– Ora vi ho contentato; – mi disse l'ingegnere. – Ma voi mi prometterete di non ricordarvi più del racconto che vi ho fatto, fino a doman l'altro, quando saremo ritornati a Modena.

– Perchè?

– Il perchè lo so io; promettete! Ed anche di non accennare stasera, in presenza dei nostri ospiti, alle particolarità della nostra visita al lago.

– Non sanno forse che ci andavamo? – risposi.

– Lo sanno; ma voi mi farete cosa gradita a non parlarne, e a tagliar corto se ve ne domandano essi. Promettete?

– Figuratevi, caro amico! Se non è che questo!.. Faremo delle chiacchiere vane; parleremo magari di politica… che Iddio ce ne scampi, per altro! —

Erano forse le otto di sera, quando si giunse alla casa degli ospiti: una casa vastissima, o, per dire più veramente, un ceppo di case alte e basse, la cui contiguità chiaramente indicava il bisogno d'ingrandimenti successivi, lasciando anche argomentare che si fosse molto pensato alle comodità interne, senza badare affatto a contentar l'occhio del viandante con una armonica disposizione di linee esteriori. Smontati da cavallo innanzi al portone, trovammo sulla soglia il signore che quella mattina ci aveva augurato il buon viaggio. Egli ci pregò di salire in casa sua, con molta semplicità di discorso, senza nessuna di quelle dichiarazioni d'indegnità, di casa non adatta, di accoglienza alla buona, che sono il consueto accompagnamento degl'inviti di montagna.

Noi piuttosto avremmo voluto scusarci. Eravamo cinque ospiti, tutti vestiti alla carlona, stazzonati, gualciti, stinti e inzaccherati da due settimane di vita zingaresca. Ma a che far complimenti, tra uomini? Il nostro aspetto, poi, non era niente peggiore di quello che presentava la casa.

Per altro, come fummo entrati nella gran sala del primo piano, ci colpì l'aria di signorile abbondanza che regnava colà. Era nel mezzo una gran tavola, sontuosamente imbandita, con due grandi doppieri sui capi, le cui fiamme si riflettevano lungo le pareti, sui cristalli di quattro scansìe piene di libri riccamente rilegati, e sulla cassa impiallacciata di un pianoforte a coda. In verità, ci trovammo male, là dentro, coi nostri abiti gualciti e le nostre scarpe inzaccherate. Ma infine, i nostri ospiti sapevano bene donde venivamo, e non ignoravano certamente che scorrevamo i monti senza impicci di valigie e di sacche da viaggio.

Questo pensiero ci calmò un pochettino, mentre rispondevamo con inchini e frasi scucite alle oneste accoglienze del padrone di casa, bel vecchio ottuagenario, ancora molto robusto, e triste e cortese come suo figlio, che ci aveva salutati sull'uscio di strada.

L'ingegnere conosceva quel vecchio, e si prese egli la briga di presentare ad uno ad uno i suoi quattro compagni di gita, che capitavano là ad incomodare i padroni di casa.

– Per incomodare, son pochi; – rispose il vecchio. – Desideriamo che si trovino bene, e ce lo provino, facendo una lunga fermata. —

Tutto ciò era detto con molto garbo, ma anche con molta gravità. Il vecchio parlava con noi, ma aveva l'aria di pensare a tutt'altro.

Dietro a lui apparvero allora due donne: vecchia la prima, e non più giovane la seconda. Strano contrasto! La vecchia aveva i capegli quasi neri; la più giovane li aveva bianchi del tutto, e non li nascondeva. Due ciocche d'argento sbucavano dal fazzoletto di seta, che ella portava addoppiato, secondo il costume montanino, intorno alle tempie.

Vedute le signore, dovemmo pure scusarci dei nostri poveri arnesi. Ma il vecchio non ci lasciò continuare.

– Per carità, non facciamo complimenti; – diss'egli. – La casa non c'è avvezza; e noi meno della casa. – Capii che non occorreva insistere, e condussi il discorso sui libri, domandando il permesso di avvicinarmi alle scansie che avevo vedute da principio. C'erano molti libri moderni, sugli scaffali, e fui lieto di poter proferire, leggendo, parecchi nomi d'amici.

La signora più giovane, che era la figliuola del padrone di casa, mi aveva accompagnato in quella piccola ispezione. Le domandai se leggesse molto.

– No, non più tanto; – mi disse. – Il tempo manca.

– Come? – esclamai. – Anche qui, signorina?

– Qui più che altrove; – rispose ella. – Le faccende di casa son molte.

– E non bisogna dimenticare i bambini; – soggiunse l'ingegnere, che si era avvicinato in quel punto. – La signorina li ama assai, e fa scuola a tutti i ragazzi del vicinato. —

Quella signorina dai capegli bianchi come la neve, che amava molto i bambini, ed era rimasta a governar la casa di suo padre, scambio di prendere un marito che non avrebbe dovuto cercare, così bella come era stata sicuramente nella sua prima gioventù, e come appariva tuttavia, ad onta de' suoi otto lustri, quella signorina, dico, fece sull'animo mio una profonda impressione.

E non essa soltanto, ma ogni cosa ed ogni persona, in quella casa tanto ospitale, eppure tanto malinconica: i cui abitatori vi destavano tanta simpatia, e vi gelavano le parole in bocca, quando cercavate di esprimerla.

Durante il pranzo si ragionò di varie cose, ma parlò quasi sempre l'ingegnere, dando notizie di Modena, e venendo a discorrer poi di opere pubbliche. L'ottuagenario prese la parte maggiore alla conversazione, ma non si scaldò un tantino che quando si cadde sulla politica. Dio buono, anche in montagna? Sì, lettori garbati, più in montagna che altrove. E con che ardore, lassù! In fede mia, se i nostri uomini politici sapessero da che altezze son sempre osservati, e alle volte giudicati, tremerebbero senz'altro. Ma essi ordinariamente non badano che alla opinione delle grandi città, spesso ristretta ad un battibecco di cinque o sei giornali, mentre il grosso della popolazione pensa a far fortuna, o a darsi bel tempo, o a tutt'e due le cose insieme, volgendo agli uomini politici un'occhiata stracca, e solamente nelle grandi occasioni, attraverso la prosetta rachitica dei sunti parlamentari. In quelle alte solitudini, in quelle paci campestri, gli uomini politici son forse stimati più grandi del vero; per contro, si domanda loro di più. E come sono flagellati a sangue, quando perdono il tempo in chiacchiere! come sono profondamente odiati, quando fanno il male, scambio del bene che si aspettava da loro!

Ripeto: se sapessero come son giudicati, tremerebbero. E se vi pare che questo verbo disdica ad uomini politici, mettiamone pure un altro; diciamo che si vergognerebbero di tanta miseria, di tanta povertà d'ideali, e quind'innanzi ad ogni loro atto andrebbe compagno il pensiero: che cosa ne diranno quei di lassù? Fortunatamente gli uomini politici non sanno nulla di questi severi giudizi, e possono seguire, senza timori e senza sospetti, le loro modestissime inclinazioni. E gli abitanti della pianura, i beati cultori dell'aurea mediocrità, respirano liberamente, pensando che non ci sono più grand'uomini, che non ci sono più eroi, per escire di riga, per guastare la bella armonia del concerto.

Io, come il lettore s'immagina, durai gran fatica a sostenere quella conversazione. Politica, santi Numi! Politica lassù? Mi ero posto in guardia; sapevo poco di ciò che si faceva nelle alte sfere; non conoscevo personalmente nessuno degli uomini che giudicava dall'alto il mio ospite. Egli potè credermi, magari Dio, più sciocco del vero, e alieno per trista elezione dalle cose della patria. A mala pena mi venne fatto di trovare la gretola, scappai fuori, cercando di tirare il discorso sui monti, sulla loro formazione, sulla loro emersione, sui fatti geologici e meteorologici che li avevano condotti alla forma presente, e su tante altre cose affini, egualmente importanti, sperando di esser preso anch'io per un fossile, anteriore al periodo glaciale.

Avrei potuto parlare di letteratura, argomento che oramai è da tutti, grazie all'assiduo lavoro della critica spicciola, che c'istruisce per due soldi la settimana, e ci fornisce anche, bontà sua, il lume a mano, per iscoprire le più riposte bellezze dei capilavori moderni. Ma le poche parole ch'ebbi occasione di farne con la figliuola del mio ospite, mi persuasero che neppur quello era argomento per me. La signorina aveva buon giudizio; ma domandava troppo all'arte nuova, e più assai ch'ella non possa dare, costretta com'è dalle esigenze del gusto presente, e più proclive a secondarle che non sia adattata a combatterle. Figuratevi! Le domandava di riaccostarsi alle forme antiche; di seguire la tradizione paesana; di aver presente questa teorica barbogia, che il pensiero è un fiore delicato, il quale non nasce su tutti i margini di strada, e vuol essere educato con ogni cura nei giardini, e presentato come una maraviglia alle genti. No, no, niente letteratura! Geologia, piuttosto, geologia e paleontologia, dove i vecchi strati delle rocce e le antiche specie organiche si studiano bensì, ma sotto l'aspetto della classificazione, senza obbligo di abbracciar sempre un partito.

Il pranzo era stato servito con abbondanza montanara, quasi feudale. La cacciagione e il pesce di fiume avevano fornita la mensa. Dei vini non si parla neanche: il lambrusco, il trebbiano, il vin santo, erano a dirittura eccellenti. Pure, non venni a capo di esilararmi un tantino; anch'io, come le trote del mio ospite, era un pesce fuor d'acqua.

L'ingegnere, quando ci fummo tutti ritirati nelle nostre camere, mi prese in disparte e mi disse:

– Ebbene, che opinione vi siete fatta dei nostri ospiti?

– Caro amico, – risposi, cercando di eludere la quistione, – un buon pranzo, e non ancora digerito, comanda la gratitudine ad ogni stomaco ben fatto.

– Lasciamo gli scherzi; – replicò l'ingegnere. – Vi domando che cosa pensate, sinceramente, di queste persone? Son curioso di saperlo.

– Appagherò la vostra curiosità, quando voi avrete risposto ad una mia domanda. Che spessore attribuite voi a queste pareti?

– Ma… non saprei. Bisognerebbe misurare. Del resto, parlate sottovoce, e non ci sarà caso che nessuno vi senta.

– Orbene, – ripigliai, – sentite la mia opinione. Mi par d'essere in una casa incantata. C'è nell'Orlando furioso, ed anche nelle Mille e una notte, d'onde l'Ariosto ha cavato tante altre belle cose, la storia di un'isola, dove tutti gli abitanti erano rimasti di sasso. Qui mi sembra di vedere un caso consimile. Ci sono delle persone gentili, molto gentili, ma in modo tutto lor proprio, che non è quello del comune degli uomini. Accolgono con affabilità, parlano con amorevolezza, ma si direbbe che è tutto lavoro meccanico, superficiale, e che il cuore non c'entra per nulla. Cioè, non esageriamo, – soggiunsi tosto, vedendo di essere andato oltre il mio pensiero, per la stessa difficoltà di esprimerlo, – il cuore c'entra per le sue parti meno profonde; ma nel fondo, nel nocciolo, è come gelato. Il pensiero, dal canto suo, è qualche volta con gli ospiti, ma più spesso si chiude entro di sè medesimo, per contemplare Dio sa che. Per dirvela in poche parole, non mi sembrano persone di questo mondo, quantunque ci vivano, e abbiano l'aria di muoversi in mezzo a noi tutti.

– Avete ragione; – mi rispose l'ingegnere. – C'è passato un gran dolore, su questa casa di galantuomini. Li avete veduti, i capegli bianchi di quella signorina? Alla sua età molte donne li hanno così, e la tintura benefica di Madama Allen corregge gli errori del tempo. Ma questa, vedete, li ha bianchi da oltre vent'anni; in una settimana la sua ala di corvo si è tramutata in ala di cigno. Il suo dolore non ha dato lagrime, si è gelato intorno al cuore; e tutti, intorno a lei, si sono raccolti in un muto rammarico. Ella non ha voluto contristare nessuno; ma tutti son tristi con lei e per lei.

– Ed è la fanciulla della storia che mi avete raccontata quest'oggi! – esclamai.

– Sì, stavo appunto per dirvelo.

– Oh, non dubitate! Lo avevo immaginato fin dal primo momento che siamo entrati in questa casa. Ma come può aver durato tanto al dolore?

– Un medico ve lo direbbe. Gli organismi sani resistono e conservano. Noi ammalati, con l'aneurisma congenito nelle arterie e il tubercolo appiattato nel polmone, non si resiste all'affanno, si muor di dolore; qui invece ne vivono. Si può anche dire che qui è il dolore nella sua forma più nobile. La fibra sana resiste, il sangue vivo e rutilante vorrebbe ribellarsi, chiedendo tutte le gioie, tutte le ebbrezze dell'esistenza; ma l'anima costringe il sangue, l'anima comanda alla fibra. – «No, – dice essa, la vincitrice immortale, – io soffro, soffrite voi pure con me.» —

– Ingegnere! – esclamai. – Siete poeta?

– Chi non lo è? – diss'egli, stringendosi nelle spalle.

– Eh, molti e molti che conosco io; – risposi.

– Non lo credete; – ripigliò l'ingegnere. – Voi mi parlate di una gente che conosco anch'io, e forse più intimamente di voi, perchè io vivo tra gli uomini, e voi, caro amico, dividete il vostro tempo tra i libri e le nuvole.

– Non tanto, ingegnere! Non tanto! Ma se è per farvi piacere…

– Per farmi piacere, – soggiunse egli, – dovete credere quello che io so di tanti campioni della prosa, millantatori di una certezza negativa che non hanno nell'anima. Son povera gente, ve lo dico io, povera gente che si vergognerebbe di credere come noi, gabellati da essa per ispiriti deboli, e che poi, trascinata dalla necessità del sistema, non sa far altro che sostituire una metafisica sua a quella che avrebbe voluto discacciare per sempre. Oh, le fanfaluche di cui si nutrono e in cui credono fermamente, gli apostoli della negazione! Ci sarebbe da fare un bel libro, sapete!

– Ma non per convertirli! – risposi.

– Lo so. Per convertirli, ci vorrebbe un corso di matematiche. È là, – disse l'ingegnere, trionfante, – che io mi sentirei di ridurli a miglior consiglio, questi amenissimi roditori della scienza, che osservano i fatti e non vedono le relazioni, che studiano la materia e non intendono la legge, che non si elevano a nessun concetto di integrazione, che non sospettano neanche della vitalità delle astrazioni e della virtù generatrice degli assiomi. Ma noi filosofiamo, – soggiunse l'amico, ridendo, – ed è tempo di andare a dormire.

– Ecco una verità assiomatica! – risposi io. – Dunque, buona notte!

– Buona notte! E ricordate la storia che vi ho raccontata. C'è la materia d'un libro.

– Ora che ne conosco gli attori! – esclamai. – Vi pare possibile? segnatamente con quella libreria, dove entrano anche le pubblicazioni più recenti! Dio guardi se ci capitasse la storia, che voi mi consigliate di scrivere.

– È vero; – mi rispose l'ingegnere. – Non se ne parli più. —

Fatte queste parole, ce ne andammo a dormire. La mattina seguente, bevuto il caffè insieme coi nostri ospiti delle Vaie, prendemmo congedo da loro, per ritornarcene a Modena. Quando fui in sella, mi parve di essere Gino Malatesti. La fanciulla dei Guerri era là, bellissima ancora, co' suoi capegli bianchi e con le rughe precoci intorno ai grandi occhi pensosi.

Avrei voluto dirle una buona parola, dond'ella intendesse che io conoscevo la storia de' suoi nobili dolori; ma mi parve cosa puerile. Anche una massima generale avrebbe stonato, e mai certe generalità sentenziose mi parvero più sciocche d'allora. Strinsi la mano a tutti, senza aggiungere una frase, dopo le tante di ringraziamento che aveva fatte l'ingegnere per noi. La mano di Fiordispina era fredda; ma io l'avevo sentita tremare. Forse in quel luogo medesimo, davanti alla casa campestre, Gino Malatesti era salito in arcione, e di là aveva mandato l'ultimo saluto con l'ultima promessa, ahimè, non attenuta alla fanciulla dei Guerri!

E il povero prete? Ah, quello era morto da un pezzo, e non soffriva più dei dolori altrui. Pace all'anima di Don Pietro Toschi, e sia sempre il suo nome ricordato con venerazione alle Vaie.

Mi accomiatai tristamente dai Guerri, che non dovevo più rivedere. Mezz'ora dopo, ero a Fiumalbo; il giorno seguente a Modena, donde ritornai subito a casa, tra i miei sopraccapi, che m'aspettavano tutti, e i miei libri, che avevano l'aria di dirmi, – «La vuoi finire con le malinconie? Vieni, la consolazione e la vita sono con noi, morti parlanti, senza la malignità, l'ambizione e l'invidia dei vivi». —

Ritornato alle mie cure, non dimenticai la storia delle Vaie. Spesso, quante volte mi accadeva di parlare con cittadini di Modena, chiedevo notizie dei personaggi che ci avevano avuta la parte loro. Seppi così che il conte Jacopo Malatesti era morto in esilio volontario a Vienna, mentre il marchese Paolo era divenuto senatore del regno d'Italia; seppi che la marchesa Polissena Baldovini viveva tuttavia, facendo la bella, come poteva. E vive ancora, poichè non ha più di sessantacinque anni; ma i suoi capegli son sempre biondi, anzi oggi più biondi che mai, e fa il bocchino, quando i giovanotti le dicono celiando: – «Voi, marchesa, siete un'altra Ninon de Lenclos.» – La contessa Elena, sua figlia, non è con lei; intorno al 1861 si era rimaritata, diventando baronessa De Wincsel; ma un anno dopo era separata dal marito. E da quanti altri, poi! Ventiquattr'anni son lunghi, per la storia di una donnina come quella.

Vive essa, vive sua madre, vivono tutti coloro che sentono meno e non danno troppe molestie al cuore. Son morti invece, l'un dopo l'altro, i miei ospiti delle Vaie. Primo il vecchio signor Francesco; poi Fiordispina; ultimo Aminta, nello scorso anno, pochi mesi dopo la sua buona sorella. Strano, quando una casa incomincia a disfarsi, come va tutta e presto in rovina!

Ma i Guerri non sono dimenticati, e la storia degli amori di Fiordispina è più viva che mai, nelle alte convalli dell'Appennino modenese e parmense; la sanno tutti, dal Cimone all'Alpe di Succiso, e dal Malpasso all'Orsaro. Fra cent'anni sarà una leggenda. Speriamo che trovi il suo poeta, e che questi non dimentichi di celebrare col più caldo de' suoi inni la nobile schiatta onde escono i Guerri. Di questi forti e nobili cuori si compone un'Italia che conosciamo così poco, l'Italia montanara, dove si sente più forte e più alto, glorificando la patria in excelsis.

FINE
Ograniczenie wiekowe:
12+
Data wydania na Litres:
25 czerwca 2017
Objętość:
440 str. 1 ilustracja
Właściciel praw:
Public Domain