Czytaj książkę: «Novelle e riviste drammatiche»
PREFAZIONE
I
È d'Arrigo la novella
Come l'araba Fenice!
Quante volte mi venne spontanea al pensiero questa variante della famosa strofetta metastasiana mentre attraverso biografie, bibliografie, giornali, riviste, libri vecchi e nuovi cercavo e non trovavo le traccie delle novelle che mi constava avesse scritto Arrigo Boito, anzi non solo non trovavo quelle traccie, ma mi pareva che più le ricercavo, più si facessero tenui, fino a sfumare del tutto! Tanto erano dimenticate e ignorate quelle novelle che parecchi ai quali credetti di potermi sicuramente rivolgere per notizie, mi guardarono stupiti, persuasi che io confondessi Arrigo con Camillo, autore, come si sa, di due volumi di novelle, pubblicati dai Treves, Storielle vane e Senso, nuove storielle vane. Che anche Arrigo avesse scritto novelle avevo imparato dal Croce, il quale a sua volta l'aveva imparato da una enciclopedia tedesca, ma non sì che non sospettasse anch'egli, da principio, trattarsi di un equivoco; trovarle non gli era stato possibile, ma che fossero state veramente scritte, mi disse a voce, ne aveva poi avuto conferma da Camillo, dalle parole del quale aveva anche ricevuto l'impressione che Arrigo avesse fatto di tutto perché quelle novelle fossero dimenticate, e non amasse che gliene parlassero. Perché, nessuno potrebbe dire.
Finalmente, grazie alla dottrina e alla cortesia di alcuni amici, – particolarmente mi è grato ricordare i nomi di Giuseppe Biadego, bibliotecario meritissimo della Comunale di Verona, del prof. Enrico Filippini, il cui aiuto mi fu veramente prezioso, del prof. Pietro Nardi, autore di un buono scritto su Arrigo Boito poeta e studioso sagace del gruppo milanese cui il Boito appartenne, – grazie anche al caso e all'ostinazione mia, mi venne fatto di metter le mani su tre delle sei novelle che il Boito avrebbe scritto, e, per giunta, su tre assai interessanti e ignoratissime sue riviste drammatiche: le une e le altre raccolgo in questo volume, certo di far cosa grata al pubblico o, per lo meno, a quanti sono studiosi della potente e complessa natura artistica dell'illustre uomo, che può parer strana solo perché non è ancora conosciuta in tutti i suoi elementi.
II
Cinque novelle il Boito avrebbe scritto, secondo il Croce, e cioè: L'alfier nero, Iberia, Il pugno chiuso, Honor, Il trapezio; una sesta, La musica in piazza, ricorda il maestro Gallignani, e di essa non riuscii a trovar traccia. L'alfier nero fu pubblicato prima nella rivista milanese Il Politecnico, poi, insieme con Iberia, sotto il titolo complessivo Un paio di novelle, nella Strenna italiana pel 1868 dell'editore milanese Ripamonti-Carpano: è la sola novella che abbia avuto l'onore e la fortuna di due edizioni, dalla prima alla seconda delle quali corrono pochissime differenze, bastanti tuttavia a mostrare con quanta cura il Boito la scrivesse, ché alcune, per quanto minute, rappresentano un miglioramento dell'espressione, una vera finezza artistica, e perciò le più importanti raccolgo più oltre.
Del Pugno chiuso il Pungolo annunciò, il 10 settembre 1867, come prossima la pubblicazione nelle proprie colonne, e l'annuncio rinnovò il 27 dicembre successivo; ma la novella non fu pubblicata né allora né poi dal famoso giornale milanese, diretto e compilato da amici affezionati del Boito che con lui avevano comuni ideali artistici e politici. Era quello il tempo del Mefistofele, e si può credere che prima le cure per la rappresentazione di così grande opera, su cui tante speranze giustamente posavano, poi la delusione amarissima distogliessero il pensiero dello scrittore dalla promessa novella. Di Honor neanche la più piccola traccia mi fu possibile trovare, né saprei dire dove il biografo tedesco ne scovasse l'indicazione. Il trapezio fu pubblicato nella Rivista Minima di Milano, diretta da Antonio Ghislanzoni e Salvatore Farina: nel terzo fascicolo del 1873, il 2 febbraio, comparve la prima puntata, e nel secondo del 1874, il 18 gennaio, fu, scrive il Farina, lasciato in tronco il gustoso romanzetto: "io, aggiunge, ne ebbi dispetto e ne ebbero dispetto i lettori", e possiam credergli. Non ogni numero della Rivista ebbe la sua parte di novella; gli intervalli tra puntata e puntata si fanno maggiori via via che il tempo passa; ma poiché ogni puntata ci presenta un episodio ben definito e si chiude in modo da acuire l'interessamento più che la curiosità dei lettori per quello che deve seguire, e poiché tutte rispondono a un piano che appare ben disegnato nella mente dell'autore, se anche non si riesce a indovinarne la linea conclusiva, bisogna dire che l'autore avesse tutta in mente la novella e ne mettesse in carta le singole parti quando la voglia di scrivere lo prendeva, fino a che un bel giorno questa voglia gli venne meno del tutto. Perché? "Già pensava al Nerone", scrive il Farina, e quantunque al Nerone, com'è noto, pensasse già da molto tempo e non da allora soltanto, si può credere che quest'opera pesasse gravemente sul destino delle altre sue, vere bagattelle al confronto di ciò ch'essa doveva essere. Il trapezio dunque non è che un frammento, ma pur come tale appare la migliore delle tre novelle che, sole, biografi e bibliografi indicano con precisa sicurezza, sì che non c'è da dubitare che sole esse tre siano state scritte. I titoli delle altre rappresentano promesse non mantenute: dietro i titoli, secondo mi fa credere l'esempio del Trapezio, ci doveva essere nella mente del maestro se non tessuta la tela, ordita la trama; bastava solo, forse, ch'egli le scrivesse e a ciò non seppe o non poté decidersi, per circostanze che è vano investigare.
III
Il Boito novelliere è, dunque, sconosciuto a tutti: di lui come tale non ho trovato che un solo giudizio, in un vecchio scritto del Molmenti: "Se le follie della immaginazione non turbassero la serenità dell'arte, L'alfier nero e Il trapezio sarebbero due gioielli", giudizio che non mi par rispondente a verità. Le "follie della immaginazione", più che nelle due ricordate dal Molmenti, sono manifeste nella novella ch'egli tace, Iberia, e forse si riducono tutte all'accentuato esotismo, che è carattere comune a tutte tre; dell'Alfier nero e dell'Iberia altro carattere è il prendere che fanno l'ispirazione da fatti e questioni che, quando furono scritte, occupavano e preoccupavano il pubblico di tutto il mondo: la prima è ispirata dalla questione della schiavitù dei negri d'America e si svolge tra un negro e un anglo-americano in un grande albergo della Svizzera; la seconda prende chiaramente occasione dalle vicende politiche della Spagna nel 1867-68 per sintetizzare il carattere e la storia di quel paese nella tragedia di due giovanissimi rampolli di schiatte reali, e si svolge nella cappella di un solitario castello delle montagne d'Estremadura in un'epoca volutamente non precisata. Il Trapezio è, almeno nella parte che fu scritta, fuori di ogni preoccupazione storica, politica, sociale, filosofica, ed è il racconto che un vecchio geometra cinese fa a un suo discepolo per spiegargli le cause profonde, che a un certo momento gli hanno causato la perdita della favella, portandoci dalla Cina, attraverso il Pacifico, a Lima nel Perù tra gente d'ogni paese e d'ogni colore. La situazione del protagonista è, press'a poco, quella del protagonista delle Confessioni di un ottuagenario del Nievo, ed è mirabile come il Boito abbia saputo rappresentare simultaneamente lo stesso uomo giovane e vecchio, questo analizzatore e giudice di quello, dando vita a una figura quale solo un vero artista poteva pensare e plasmare; è la più complessa ch'egli abbia mai immaginato e nella quale sia più profondamente e minutamente discesa la sua analisi, nello stesso tempo ch'è la più compiutamente da lui disegnata, non essendo a petto di essa tutte l'altre sue, del Re Orso, dei libretti e delle novelle, che abbozzi più o meno vigorosi. Il che non vuol dire che tutto ci sia esplicitamente e inesteticamente detto di quell'anima: a un certo punto egli immagina che il protagonista narratore creda di coprire con la ghiottoneria un tutt'altro peccato e si senta invece indovinato dal discepolo devoto: con maggiore semplicità e con maggiore verità non potrebbe farci sentire la delusione di una mente assetata di chiarezza e desiderosa di tutto spiegarsi razionalmente, né con maggiore evidenza porci inanzi quello che di misterioso si cela in ogni anima umana e agisce inavvertito e potente. Questo sentimento di una ineluttabile forza misteriosa che è in noi e anche fuori di noi, è specialmente manifesto e intenso nell'Alfier nero, dove la partita a scacchi che n'è argomento, assorge, direi quasi, a terribilità epica, perché raccoglie e incentra tutta la passione cosciente e incosciente dei giocatori: la passione prima è del negro, preparata e introdotta con un movimento d'insieme che ben rivela l'uomo di teatro ch'era nel Boito, e poi si trasmette al bianco; si concentra nell'alfier nero del giuoco, che, caduto di mano al negro rompendosi, l'uomo bianco aveva accomodato con un po' di ceralacca della quale gli era rimasta una striscia intorno al collo, diventa così, senza sforzo, il simbolo di una razza perseguitata e ribelle, e porta a una catastrofe impensata, ma terribilmente logica. Invece in Iberia, la men felice delle tre novelle, quanto più l'autore accumula e fa grandi le immagini, tanto meno riesce a darci, per esempio, il senso della morte nella descrizione delle ultime ore di don Sancio, in cui è anzi una intima freddezza che ci lascia indifferenti, né anche stupiti del fraseggiare e dell'immaginare. Così nei discorsi e negli atti dei due protagonisti vediamo un giuoco di bambini in contrasto stridente col solenne significato simbolico che l'autore pretende di dar loro; ma quando egli stesso li qualifica di "bimbi assorti in un magico tripudio", quando dice: "i due fanciulli si guardavano, e così vestiti si sembravano più belli", allora egli ha trovato l'intonazione giusta: non più di due bambini che giocano egli ci rappresenta, e possiamo interessarci ad essi e al loro giuoco e alla tragedia nella quale esso si muta. Del resto, che questa novella non estrinsecasse compiutamente il suo concetto, dovette sentire l'autore stesso, tanto è vero che provò, direi, il bisogno di commentarla con l'ultimo capitoletto, il quale poi non commenta e non spiega nulla, anzi intorbida e confonde la visione.
La ragione di ciò va cercata, a mio parere, nell'aver voluto sintetizzare la storia e il carattere della Spagna nell'amore e nella morte di due giovanissimi discendenti di schiatte reali, che quando sono consci, per modo di dire, di questo loro ufficio, non c'interessano, e quando c'interessano non sono che due bimbi qualunque; ma probabilmente è questa la necessaria conseguenza del non aver saputo o potuto rifarsi che dalla più frusta convenzione romantica: questa del Boito è una Spagna victorhughiana, victorhughiani sono i personaggi e victorhughiana, nello spirito, l'azione, – noto di passaggio che secondo il Galletti il Boito avrebbe derivato dal poeta francese solo la materia della Gioconda– , come victorhughiani sono lo sfarzo, meglio diremmo lo sforzo, delle immagini e il fraseggiare breve e rotto, che vuol essere incisivo e non copre il vuoto che gli sta sotto, rendendo la prosa di questa novella singolare tra tutte le altre di lui. Probabilmente il sentimento umanitario e democratico del Boito non trovò dove appoggiarsi nelle torbide vicende politiche della Spagna di quegli anni e, scosso da esse soltanto superficialmente, si accostò a quel paese e a quel popolo con la mente di un letterato e di un ideologo anzi che con l'anima e la fantasia di un artista. Invece non due forze astratte contrastanti e perciò non due simboli, ma due uomini egli seppe cercare e vedere nel negro e nel bianco dell'Alfier nero, e il simbolo mise tra loro, ma fuori di loro, sì che poté far liberissimamente giuocare le loro passioni umane, e dare alla rappresentazione un carattere di immediatezza efficacissima, in cui l'esotismo non ha nulla di ricercato o di forzato. Così nessuno sforzo nell'esotismo del Trapezio, in cui il racconto, lungo e lento ma non prolisso e noioso, che non solo l'interesse è sempre sostenuto, ma quando sembra deva venir meno, proprio allora è avvivato da qualche felicissima battuta, è semplice e di una chiarezza luminosissima: io non so dire donde al Boito sia venuta tanta conoscenza della Cina e dei cinesi, e non di essi solo, né so quanto sia esatta questa conoscenza; ma so che tutto è vivo in questa novella, e se è vivo di una vita che non risponde alla realtà cinese o a qualsivoglia altra realtà, ciò nei rispetti dell'arte non importa niente. Importa nei rispetti della cultura del Boito, e può essere per i suoi biografi argomento interessante di indagine l'origine e l'estensione delle sue conoscenze cinesi. Io, che su questo punto speciale non sono in grado di fermarmi, faccio notare che altra caratteristica comune delle tre novelle, comune anche alle Riviste drammatiche, è lo spaziare che l'autore fa per i vasti campi dell'erudizione storica e letteraria, penetrando anche in quelli delle scienze fisiche e naturali, e che la sua non è dottrina improvvisata e superficiale, ma preparata di lunga mano, larga e soda, meditata, direi, quasi accarezzata, richiamata secondo il bisogno, e solo qualche volta senza che il bisogno veramente lo richieda, sì da dare una lieve impressione d'ostentazione: ciò nell'Alfier nero e, più, nell'Iberia, ma nel Trapezio, per quanto io posso giudicare e ai fini dell'arte, l'assimilazione è mirabilmente perfetta, anzi la scienza è il fondamento se non la sostanza stessa del racconto.
Finalmente un'ultima caratteristica comune alle tre novelle è la pochissima parte che vi è data all'amore: dall'Alfier nero è del tutto assente; nel Trapezio non possiamo dire quale partito ne volesse trarre l'autore, perché il racconto si tronca quando appena si comincia a disegnare il romanzo amoroso; però già ce ne appaiono gli elementi costitutivi nella sensualità ingenua e inconscia, semplice forza elementare della natura, di Ambra e Ramàr, e in quella dissimulata e torbida di Yao: il contrasto sapientemente impostato e rappresentato è tra le più belle testimonianze dei meriti del Boito novelliere. L'amore pare l'elemento preponderante in Iberia, ma oltre ad essere, nei caratteri estrinseci, il solito amore romantico, esso, in verità, non viene dal profondo delle anime e non vi muove nulla; è soltanto una pennellata di colore raccolto nel magazzino dei luoghi comuni e buttato nel quadro per compier la figurazione di quella Spagna di maniera, il che non vuol dire vi manchi del tutto qualche tratto gentile e indovinato.
IV
Le tre riviste drammatiche che ho potuto raccogliere, furono tutte pubblicate nel Politecnico tra il 1866 e il 67, e studiano parecchie opere del teatro di prosa, quasi tutte francesi, d'italiane non esaminando che la Marianna di Paolo Ferrari e un dramma storico, Il ministro Prina, di Giovanni Biffi, oggi dimenticatissimo insieme col nome del suo autore, nonostante le lodi prodigategli dal nostro critico. Esse, come è facile capire, non erano scritte subito dopo la rappresentazione, ma più tardi, di modo che spesso, se non sempre, correggono e compiono le impressioni di questa con la lettura ponderata dell'opera giudicata; tuttavia sembrano scritte molto in fretta, come appare anche dalle incertezze e incongruenze della grafia e da qualche distrazione curiosa, quale quella per cui il personaggio dumasiano di Suzanne d'Ange si sdoppia in Suzanne e nella baronne d'Ange e quella per cui il Porta prende il posto del Grossi come autore della Prineide; di più, qui e nelle novelle, le citazioni e i richiami non sono sempre esatti, e ben si sente che l'autore attinse dalla sua memoria, non, volta per volta, da libri e manuali, ottima prova, a mio parere, che la sua dottrina non era d'accatto e posticcia.
Questa sua larghissima cultura gli permette di cogliere tutte le discendenze e le parentele letterarie, ed eccolo infatti presentare A. Dumas fils come il padre di tutta una abbondante fioritura di commedie, non sempre bene odorante, e ridurre sotto il suo denominatore le opere teatrali di cui va parlando. D'altra parte la sua estesa e larga conoscenza del teatro francese contemporaneo non gli impedisce di tener d'occhio i grandi modelli del passato, e principalmente lo Shakespeare, e non solo lo Shakespeare dei quattro o cinque capolavori più celebrati e più noti, al quale quasi di continuo si richiama: si può dire che il drammaturgo inglese è il poeta ch'egli ha più di tutti famigliare, quasi quanto ha famigliare Dante, del quale ad ogni momento gli cadono senza sforzo sotto la penna parole, frasi, versi interi, ricordi svariati. Ma, fosse la fretta, fosse naturale deficienza del suo spirito, i suoi criteri generali non appariscono chiari, mentre mostra un sentimento profondo e vivace, sebbene pur esso confuso, del grande e del bello; si direbbe che le grandi questioni fondamentali, ma in verità non sono che pseudo-questioni, ad esempio quella delle relazioni tra storia e arte drammatica, a proposito della quale si noti col richiamo al Nerone di Svetonio l'accenno alla pretesa imparzialità del poeta, egli senta da artista e non riesca a fissare e dominare da filosofo. Del resto al suo fervido temperamento di artista più che alla sua ragione di critico gli avviene qualche volta di abbandonarsi con manifesto compiacimento e senza nessun rispetto all'economia generale della sua rivista, e allora egli scrive quelle bellissime pagine, tutte spirito e brio, in cui ritrae i due Dumas o descrive la prima rappresentazione a Parigi dei Nos bons villageoies, pigliando di fronte i magni pontefici della critica parigina e rivelando i segreti moventi dei loro giudizi. Di queste sue pagine né anche l'eco probabilmente giunse a Parigi, e fosse giunta, quei bravi signori né anche se ne sarebbero dati per intesi; ma a noi giova particolarmente notarle, ché sono preziose per la conoscenza dell'uomo oltre che per quella del critico e dell'artista. Naturalmente l'incertezza e l'imprecisione delle idee generali si riflettono nei giudizi particolari, quantunque la fretta vi abbia la sua parte di colpa e nel complesso egli sappia cogliere acutamente e rilevare meriti e difetti, e di ciò possiam trovare una bella prova dove accusa la Marianna del suo amico Ferrari, alla quale è assai severo ma non quanto sarebbe potuto essere, di svolgere nella tela semplicissima soltanto "gli avvenimenti elementari e naturalmente dettati dal soggetto". Se così fosse, Marianna sarebbe un capolavoro. Che cosa voleva dunque dire?
Nella stessa rivista è notevole il giudizio severissimo, e meglio sarebbe dire asprissimo, sulla Ristori, alla quale, scendendo a minuti particolari, rimprovera tra l'altro di accentuare un certo "ci"; io non posso dire per esperienza diretta se quell'appunto fosse giusto, ma la lettura della scena incriminata mi persuase che giustamente l'attrice doveva accentuare quel "ci", raccogliendo su esso il tono carezzevole della madre che vuol fare confessare alla figlia un affetto al quale essa dá il suo tenero consenso. Ma la Ristori probabilmente esagerava e lo squisito sentimento artistico del Boito, per il quale forse idee e sentimenti dovevano riuscire chiari allo spettatore dalla semplice parola, se ne sentiva offeso come da grave stonatura.
In ogni modo, quali siano i difetti di esse, queste riviste non possono per nessun modo essere trascurate, perché, oltre a rivelarci, con le novelle, il Boito prosatore, interessante quanto e forse più del poeta, ci dicono quale serio studioso egli fosse, con quale preparazione, quali principii, quali intenti egli si accingesse alle sue grandi opere: chi non studia queste prose non potrà dire d'intendere appieno l'anima e la mente dell'uomo e dell'artista.
=Gioachino Brognoligo=
NOVELLE
L'ALFIER NERO
Chi sa giocare a scacchi prenda una scacchiera, la disponga in bell'ordine davanti a sé ed immagini ciò che sto per descrivere.
Immagini al posto degli scacchi bianchi un uomo dal volto intelligente; due forti gibbosità appaiono sulla sua fronte, un po' al disopra delle ciglia, là dove Gall mette la facoltà del calcolo; porta un collare di barba biondissima ed ha i mustacchi rasi com'è costume di molti americani. È tutto vestito di bianco e, benché sia notte e giuochi al lume della candela, porta un pince-nez affumicato e guarda attraverso quei vetri la scacchiera con intensa concentrazione. Al posto degli scacchi neri c'è un negro, un vero etiopico, dalle labbra rigonfie, senza un pelo di barba sul volto e lanuto il crine come una testa d'ariete; questi ha pronunziatissime le bosses dell'astuzia, della tenacità; non si scorgono i suoi occhi perché tien china la faccia sulla partita che sta giuocando coll'altro. Tanto sono oscuri i suoi panni che pare vestito a lutto. Quei due uomini di colore opposto, muti, immobili, che combattono col loro pensiero, il bianco con gli scacchi bianchi, il negro coi neri, sono strani e quasi solenni e quasi fatali. Per sapere chi sono bisogna saltare indietro sei ore e stare attenti ai discorsi che fanno alcuni forestieri nella sala di lettura del principale albergo d'uno fra i più conosciuti luoghi d'acque minerali in Isvizzera. L'ora è quella che i francesi chiamano entre chien-et-loup. I camerieri dell'albergo non avevano ancora accese le lampade; i mobili della sala e gli individui che conversavano, erano come sommersi nella penombra sempre più folta del crepuscolo; sul tavolo dei giornali bolliva un samovar su d'una gran fiamma di spirito di vino. Quella semi-oscurità facilitava il moto della conversazione; i volti non si vedevano, si udivano soltanto le voci che facevano questi discorsi:
– Sulla lista degli arrivati ho letto quest'oggi il nome barbaro di un nativo di Morant-Bay.
– Oh! un negro! chi potrà essere?
– Io l'ho veduto, milady; pare Satanasso in persona.
– Io l'ho preso per un ourang-outang.
– Io l'ho creduto, quando m'è passato accanto, un assassino che si fosse annerita la faccia.
– Ed io lo conosco, signori, e posso assicurarvi che quel negro è il miglior galantuomo di questa terra. Se la sua biografia non vi è nota, posso raccontarvela in poche parole. Quel negro nativo del Morant-Bay venne portato in Europa fanciullo ancora da uno speculatore, il quale, vedendo che la tratta degli schiavi in America era incomoda e non gli fruttava abbastanza, pensò di tentare una piccola tratta di grooms in Europa; imbarcò segretamente una trentina di piccoli negri, figliuoli dei suoi vecchi schiavi, e li vendé a Londra, a Parigi, a Madrid per duemila dollari l'uno. Il nostro negro è uno di questi trenta grooms. La fortuna volle ch'egli capitasse in mano d'un vecchio lord senza famiglia, il quale dopo averlo tenuto cinque anni dietro la sua carrozza, accortosi che il ragazzo era onesto ed intelligente, lo fece suo domestico, poi suo segretario, poi suo amico e, morendo, lo nominò erede di tutte le sue sostanze. Oggi questo negro (che alla morte del suo lord abbandonò l'Inghilterra e si recò in Isvizzera) è uno dei più ricchi possidenti del cantone di Ginevra, ha delle mirabili coltivazioni di tabacco e per un certo suo segreto nella concia della foglia, fabbrica i migliori zigari del paese; anzi guardate: questi vevay che fumiamo ora, vengono dai suoi magazzeni, li riconosco pel segno triangolare che v'è impresso verso la metà del loro cono. I ginevrini chiamano questo bravo negro Tom o l'Oncle Tom perché è caritatevole, magnanimo; i suoi contadini lo venerano, lo benedicono. Del resto egli vive solo, sfugge amici e conoscenti; gli rimane al Morant-Bay un unico fratello, nessun altro congiunto; è ancora giovine, ma una crudele etisia lo uccide lentamente; viene qui tutti gli anni per far la cura delle acque.
– Povero Oncle Tom! Quel suo fratello a quest'ora potrebbe già essere stato decapitato dalla ghigliottina di Monklands. Le ultime notizie delle colonie narrano d'una tremenda sollevazione di schiavi furiosamente combattuta dal governatore britannico. Ecco intorno a ciò cosa narra l'ultimo numero del Times: "I soldati della regina inseguono un negro di nome Gall-Ruck che si era messo a capo della rivolta con una banda di 600 uomini ecc. ecc."
– Buon Dio! – esclamò uno voce di donna, – e quando finiranno queste lotte mortali fra i bianchi ed i negri?!
– Mai! – rispose qualcuno dal buio.
Tutti si rivolsero verso la parte di chi aveva profferito quella sillaba. Là v'era sdraiato su d'una poltrona, con quella elegante disinvoltura che distingue il vero gentleman dal gentleman di contraffazione, un signore che spiccava dall'ombra per le sue vesti candidissime.
– Mai, – riprese quando si sentì osservato, – mai, perché Dio pose odio fra la razza di Cam e quella di Iafet, perché Dio separò il colore del giorno dal color della notte. Volete udire un esempio di questo antagonismo accanito fra i due colori?
– Tre anni fa ero in America e combattevo anch'io per la "buona causa", volevo anch'io la libertà degli schiavi, l'abolizione della catena e della frusta, benché possedessi nel Sud buon numero di negri. Armai di carabine i miei uomini, dicendo loro: «Siete liberi. Ecco una canna di bronzo, delle palle di piombo; mirate bene, sparate giusto, liberate i vostri fratelli». Per istruirli nel tiro avevo innalzato un bersaglio in mezzo ai miei possedimenti. Il bersaglio era formato da un punto nero, grosso come una testa, in un circolo bianco. Lo schiavo ha l'occhio acutissimo, il braccio forte e fermo, l'istinto dell'agguato come il jaguar, in una parola tutte le qualità del buon tiratore, ma nessuno di quei negri colpiva nel segno, tutte le palle escivano dal bersaglio. Un giorno, il capo degli schiavi, avvicinandosi a me, mi diede nel suo linguaggio figurato e fantastico questo consiglio: "Padrone, mutate colore; quel bersaglio ha una faccia nera, fategli una faccia bianca e colpiremo giusto". Mutai la disposizione del circolo e feci bianco il centro; allora su cinquanta negri che tirarono, quaranta colsero così… – e dicendo queste ultime parole il raccontatore prese una pistoletta da sala ch'era sul tavolo, mirò, per quanto l'oscurità glielo permise, ad un piccolo bersaglio attaccato al muro opposto e sparò. Le signore si spaventarono, gli uomini corsero alla fiamma del samovar, la presero e andarono a constatare da vicino l'esito del colpo. Il centro era forato come se si fosse tolta la misura col compasso. Tutti guardarono stupefatti quell'uomo, il quale con una squisita cortesia domandò perdono alle dame della repentina esplosione, soggiungendo: – Volli finire con una immagine un po' fragorosa, altrimenti non mi avreste creduto.
Nessuno ardì dubitare della verità del racconto.
Poi continuò: – Ma combattendo per la libertà dei negri, mi sono convinto che i negri non sono degni di libertà. Hanno l'intelletto chiuso e gli istinti feroci. Il berretto frigio non dev'esser posto sull'angolo facciale della scimmia.
– Educateli – rispose una signora – e il loro angolo facciale si allargherà. Ma perché ciò avvenga non opprimeteli, schiavi, con la vostra tirannia, liberi, col vostro disprezzo. Aprite loro le vostre case, ammetteteli alle vostre tavole, ai vostri convegni, alle vostre scuole, stendete loro la mano.
– Consumai la mia vita a ciò, signora. Io sono una specie di Diogene del Nuovo Mondo: cerco l'uomo negro, ma finora non trovai che la bestia.
In questo momento comparve sull'uscio un cameriere con una gran lampada accesa; tutta la sala fu rischiarata in un attimo. Allora si vide in un angolo, seduto, immobile, l'Oncle Tom. Nessuno sapeva ch'egli fosse nella sala, l'oscurità l'aveva nascosto; quando tutti lo scorsero fecesi un lungo silenzio. Gli sguardi degli astanti passavano dal negro all'Americano. L'Americano s'alzò, parlò all'orecchio del cameriere e tornò a sedersi. Il silenzio continuava. Il cameriere rientrò con una bottiglia di Xeres e due bicchieri. L'Americano riempì fino all'orlo i due bicchieri, ne prese uno in mano; il cameriere passò coll'altro dal negro.
– Signore, alla vostra salute! – disse l'Americano al negro, alzando il bicchiere verso di lui come insegna il rito della tavola inglese.
– Grazie, signore; alla vostra! – rispose il negro e bevettero tutti e due. Nell'accento del negro v'era una gentilezza tenera e timida e una grande mestizia. Dopo quelle quattro parole si rituffò nel suo silenzio, s'alzò, prese dal tavolo de' giornali l'ultimo numero del Times e lesse con viva attenzione per dieci minuti.
L'Americano, che cercava un pretesto per ritentare il dialogo, si diresse verso l'angolo dove leggeva Tom, e gli disse con delicata cortesia: – Quel giornale non ha nulla di gaio per voi, signore; potrei proporvi una distrazione qualunque?
Il negro cessò di leggere e s'alzò con dignitoso rispetto davanti al suo interlocutore.
– Intanto permettete ch'io vi stringa la mano, – riprese l'altro; – mi chiamo sir Giorgio Anderssen. Posso offrirvi un'avana?
– Grazie, no; il fumo mi fa male.
Allora l'americano, gettando lo zigaro che teneva fra le labbra, tornò a dimandare:
– Posso proporvi una partita al bigliardo?
– Non conosco quel giuoco; vi ringrazio, signore.
– Posso proporvi una partita agli scacchi?
Il negro titubò, poi rispose: – Sì, questa l'accetto volentieri, – e s'avviarono ad un piccolo tavolo da giuoco che stava all'angolo opposto della sala; presero due sedie, si sedettero l'uno di fronte all'altro. L'Americano gettò i pezzi e le pedine sul panno verde del tavolino per distribuirli ordinatamente sulla scacchiera. La scacchiera era un'arnese qualunque a quadrati di legno grossamente intarsiati, ma gli scacchi erano dei veri oggetti d'arte. I pezzi bianchi erano d'avorio finissimo, i neri d'ebano, il re e la regina bianchi portavano in testa una corona d'oro, il re nero e la regina nera una corona d'argento, le quattro torri erano sostenute da quattro elefanti come nelle primitive scacchiere persiane. Il lavoro sottile di questi scacchi li riduceva fragilissimi. All'urto che presero quando l'Americano li riversò sul tavolo, l'alfiere dei neri si ruppe.