Parla! parla! Parlate! parlate! gridavano in una volta la madre e Fermo. Lucia152, atterrita, costernata, vergognosa, singhiozzando, arrossando, sclamò: Santissima Vergine! Chi avrebbe creduto che le cose sarebbero giunte a questo segno! Quel senza timore di Dio dì Don Rodrigo veniva spesso alla filanda a vederci trarre la seta. Andava da un fornello all'altro, facendo a questa e a quella mille vezzi, l'uno peggio dell'altro: a chi ne diceva una trista, a chi una peggio e si pigliava tante libertà: chi fuggiva, chi gridava; e, pur troppo, v'era chi lasciava fare. Se ci lamentavamo al padrone, egli diceva: badate a fare il fatto vostro, non gli date ansa, sono scherzi, e borbottava poi: gli è un cavaliere, gli è un uomo che può fare del male; è un uomo che sa mostrare il viso. Quel tristo veniva talvolta con alcuni suoi amici, gente come lui. Un giorno mi trovò mentre io usciva e mi volle tirar in disparte, e si prese con me più libertà: io gli sfuggii, ed egli mi disse in collera: ci vedremo: i suoi amici ridevano di lui ed egli era ancor più arrabbiato. Allora io pensai di non andar più alla filanda, feci un po' di baruffa colla Marcellina, per aver un pretesto, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che non ci andrei. Ma la filanda era sul finire, per grazia di Dio; e per quei pochi giorni io stetti sempre in mezzo alle altre, di modo ch'egli non mi potè cogliere. Ma la persecuzione non finì: colui mi aspettava quando io andava al mercato, e vi ricorderete, mamma, ch'io vi dissi che aveva paura d'andar sola, e non ci andai più: mi aspettava quand'io andava a lavare, ad ogni passo: io non dissi nulla; forse ho fatto male: ma pregai tanto Fermo che affrettasse le nozze: pensava che quando sarei sua moglie colui non ardirebbe più tormentarmi; ed ora… Qui le parole della povera Lucia furono tronche da un violento scoppio di pianto.
– Birbone! assassino! dannato! sclamava Fermo, correndo su e giù per la stanza, e mettendo di tratto in tratto la mano sul manico del suo coltello.
– Ma perchè non parlare a tua madre? disse Agnese: se io l'avessi saputo prima…
Lucia non rispose, perchè la risposta, che si sentiva in mente, non era da darsi a sua madre: tutto il vicinato ne sarebbe stato informato. I singulti di Lucia la dispensavano dall'obbligo di parlare.
– Non ne hai tu fatto parola con nessuno? ridimandò Agnese.
– Si, mamma, l'ho detto al Padre Galdino153 in confessione.
– Hai fatto bene, ma dovevi dirlo anche a tua madre. E che ti ha detto il Padre Galdino?
– Mi ha detto che cercassi di evitare colui; che non vedendomi, non si curerebbe più di me; che affrettassi le nozze; e che se durava la persecuzione, egli ci penserebbe.
– Oh che imbroglio! che imbroglio! riprese la madre.
Fermo si arrestò tutt'ad un tratto; guardò Lucia con un atto di tenerezza accorata e rabbiosa e disse: questa è l'ultima che fa quel birbone.
– Ah no. Fermo, per amor del cielo, gridò Lucia, gettandogli quasi le braccia al collo. No, per amor del cielo. Dio c'è anche pei poveri. Come volete ch'egli ci ajuti se facciamo del male?
– No no, per amor del cielo, ripeteva Agnese.
– Fermo! disse Lucia, voi avete un mestiere ed io so lavorare, andiamo lontano tanto che costui non senta più parlare di noi.
– Ah! Lucia! e poi? non siamo ancora marito e moglie: il curato vorrà farci la fede di stato libero? non saremo pigliati come vagabondi? dove andarci a porre?
Lucia ricadde nel pianto. Sentite, disse Agnese; sentitemi, che son vecchia. Era questa una confessione che la buona Agnese faceva di rado, in caso di somma necessità e quando si trattava di dar fede alle sue parole. Io ho veduto un poco il mondo: non bisogna spaventarsi troppo: il diavolo non è mai brutto come si dipinge; e a noi povera gente le cose pajono talvolta imbrogliate, imbrogliate, perchè non abbiamo la pratica per uscirne. Io ho veduto molte volte dei casi che parevano disperati: un buon parere d'un uomo che aveva studiato aggiustò tutto. Fate a modo mio, Fermo. Pigliate quei quattro capponi, poveretti! che doveva sgozzare io questa mattina pel banchetto: teneteli bene stretti per le gambe, andate a Lecco: sapete dove abita il dottor Pèttola?154. – Lo so benissimo. – Bene, andate da lui, presentategli i capponi: perchè, vedete, quando si vede che uno può regalare, gli si dà retta. Contategli tutto il fatto, e domandategli parere. Eh ne ho visto io della gente che non sapevano dove dar del capo, che andando a consultarsi con lui non trovavano la strada, e dopo d'avergli parlato tornarono a casa vispi come un tincotto che saltellando nella barca, per disperazione, cade nell'acqua e si trova in casa sua. Fate così, Fermo.
Nelle situazioni molto imbrogliate il parere che piace più è quello di pigliar tempo per avere un altro parere definitivo: ogni consiglio che suggerisca una risoluzione presenta ostacoli, difficoltà, nuovi imbrogli: ma questo, di consigliarsi di nuovo e meglio, è semplice, non nuoce e nello stesso tempo dà una lusinga indeterminata che per questo mezzo si troverà una uscita155.
Bisogna confessare che nei romanzi e nelle opere teatrali, generalmente parlando, si vive meglio che a questo mondo: ben è vero che vi s'incontrano birboni più feroci, più diabolici, più colossali, scelleraggini più raffinate, più ingegnose, più recondite, più ardite, che non nel corso reale degli avvenimenti; ma vi ha pure dei grandi vantaggi, ed uno che basta a compensare molti mali, uno dei più invidiabili si è che gli onesti, quelli che difendono la causa giusta, per quanto sieno inferiori di forze e battuti dalla fortuna, hanno sempre in faccia dell'empio, ancor che trionfante, una sicurezza, una risoluzione, una superiorità di animo e di linguaggio che dà loro la buona coscienza, e che la buona coscienza non dà sempre agli uomini realmente viventi. Questi, quando abbiano dalla parte loro la giustizia senza la forza, e vogliano pure ottenere qualche cosa difficile in favore della giustizia, sono obbligati a pensare ai mezzi per giungere a questo loro fine, e i mezzi sono tanto scarsi, e per porli in opera senza guastare la faccenda si incontrano tanti ostacoli, fa bisogno di tanti riguardi, che da tutte queste considerazioni si trovano posti necessariamente in uno stato di esitazione, di cautela e di studio che gli fa sovente scomparire in faccia ai loro avversarj, risoluti ed incoraggiati dalla forza e dalla abitudine di vincere, e spesse volte, convien dirlo, dal favore o sciocco, o perverso degli spettatori. L'uomo retto sente, a dir vero, con certezza e con ardore la giustizia della sua ragione, ma questa sua idea è un risultato, una conseguenza d'una serie di ragionamenti e di sentimenti, per la quale è trascorso il suo animo: se egli la esprime, fa ridere l'avversario, il quale per un'altra serie d'idee è giunto e si è posto in un risultato opposto: e pur troppo, tolti alcuni casi, l'uomo che non ha che sè per testimonio e per approvatore e che vede negli altri contraddizione e scherno perde facilmente fiducia, e quasi quasi è disposto a dubitare, o almeno si trova in quello stato di contrasto che fa comparire l'uomo imbarazzato. Avvien quindi spesse volte che un ribaldo mostra in tutti i suoi atti una disinvoltura, una soddisfazione che si prenderebbe quasi per la serenità della buona coscienza, se fosse più placida e più composta, e che l'uomo onesto e nella espressione esteriore e nell'animo interno mostra e prova talvolta una specie d'angustia e di vergogna, che si crederebbe rimorso, dimodochè a poco a poco finisce per essere soperchiato non solo nei fatti, ma anche nel discorso e nel contegno, e sta come un supplichevole e quasi come un reo dinanzi a colui che lo è veramente.
Si è fatta questa riflessione per ispiegare come il buon Padre Cristoforo, il quale veniva per domandare a Don Rodrigo l'adempimento della più stretta giustizia e la cessazione della più vile iniquità, si rimase come confuso e vergognoso quando si trovò così solo con tutte le sue buone ragioni in mezzo ad un crocchio romoroso e indisciplinato di amici di Don Rodrigo, e in sua presenza156.
In mezzo a questo trambusto vennero i servi a torre le mense, ricevendo e dando urtoni e gomitate: quindi si pose sul desco molle un gran piatto piramidale di marroni arrostiti, e si portarono fiaschi di vino più prelibato, di quello che in Lombardia si chiama vino della chiavetta, e del quale, per un privilegio singolare, ogni proprietario ha sempre il migliore del contorno. Gli elogj del vino, com'era giusto, ebbero una parte della conversazione, senza però cangiarla del tutto: il gridìo continuò per una buona mezz'ora: le parole che si sentivano più spesso erano ambrosia e impiccarli. Finalmente Don Rodrigo si alzò e con esso tutta la rubiconda brigata: e Don Rodrigo, fatte le sue scuse agli ospiti, si avvicinò al Padre Cristoforo e lo condusse seco in una stanza vicina157.
Ognuno può avere osservato che dalla peritosa sposa di contado fino a… fino all'uomo il più disinvolto e imperturbabile, e, per dirla in milanese, il più navigato, tutti hanno certi loro gesti famigliari, certi moti insignificanti, dei quali fanno uso quasi involontariamente, quando trovandosi con persone, colle quali non sieno molto addomesticati, non sanno troppo che dire, o aspettano il momento di dir cosa la quale non è attesa, nè sarà molto gradevole a chi deve intenderla. La differenza che passa tra gl'intrigati e i navigati (son costretto a prendere entrambi i vocaboli dal dialetto del mio paese, il quale non manca d'uomini dell'una e dell'altra specie) la differenza è che i primi coi loro moti incerti e vacillanti e goffi mostrano sempre più il loro imbarazzo e vi si vanno sempre più affondando, mentre negli altri questo disimpegno è nello stesso tempo un esercizio di eleganza e di superiorità. Tutte le classi hanno una provvisione particolare e caratteristica di questi atti, e questa distinzione era più osservabile nei tempi in cui le classi erano più distinte per abitudini e anche pel costume di vestire, il quale si prestava naturalmente ad usi diversi di questo genere. Si potrebbe qui fare una erudita enumerazione di questi gesti, cominciando dai personaggi più celebri e dalle condizioni più note degli antichi Romani, o anche degli Egizj, ma sarebbe troppo provocare l'impazienza del lettore, avido certamente di seguire la nostra interessante storia. Diremo soltanto che gli atti più usuali dei cappuccini per avere, come dicono i francesi, une contenance, erano di accarezzarsi la barba, di fare scorrere il berrettino innanzi indietro dal sincipite all'occipite, di porre la mano destra nella larga manica sinistra e viceversa, o di stirarsi il cordone, o di palpare ad uno ad uno i grossi paternostri del rosario, che tenevano appeso alla cintola. Questa ultima operazione appunto faceva il Padre Cristoforo quando si trovò da solo a solo con Don Rodrigo; di modo che si avrebbe creduto che vi ponesse molta occupazione, ma il lettore sa che il buon Padre era preoccupato da tutt'altro. Del contegno di Don Rodrigo non occorre parlare, giacchè ognun sa che nessuno è tanto sciolto, franco, sgranchiato, quanto un ribaldo dopo un buon desinare. Stava egli però con qualche curiosità e con qualche sospetto di quello che il Padre fosse per dirgli; sospetto che il contegno un po' irresoluto del Padre aveva quasi cangiato in certezza, gli accennò con sussiego che sedesse, si pose egli pure a sedere, e ruppe il silenzio con queste parole: – In che posso obbedirla, Padre? – Questo era il suono delle parole, ma il modo con cui erano proferite voleva dire chiaramente: frate, bada a chi tu parli, e a quello che dirai.
Il tuono insolente di quest'invito servì mirabilmente a togliere ogni imbarazzo al Padre Cristoforo; perchè, risvegliando quell'uomo vecchio che il Padre non aveva mai del tutto spogliato, mise in moto quello che v'era in lui di più franco e di più risoluto: cosicchè, invece di farsi animo, dovett'egli frenare l'impeto che lo spingeva a rispondere sullo stesso tuono, per non guastare l'opera delicata che stava per intraprendere. Onde, con modesta, ma assoluta franchezza, rispose: – Signor Don Rodrigo, il mio sacro ministero mi obbliga a passare un officio con vossignoria. Io desidero ardentemente che nessuna mia parola possa spiacerle, e per antivenire ad ogni disgusto, debbo assicurarla che in tutto quello ch'io sono per dire io ho di mira il bene di lei, quanto quello di qualunque altra persona. – Don Rodrigo non rispose che allungando il volto, stringendo le labbra, aggrottando le ciglia e dando ai suoi occhi una espressione ancor più minacciosa e sprezzante.
Intanto il Padre Cristoforo, benchè fiaccato e frollo delle corse, dei disagj, delle inquietudini e delle parlate di quel giorno158, aveva presa correndo la via per giungere al più presto al convento, e andava saltelloni giù per quel viottolo sassoso, torto e reso ancor più difficile dalla oscurità; andava il povero frate, parte ruminando gli accidenti della giornata e quello che poteva soprastare, parte pensando all'accoglienza che riceverebbe al convento giungendovi a notte già fitta. Vi giunse pur finalmente, mezzo sconquassato, e toccò modestamente il campanello, aspettando quel che Dio fosse per mandare. Il frate portinajo aperse e accolse il nostro figliuol prodigo con quel maladetto misto dì sussiego, di soddisfazione, di clemenza, di commiserazione e di mistero, che gli uomini (tranne l'uno per milione) mostrano sempre in faccia di colui che per qualche suo fallo, o anche per qualche sventura, sembra loro stare in cattivi panni. Il Padre Guardiano le vuoi parlare, disse costui al nostro amico, il quale seguì la sua scorta pei lunghi corridoj e per le scale, rassegnato a toccare una buona gridata e in angustia di ricevere una penitenza la quale gl'impedisse di potere all'indomani trovarsi col servo di Don Rodrigo e fare per gl'innocenti suoi protetti ciò che il caso avesse richiesto.
Giunto alla cella del Guardiano, bussò sommessamente, e vista la faccia seria del Guardiano, si pose le mani al petto, curvò la persona, chinò la testa sul petto e disse: Padre, son balordo. Era questa, chi noi sapesse, la formola usata dai cappuccini per confessarsi in colpa al loro superiore. Bisogna sapere che il Guardiano era contento in fondo del cuore che il Padre Cristoforo avesse commesso un mancamento. Un lettore di otto anni potrebbe qui domandare: perchè faceva il volto serio, se era contento? e gli si risponderebbe, che appunto era contento perchè il Padre Cristoforo gli aveva dato il diritto dì fargli il volto serio. La condotta del nostro amico era tanto irreprensibile che il Guardiano non aveva mai avuto occasione di far uso sopra lui della sua autorità, voglio dire della autorità di riprendere e di punire, e alla prima occasione che ne aveva, gli pareva di esser daddovero il Padre Guardiano. In oltre il Padre Cristoforo, senza fare il dottore, senza disputare, dava però a dividere chiaramente di non approvare alcuni tratti della condotta e della politica dei suoi confratelli e del suo capo, e più d'una volta aveva ricusato di operare di concerto con gli altri; biasimandoli così indirettamente, ma chiaramente: dal che veniva che i frati e il Guardiano avevano per lui più rispetto che amore. E il rispetto veniva, in parte, anche dalla fama di santo che il Padre Cristoforo aveva al di fuori, e che apportava al convento onore e limosine. Non è quindi da stupirsi se il Guardiano si dilettasse nel vedersi davanti balordo quel Padre Cristoforo e gustasse a lenti sorsi l'umiliazione di lui e il sentimento della propria autorità.
– È questa l'ora, diss'egli gravemente, di ritornare al convento?
– Padre, confesso che dovrei esser rientrato da molto tempo.
– E perchè vi siete dunque tanto indugiato? perchè avete violata una regola, che conoscete così bene?
– Fui trattenuto da un'opera di misericordia.
Il Guardiano sapeva che il reo era incapace di mentire, e vide tosto che se avesse voluto andar più ricercando, avrebbe facilmente fatto rivelare al Padre Cristoforo cose che tornerebbero in suo onore: onde gli parve meglio fargli una ammonizione generale sul fallo di cui si era riconosciuto colpevole. Gli disse che preporre le opere volontarie di misericordia all'obbedienza era segno di orgoglio e di amore alla propria volontà: che non era bene quel bene che non è fatto secondo le regole: che bisogna prima fare il dovere e poi attendere alle opere di surerogazione: e altre cose di questo genere. Aggiunse poi che egli, Padre Cristoforo balordo, doveva conoscere di quanta importanza fosse la regola da lui infranta e per la disciplina e per evitare ogni scandalo; ma che per l'età sua e per esser questo il primo suo fallo contro la regola, e perchè si teneva certo che non v'era altro che la violazione della regola, si contentava per questa volta ch'egli prima di coricarsi recitasse un miserere colle braccia alzate: e così lo congedò e si gittò sul duro suo pagliaccio, più soddisfatto però che se si fosse posto sul letto il più delicato, poichè non è da dire quanta consolazione si senta nel far fare agli altri il loro dovere, e nel riprenderli quando se ne allontanano.
Questa fu la mercede che il nostro Padre Cristoforo ebbe della sua giornata, spesa come abbiam detto. Tristo chi ne aspetta altre in questo mondo. Egli recitò il suo buon miserere e lo conchiuse dicendo: Dio, fate misericordia a me e a quel poveretto che io… toccate il cuore di Don Rodrigo, tenete la mano in testa al povero Fermo, salvate Lucia e benedite il Padre Guardiano159. Abbiate pietà dei peccatori, dei penitenti, dei giusti, dei fedeli e degli infedeli, degli oppressi e degli oppressori, dei cappuccini, dei zoccolanti e di tutti i regolari, di tutti gli ecclesiastici e di tutti i laici, dei popoli e dei principi, dei carcerati, dei giudici, dei banditi, dei ladri, dei birri, delle vedove, dei pupilli, dei bravi, dei zingari, degli indemoniati, dei vivi e dei morti. Così sia. Quindi si gettò anch'egli sul suo canile, dove lo lasceremo dormire, che ne ha bisogno160.
Tra il primo concetto di una impresa terribile e l'adempimento, ha detto uno scrittore privo di buon gusto, l'intervallo è un sogno di fantasmi e di paure. Lucia era nelle angosce di questo sogno. Agnese, la stessa Agnese, così risoluta e disposta all'operare, era sopra pensiero, e trovava a stento le parole per rincorare la poveretta. Ma al momento in cui l'azione comincia e l'animo che fino allora tollerava i pensieri che gli passavano sopra, cacciandosi a vicenda e tornando, è costretto a comandare una risoluzione e a dirigere le azioni del corpo, allora egli si trova tutto trasformato: al terrore e al coraggio, che lo agitavano, succede un nuovo terrore, e un nuovo coraggio: l'impresa si affaccia alla mente come una apparizione nuova, inaspettata; si scoprono mezzi e ostacoli non pensati; ciò che sembrava più difficile si trova fatto quasi da sè, l'immaginazione si ferma spaventata, le membra niegano di moversi dinanzi ad un passo che era sembrato il più agevole: il cuore manca alle promesse che aveva fatte con più sicurezza.
Quando s'intese bussare sommessamente alla porta161, Lucia fu presa da tanto terrore, che risolvette in quel momento di soffrire ogni cosa, di esser sempre divisa da Fermo, piuttosto che eseguire la risoluzione presa; ma quando Fermo, entrato, disse: son qui, andiamo; quando tutti si mostrarono pronti ad avviarsi senza esitazione, come a cosa già determinata, Lucia, come strascinata, prese tremando un braccio della madre e un braccio di Fermo e s'avviò colla brigata avventurosa.
Zitti, zitti, nelle tenebre, a passo misurato, giunsero dinanzi alla casa del nostro Don Abbondio, il quale era ben lontano pover uomo! dal pensare che una tanta burrasca si addensasse sul suo capo. Qui si separarono, come erano convenuti: e la coppia innocente, per un viottolo tortuoso, che girava attorno all'orto del curato, e sdrucciolando poi sommessamente dietro il muro di fianco della casa, venne a porsi presso all'angolo di essa; Fermo e Lucia, per trovarsi nel luogo più vicino alla porta ed entrare quando il destro verrebbe; Agnese, per uscire ad incontrare Perpetua nel momento opportuno. Toni, destro, col disutilaccio di Gervaso, che non sapeva far nulla da sè, e senza il quale non si poteva far nulla, si affacciarono bravamente alla porta e toccarono il martello.
– Chi è? gridò una voce alla finestra, che si aperse in quel momento: era la voce di Perpetua. Malati non ce n'è, dovrei saperlo: è forse accaduta qualche disgrazia?
– Son io, rispose Tonio, con mio fratello, che abbiamo bisogno di parlare col signor curato.
– È ora questa da cristiani? rispose agramente Perpetua: che discrezione? tornate domani.
– Sentite: tornerò, o non tornerò: mi trovavo alcuni pochi soldi per pagare al signor curato quel debituccio che sapete: ma se non si può, aspetterò un'altra occasione: questi so come spenderli, e verrò quando ne abbia guadagnati degli altri.
– Aspettate, aspettate: vado e torno: ma perchè venire a quest'ora?
– Se l'ora potete cangiarla, io non m'oppongo: per me son qui; e se non mi volete, me ne vado.
– No no, aspettate un momento; torno con la risposta.
Così dicendo richiuse la finestra: a questo punto Agnese si spiccò dai promessi, e, detto sotto voce a Lucia: coraggio; è un momento; gli è come far cavare un dente, venne a porsi dinanzi la fronte della casa, aspettando che Perpetua aprisse, per far vista di passare.
Perpetua venne infatti tostamente, ed aperse la porta, e disse: dove siete?
Quando i due fratelli si mostravano, Agnese passò dinanzi a loro, e salutò Perpetua, fermandosi un momento sui due piedi.
Buona sera, Agnese, disse Perpetua, donde a quest'ora?
– Vengo dalla filanda, rispose Agnese, e se sapeste… mi sono indugiata appunto in grazia vostra.
– Oh perchè? riprese Perpetua: indi, rivolta ai due fratelli: entrate disse, salite pure, che vengo anch'io. – Quegli entrarono.
– Perchè, ripigliò Agnese, una donna pettegola! non sanno le cose e voglion parlare… credereste? si ostinava a dire che non vi siete sposata con Beppo, perchè egli non vi ha voluto. Io sosteneva che voi l'avete rifiutato…
– Certo, sono stata io; ma chi è costei?
– Questo non fa… ma non potete credere quanto mi sia spiaciuto di non saper ben bene tutta la storia, per confonder colei.
– È una bugiarderia, disse Perpetua, la più nera. Sentite come andò la faccenda, e ho testimonj, vedete. Ehi, Tonio, socchiudete la porta, e salite pure, ch'io verrò poi. Tonio rispose di dentro che si. Perpetua cominciò la sua storia e Agnese si avviò verso l'angolo della casa, opposto a quello dietro cui erano in agguato i due giovani, e quando pur passo passo vi fu giunta, lo voltò, seguita da Perpetua: e voltatolo, tossì per dar segno. Il segno fu inteso, e Fermo traendo Lucia, la quale correva come un leprotto inseguito, in punta di piè vennero fino alla porta, l'aprirono delicatamente e si trovarono nel vestibolo coi due fratelli, che gli stavano aspettando. Chiusero sommessamente il chiavistello162 per di dentro e salirono insieme, mentre Agnese moltiplicava le inchieste, per trattenere la fante. I quattro congiurati, tutti diversamente commossi, ascesero le scale, e posati che furono sul pianerottolo: Toni disse ad alta voce: Deo gratias, ed entrò col fratello, mentre Don Abbondio, che gli aspettava, rispose: Avanti. Fermo e Lucia ristettero dietro la porta: senza muoversi, senza alitare: l'orecchio il più fino non avrebbe potuto ivi intender altro che il battito del cuore di Lucia. Toni, entrato, socchiuse la porta dietro di sè. Don Abbondio, convalescente della febbre, e non guarito della paura, stava seduto su un vecchio seggiolone, ravvolto in una vecchia zimarra, coperto il capo d'un vecchio camauro, sotto il quale si vedeva uno sguardo sospettoso e teso, un lungo naso, e fra due guance pendenti una bocca quale ognuno l'ha dopo d'aver sorbita una ostica medicina. Aveva dinanzi a sè una vecchia tavola e sulla tavola una picciola lucerna, che mandava una luce scarsa sulla tavola e sui dintorni, e lasciava il resto nelle tenebre. Presso alla lucerna, era il breviale, e aperto dinanzi a Don Abbondio il Quaresimale163.
– Ah! ah! fu il saluto di Don Abbondio.
– Il signor curato dirà che siamo venuti tardi, disse Toni inchinandosi, come pure fece più goffamente Gervaso.
– Venite tardi in tutti i modi, rispose Don Abbondio. Basta, vediamo.
– Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo, disse Toni, cavando un gruppetto di tasca.
– Vediamo, replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate irreprensibili.
– Ora, signor curato, mi darà gli orecchini e la collana, della mia povera Tecla.
– È giusto, rispose Don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno, come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, c'è tutto? disse, indi lo consegnò a Toni.
– Ora, disse Toni, mi favorisca di una riga di quitanza.
– Non vi fidate? rispose bruscamente Don Abbondio. Ecco, volete darmi anche quest'incomodo.
– Che dice mai? s'io mi fido, signor curato: ma dalla vita alla morte…
– Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro nel calamajo. Perpetua! dov'è costei? Perpetua!
– Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, signor curato: anche il calamajo, che farà più presto.
Così, brontolando, tirò un cassettino dal tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi ad alta voce la composizione. Frattando Toni e Gervaso, com'era convenuto, si posero dinanzi allo scrittore in modo da toglierli la veduta della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi. Don Abbondio, tutto nella sua quitanza, non badava ad altro. Al fruscio dei quattro piedi Fermo strinse la mano di Lucia per darle risoluzione, la pigliò con sè e pian piano entrarono nella porta, Lucia più morta che viva, e si collocarono dietro i due fratelli. Don Abbondio, finito ch'ebbe di scrivere, rilesse attentamente da sè, quindi fatta lettura ad alta voce, prima di alzare gli occhi dalla carta: sarete contento? disse, e preso il foglio lo porse a Toni. Toni, allungando la mano per pigliarlo, si ritirò da una parte, Gervaso dall'altra, e i due sposi apparvero in mezzo164 come all'alzare d'un sipario. Don Abbondio intravide, vide, si spaventò, si stupì, s'infuriò, pensò, prese una risoluzione, tutto questo nel tempo che Fermo impiegò a proferire le parole magiche: Signor curato, in presenza di questi testimoni, questa è mia moglie. Le labbra di Fermo non erano ancor tornate in riposo, che Don Abbondio aveva già lasciata cadere la quitanza fatta, afferrata colla manca e sollevata la lucerna e tirato colla destra a sè un tappeto, che copriva il tavolo, gettando a terra il breviale e il quaresimale, e balzando tra la seggiola e il tavolo s'era avvicinato a Lucia; la poveretta con voce tremante aveva appena potuto dire: e questo… che Don Abbondio gli aveva gettato scortesemente il tappeto sulla testa e sul volto, e tenendoglielo colle mani ravvolto e stretto sulla bocca, perch'ella non potesse proseguire, gridava a testa, come un toro ferito: tradimento! tradimento! ajuto! ajuto! Il lucignolo della lucerna, che Don Abbondio aveva lasciata cadere a terra, si moriva mandando un ultimo chiarore, e la povera Lucia, appoggiata a Fermo, coperta così di quel ruvido velo, pareva una statua sbozzata in creta, a cui un rozzo fattore dell'artefice copre la testa con un umido panno. Cessata ogni luce, Don Abbondio lasciò la poveretta, la quale già per sè non avrebbe più potuto proseguire, e pratico com'era del luogo, trovò tosto a tentone la porta della stanza vicina, v'entrò, vi si chiuse e continuò a gridare: tradimento! Perpetua! accorr'uomo: gente in casa! clandestino: tre anni di sospensione! una schioppettata! fuori di questa casa! fuori di questa casa! Perpetua! dov'è costei! Nella stanza tutto era confusione. Fermo, inseguendo come poteva il curato, aveva strascinata con sè Lucia alla porta e bussava gridando: apra, apra, non faccia schiamazzo: apra, o la vedremo. Toni, curvo a terra, girava le mani sul pavimento per trovare la sua quitanza, e Gervaso, spiritato, gridava e andava cercando la porta della scala per porsi in salvo.
Don Abbondio, vedendo che il nimico non voleva sgomberare, si fece ad una finestra che dava sul sagrato, a gridare ajuto. Batteva la più bella luna del mondo, e l'ombra della chiesa e del campanile si disegnava sulle erbe lucenti del sagrato: per quell'ombra veniva tranquillamente165 con un gran mazzo di chiavi pendente alla mano il sagrista, il quale, dopo suonata l'avemaria, era rimasto a scopare la chiesa e a governare gli arredi dell'altare. Lorenzo! gridò il curato, accorrete, gente in casa! ajuto. Lorenzo si sbigottì; ma con quella rapidità d'ingegno che danno i casi urgenti, pensò tosto al modo di dare al curato più soccorso ch'egli non chiedeva e di farlo senza suo rischio. Corse indietro alla porta della chiesa, scelse nel mazzo la grossissima chiave, aperse, entrò, andò difilato al campanile, prese la corda della più grossa campana e tirò a martello166.