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Czytaj książkę: «Agide», strona 5

Czcionka:

SCENA TERZA

ANFARE, AGIDE fra guardie, LEONIDA,

POPOLO, EFORI, SENATORI.

ANFAR. Spartani, efori, re, costui ch'io traggo davanti al vero tribunal di Sparta, Agide egli è d'Eudámida. Giá il regno con Leonida ei tenne; il cacciò poscia dal trono, a cui nuovo collega assunse Cleómbroto. A voi piacque, indi a non molto, ridomandar Leonida, che il seggio ritoglieva a Cleómbroto. Nel sacro asilo allor quest'Agide fuggiva: perché fuggisse, ei vel dirá. Fin ch'egli lá ricovrava, ei re non era; il trono abbandonato avea: ma non privato era ei perciò; che non avea deposta sua dignitá, né stata eragli tolta: non innocente, poiché asil sceglieva; non reo, poiché niun l'accusava. In vostra possanza il diero oggi di Sparta i Numi, senza che víolato il santo asilo fosse da alcun di noi. Lo accuso io quindi ora, a voi tutti, di mutate, infrante, tradite leggi; di tiranniche armi in Leonida e gli efori adoprate; di tiranniche mire, a cui fea base la ribellante compra infima plebe: e, per stringere in fin tutti i suoi tanti delitti in un, di aver tradita e lesa la maestá di Sparta, a voi lo accuso.

AGIDE – Solenne in vero, e dignitosa pompa questa fia: ma, perché di affar tant'alto Sparta non è quí testimonio intera? Perché, qual suolsi ogni accusato, al foro non son io tratto? – È ver, gli efori veggio, e un re quí stassi, e del senato un'ombra: ma pur per quanto l'occhio intorno io giri, non vegg'io cittadini, altri che pochi, potenti, e misti infra gli armati sgherri. La maestá del popolo di Sparta fia questa or forse? Io, non che Sparta tutta, Grecia vorrei quí tutta a udire intenta e le tue accuse, e le discolpe mie. Or, poiché tanta è in voi de' miei delitti l'ampia certezza, or dite: a che pur tormi, con sí gran parte d'ascoltanti, a un tempo della vergogna mia cosí gran parte?

LEON. Per quanto il soffra il loco, assai gran folla di cittadini or vedi, Agide, accolta. Trarti dal limitar del carcer tuo, tu il sai, che fora un cimentar pur troppo la dignitá degli efori, e la stessa tua innocenza, ove l'abbi. Udiati Sparta, del tuo asilo in discolpa, addur finora, che tor cosí tu stesso alla tua plebe de' tumulti volevi ogni pretesto, e ogni mezzo di sangue: infra sue grida, come or vorresti al suo cospetto andarne, e un giudicio ottener libero e queto?

AGIDE Questo giudicio, e il men dannoso a voi, stato sarebbe il percussor mandarmi tosto al carcer: ma questo, assai men queto fia di quel che sperate. In me non parla il timor, no; del mio destin giá certo, securo quí, del par che al foro, io vengo. Giá la sentenza mia so senza udirla: ma, non ne avrò pur danno altro giammai, che quel ch'io da gran tempo ho fermo in core di aver da voi. – Giudici; e, quai che siate, voi spettatori; io vi prevengo or tutti, ch'io, condannato in queste mura e ucciso, non perciò pace col morir vi rendo, com'io il vorrei: né voi, col trarmi a morte, in sicurtá vi rimanete. – Or sia ciò ch'esser vuole. Udiam le accuse.

ANFAR. In nome io ti parlo degli efori; me ascolta. – Agide, hai tu, senza né udirlo, astretto all'esiglio Leonida?

AGIDE Chiamato ei fu in giudicio; e sen fuggia.

LEON. Chiamato io fui, nol niego, ma davanti a fera tumultuante plebe. Esser potea giudicio, quello?..

AGIDE Al par di questo, almeno. Ma, il fuggir ti fu dato: in carcer dunque non eri tu. Mezzi a me pur di fuga non mancavan finora; e al carcer venni, ed in giudicio stommi: e, qual ch'ei fia, no, nol pavento. Io 'l desiava, e godo di udire al fin; di farmi udire io godo.

ANFAR. Infrante hai tu le patrie leggi?

AGIDE Intere restituir le sacre leggi io volli del gran Licurgo: elle non fur mai tolte, ma inosservate, or da gran tempo. Opporsi volle a sí giusta e generosa impresa Leonida: pria l'arte, indi la forza oprava in ciò; ma entrambe invano: allora vinto ei piú dalla propria sua vergogna, che dalla forza altrui, per minor pena ei s'imponea l'esiglio. Ei stesso il dica, se danno io poscia, o securtade e vita a lui recassi. Al suo fuggir, sol uno, di Sparta un grido, ogni oprar suo biasmava, ogni mio benediva. Allora spenti eran gl'iniqui crediti; comuni feansi allor le ricchezze; allora in bando uscian di Sparta il lusso, e i vizj insieme, e il torpid'ozio: e risorgeano, in somma, virtude allora, e libertade. Avreste voi di negarlo ardire? – Ecco i delitti del mio breve regnar, dopo la fuga di Leonida vostro.

ANFAR. Osi tu forse negare ancor, che di tai beni all'esca colti e delusi i cittadini, in breve non fosser tratti a fero strazio? I campi promessi ognora, e non divisi mai; fatti i ricchi, mendici; entrambi oppressi; negherai tu, che a trasgredite leggi, quai tu nomi le nostre, allor la cruda tirannia di te sol non sottentrasse? E tirannide, in ciò piú ria di tanto, che a se di leggi fea mendace velo.

AGIDE Mentr'io per voi di Sparta in campo usciva, mentre agli Etoli in armi io pur mostrava, con danno lor, nuovi Spartani in armi; d'eforo fatto Agesiláo tiranno, ei commettea molt'opre in Sparta inique. Volete voi del suo fallir me reo? Io la pena ne accetto; ove pur colga d'alcune mie virtudi il frutto Sparta: virtú, che voi, di mal talento pieni, pur negar non mi ardite. – Offeso v'hanno, non di Licurgo le tornate leggi, (tant'io feci, e non piú) ma i crudi modi d'Agesiláo? che fare altro vi resta, che me svenare, e proseguir mie imprese?

ANFAR. E a disfar Sparta Agesiláo ti mosse?

 
AGIDE A rifar Sparta, io da me sol mi mossi,
perché Spartan son io.
 
 
ANFAR. Di'; riconosci
per vero re Leonida?
 

AGIDE Conosco un spartano Leonida, che cadde in Termopile morto, con trecento Spartani, a pro di Sparta.

ANFAR. In cotal guisa rispondi tu? La maestá sí poco del senato e degli efori rispetti?

 
AGIDE La maestá di Sparta osservo, e adoro,
nel risponder cosí.
 
 
ANFAR. Colpevol dunque
tu ti confessi?
 

AGIDE E me colpevol tieni tu, che mi accusi? – Omai si ponga, omai fine si ponga al simulato gioco. Discolpe io do pari all'accuse. Io venni quí, per mostrare anco ai nemici miei, ch'io cittadino re, per quanto il possa soffrir l'altezza d'animo innocente, spontaneo me sottomettea pur anco delle leggi all'abuso. – Or, quai che siate, udite, o voi, le mie parole estreme.

ANFAR. A udir, che resta?

AGIDE Assai, ma in brevi detti.

ANFAR. Nulla dei dire…

AGIDE Eforo tu, le leggi non rimembri, o non sai? Parlano a Sparta gli accusati, se il vonno. Odimi dunque tu stesso, e taci. – E voi, Spartani, udite. – In errar sete or da piú cose indotti: d'Agesiláo l'oprar, d'Anfare i gridi, di Leonida l'arte, il tacer mio, tutto a gara ingannovvi. A tal siam giunti noi tutti omai, che a trar d'errar ciascuno, egli è mestier ch'Agide pera. Io stesso giá potea di mia mano a me dar morte libera e degna; ma, il fuggir di vita, reo presso voi fatto mi avria. Ben certo era, e sono, in mio cor, che infamia nulla, bench'io soggiaccia a giudici qualunque, mai non fia per tornarmene. Lasciarmi trar vivo io quindi a' miei nemici innanzi sceglieva, e stovvi. Che il morir non temo, vedretel voi: ch'io vendervi ancor cara potrei mia vita ove il volessi, noto faravvel tosto di adirata plebe il terribile grido: in fin, ch'io tengo piú in pregio assai, che non me stesso, Sparta, ven fará certi il morir mio. – Vi esorto, e vi scongiuro, a trarre dal mio sangue l'util di Sparta, e il vostro. I campi, e l'oro, che la mente or vi acciecano, e di pochi in man ridotti, ai possessori al pari fan danno, e a chi n'è privo; i campi, e l'oro, per non voler dividerli coi vostri concittadini, a voi fian tolti, e in breve, dai nemici. La plebe, a voi sí vile perché mendica; la spartana plebe, che abborre voi ricchi possenti e forti piú delle leggi, è molta; aspra la stringe necessitá feroce. Ove a voi giovi rimembrar, che di Sparta e di Licurgo figli son essi al par di voi, ben ponno splendor di Sparta esser costoro ancora, e in un, di voi salvezza. In altra guisa, Sparta e se stessi annulleranno, e voi. Maturo è omai, credete a me, maturo è il cangiamento: il ciel non vuol ch'io 'l vegga; ma vuol ch'ei segua: ad affrettarlo è d'uopo d'Agide il sangue, e il sangue Agide dona. Di voi pietá, non di me, sento: e queste, parole son d'uom che morir sol brama, e che non reca altro desire in tomba, che di salvar la patria sua. Giá posto d'Agide in salvo il nome: a far me grande, ch'altri ad effetto i miei disegni adduca non fia mestier; anzi, gran parte invola a me di gloria il riuscir d'altrui, dopo il tentar mio vano. Ultimo sfogo di vostra rabbia, il mio morir sia dunque; di vostra invidia spenta il frutto primo sia la virtú ripatríata, e l'alte divine leggi di Licurgo in forza tornate, e la spartana eccelsa gara di patrio amor, di libertade, e d'armi.

 
POPOLO Grande è l'animo d'Agide: ingannati
forse noi fummo…
 
 
ANFAR. Il sete, ora, da questi
sediziosi detti…
 

AGIDE Efori, or quanto vi avanza a dir, m'è noto. – Appien compito ho di un re cittadin l'ufficio estremo. Io riedo al carcer mio, dalle cui mura nulla uscirá d'Agide omai, che il nome.